Cos'è che sognavo, quella notte?
Mare grosso, brezza tesa.
Le mie iridi erano fuse alla quella linea laggiù, vuota e increspata, bianca come la sclera di un cadavere: quello era il mio orizzonte, il mio avvenire... ma ancora non lo sapevo.
Sognai quella piccola e gratuita zavorra, Irina, che seduta sulle mie ginocchia mi sussurrava cose irripetibili: «Mamma e papà vogliono Irina morta...» cantilenava, e io fissavo i suoi lunghi capelli setosi come se fossero flutti mossi da una corrente marina, profonda e insondabile.
«Ma che dici?» le rispondevo, scandalizzata, ma lei non si scomponeva e i suoi occhi vacui sapevano vedere il paranormale oltre il reale.
«Irina muore presto, Mae, vedrai. Presto...»
«Presto!»
«Presto! Tutti sul cazzo di ponte!»
Mi catapultai dalla mia branda talmente in fretta che il mio sangue rimase giù, in orizzontale, riducendo il mio campo visivo a un insieme di puntini scoppiettanti e luminosi.
Le mie gambe si mossero da sole, mentre il cuore si ritrovava a pompare velocemente litri e litri di puro allarme.
«Rui! Che succede?!» urlai alla gracile ingegnere giapponese, che vedevo correre in lungo e in largo per il corridoio.
«Sovraccoperta, ora!» rispose quello che avevo già sentito, e buttai lo sguardo verso le gambe nude e tremanti di Galatea, che saliva affannosamente la scaletta in metallo.
Non ricordo il tragitto che feci dalla mia cabina al ponte, ma il freddo del metallo e dell'acqua salata sotto ai miei piedi nudi sì.
Non erano solo i miei sogni tormentati: quella notte il mare era davvero grosso e il vento slacciava cime e funi e altri cavi, sbatacchiandoli nell'aria come crine di cavallo al galoppo.
Jalendu, il nostro uomo di scienza indiano, urlava come un ossesso guardando al cielo. Come il delirio di un religioso o l'ennesima bestemmia di un miscredente, il poveretto pareva inveire al firmamento.
No, nulla avrebbe potuto prepararci alla totale perdita d'innocenza dei nostri occhi. Neanche la strana lingua che balbettava Jalendu, improvvisamente dimentico dell'americano comune tra i membri dell'equipaggio.
La natura viscida e complessa del corpo umano si rivelò a noi, tra le fredde luci dei riflettori che partivano dal basso verso l'alto, arrampicandosi sull'albero maestro.
Impiegammo qualche secondo per capire che quella sorta di tocco bovino informe fosse in realtà uno dei nostri. Il corpo di Kenneth era issato in due punti da ganci orribilmente aguzzi, appeso come da macelleria, ed era aperto in due. L'ombra del cadavere era simile a quella di un angelo, sì, ma con ali fatte di cute ventrale falciata con una precisione quasi chirurgica. Le interiora erano gonfie, nere, e quella che pensavo fosse una cima penzolante in realtà si rivelò il suo stesso intestino; metri di oscenità che volteggiavano libere al vento, battezzando le nostre teste col sangue.
Feci qualche passo indietro e vomitai al Traghettatore la mia anima dannata.
La scena pittoresca continuò con le facce paralizzate del capitano e del vice, che avrei voluto strappare e buttare a mare. Era questa la loro professionalità, il loro "controllo" della situazione? Chi di loro ci avrebbe potuto inquadrare quell'orrore gratuito e inspiegabile?
Intorno a me qualcuno piangeva, qualcun altro bestemmiava, a seconda dei vari tipi di credo.
«Comandante! Comandante!» urlava qualcuno, come i dannati del girone più basso che fanno appello a un dio lontano e indifferente.
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Liberaci dal mare
Mystery / ThrillerSette uomini, sette donne, una nave e il baratro sulla follia. Imbarcati in un viaggio apparentemente senza fine, isolati e in rotta per l'ignoto... Maera Durante è una biologa cinica e adultera. Il suo unico obiettivo è lo stipendio a fine missione...