Bava di vento

361 51 89
                                        

«Salvari a base uno. Mi ricevete? Passo.»

Il comandante picchiettava nervosamente le lunghe unghie curate contro la superficie della ricetrasmittente, si mordeva il labbro in attesa di un cenno di vita dall'altra parte dell'apparecchio.

Il vice teneva le braccia incrociate, e le due donne si guardavano di tanto in tanto con occhi gelidi, tuttavia urgenti per una condivisa preoccupazione.

«Salvari a base uno. Non riceviamo vostre notifiche da due giorni. Mi ricevete?! Passo!» Ana Gavan ripeté, spostando i piccoli occhi azzurri verso l'orizzonte nebbioso, ingobbita sul piano di plancia. Ancora nessuna risposta dalla terraferma.

«E adesso che facciamo?»

Ulrika era un vicecomandante un po' troppo insofferente, per i gusti di Ana, che replicò: «Aspettiamo e razioniamo qualsiasi scorta, cibo e materiali di sussistenza»

Il vice puntò il suo naso corvino da una parte all'altra, scuotendo la testa con disprezzo. «L'equipaggio non è composto da un branco di idioti, Ana. Desteremmo sospetti se di punto in bianco facessimo dimezzare il preparato ai cuochi»

«E che altro suggerisci, sentiamo?» serpeggiò la bionda prima in comando, memore degli antichi asti che correvano fra loro.

«Tenere la bocca chiusa, pensi di riuscirci?» sputò il vice, e Ana le voltò le spalle per dirigersi al ponte, ma non prima di averle fatto ingoiare l'ultima parola.

«Giusto, Ulrika. Peccato che in passato tu l'abbia tenuta ben aperta con il mio ex».




La nave era avvolta da un silenzio atipico, quasi spietato.

Io, Maera Durante, da tutta la vita ricercavo quel tipo di gloriosa solitudine. Ma non avevo mai pensato che potesse veramente esistere una tale assenza di suoni, oltre allo sciabordio delle onde pigre contro i fianchi della Salvari.

Anche il mare sembrava prono a tacere, come se si aspettasse qualcosa da noi.

Appoggiata alla ferrosa balaustra di tribordo, osservavo assorta la figura di Mateo, lontano da me, a prua, che armeggiava districandosi tra bobine e funi inerti sotto ai suoi piedi. Senza fare nulla di veramente interessante e imbacuccato nella tuta da elettricista, Mateo aveva ancora un bel culo e gustavo l'idea malsana di continuare a fissarlo fino a sfondare il limite della discrezione. Infatti, ecco che il giovane uomo mi fece un cenno con la mano, salutandomi goffamente.

Risposi alzando il mento, continuando a giacere nella mia ermetica comfort zone, sicché lui mi raggiunse a grandi falcate.

«Maerra, non hai niente da fare?»

Sorrisi per il piccante accento spagnolo che aveva doppiato la mia consonante. «Hai ragione» concessi, staccando finalmente gli occhi dal suo volto sbarbato e innocente. Non m'importava affatto di fare la figura della guardona.

Quella nebbia insistente sembrava aver inghiottito anche quel sottile velo di inibizione che poteva instaurarsi tra un uomo e una donna soli e in balìa delle circostanze; un meccanismo per continuare a perpetuare la mia sanità mentale?

«Ho sistemato un paio di cime, mi preoccupa solo quella carrucola dei cavi elettrici, lì, sull'albero maestro. A occhio, non sembra essere stata tarata bene...» chiacchierava, ma quella sua bella faccia abbronzata mi guardava con interesse, gli occhi ispanici color del cioccolato fondente.

Deglutii appena, evitando di continuare a divorarlo con lo sguardo. Orientando il busto verso il mare, giocherellai con la cerniera della mia tuta impermeabile, e me ne uscii a caso.

Liberaci dal mareDove le storie prendono vita. Scoprilo ora