Vento fresco

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«Se do di matto, ammazzami...»

«Lo stai già facendo» Mateo, nudo e immobile contro la testata della branda, mi rispondeva con un vago senso di colpa.

L'unica attività che in quel momento avrebbe potuto tenermi la mente sgombra non aveva funzionato: l'uccello del tipo non ne aveva voluto sapere di alzarsi, con mia grande frustrazione e sua somma vergogna. Il povero Mateo era del tutto giustificato; da due giorni le provviste erano ridotte meno che all'osso e l'omicidio di Leif era rimasto maledettamente irrisolto, dato che non eravamo certo la Polizia scientifica, e tutti avevamo le stesse, insospettabili facce annichilite dagli eventi. Quegli stessi volti che si guardavano in cagnesco l'un l'altro, ormai, dalla notte prima.

Nessuna notizia dall'aldilà. La capitaneria di porto era sparita da una settimana e, come se non bastasse, la mappa satellitare non dava segni di terraferma, neanche uno sputo di scoglio.

Poteva andare peggio di così? Certo che sì. Come quel detto, "non c'è mai fine al peggio".




La schiuma volava e s'infrangeva sul corpo della Salvari, teatro di un male manifesto e ancora irrisolto.

Le condizioni meteo non erano promettenti e lasciavano presagire niente di buono nei prossimi giorni, secondo l'istinto marinaresco della prima in comando.

«E quindi, signora Gavan, stiamo ancora seguendo "la rotta prevista"?»

Ulrika la provocava, solo per vedere delle sottili crepe aprirsi appena nel volto spigoloso del comandante.

Ancora china sulle strumentazioni di plancia, la bionda rispose prontamente: «Forse dimentichi che ti stai rivolgendo a un tuo superiore, vice Bachmann»

Era evidente che Ana stesse tentando di mantenere la calma, mentre la corvina sembrava intenzionata all'attacco.

«Certo, comandante. Ma dopo tutto quello che sta succedendo, lei si sente ancora tagliata per questo lavoro?»

La bionda in comando resistette all'impulso di creare un massacro. Dieci anni di arti marziali avevano dato i loro frutti, perciò Ana appariva stoica ed ermetica nel suo metro e settanta di compostezza.

«Bene, Ulrika. Dato che io non sarei tagliata per questo lavoro, sarai tu a comunicare all'equipaggio l'imminente guasto all'apparato motore.»




Kenneth Leif aveva ventotto anni.

Non sapevamo molto altro di lui, tranne che il suo compito di tecnico alberghiero non era cosa da poco: avrebbe dovuto occuparsi degli impianti di condizionamento e altri apparati più o meno vitali per noi a bordo, e senza la sua mano il minimo guasto – ad esempio, all'impianto di ricircolo d'aria o a quello di depurazione dell'acqua piovana – avrebbe potuto degenerare in tragedia.

Le venticinquenni Babatunde Fe e Rui Muzumi erano due ingegneri neolaureate, ovvero regine della teoria e totalmente inesperte in fatto di problem solving. Solo due dei tanti misteri sulla composizione dell'equipaggio... Ma alle nostre domande non venivano date risposte, per cui avevamo smesso di chiedere apertamente.

Quel pomeriggio eravamo tutti riuniti sovraccoperta, tra gli schizzi violenti delle onde e un cielo schifosamente livido, violaceo e bitorzoluto di cumulonembi.

Tra di noi mancava solo un ecclesiastico e avrebbe tranquillamente potuto starci, data la simpatica eterogeneità dei nostri curriculum vitae.

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