Capitolo 15- CONSEGUENZE

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«Buongiorno»  salutai, entrando in cucina con uno sbadiglio assonnato.
«'Giorno tesoro.»  Mia madre mi rivolse un largo sorriso. «Ho appena fatto il caffè.»
Annuii con la testa ancora troppo stordita per poter spiccicare qualche parola sensata.
Mio padre emerse nella cucina giusto in quel momento.
«Ciao piccola.»  Mi posò un bacio sulla testa prima di dirigersi verso la ventiquattro ore che teneva sul tavolo.
«Lavori anche di sabato, papà?»  domandai con voce ancora gracchiante.
«Si, ma devo solo controllare alcuni documenti che sono arrivati»  spiegò sistemando una cartelletta dentro la borsa.
«Tesoro»  lo richiamò mia madre abbassando la tazza. «Ricordati che dobbiamo essere dai Durmont per le dodici.»
Mio padre le posò un veloce bacio sulla guancia. «Lo ricordo. Sarò puntualissimo.»
Corrugai la fronte prendendo posto davanti al bancone in marmo. «Andate dai Durmont?»
Mia madre mi scoccò un'occhiata ovvia. «Noi tutti andiamo dai Durmont»  chiarì. «Ricordi il cocktail party?!»
Quello che si ostinavano a definire "cocktail party" andava ben oltre, era una sorta di evento o tradizione che dir si voglia, che iniziava alle dodici del mattino per terminare ad una qualche sfiancate ora della sera, dopo che tutti erano più che soddisfatti dal cibo, del vino e dei pettegolezzi.
In poche parole, i Durmont riempivano casa loro di amici per sollazzarsi nel gigante giardino sul retro della loro imponente villa poco fuori città.
Si, ricordavo il cocktail party, c'era solo un problema...
«Mamma, il cocktail party è la prossima settimana»  le feci notare riservandole un'occhiata scettica.
La sua espressione rimase sicura. «No, tesoro. È la settimana del venti, ed oggi è domenica 20 aprile.»
Scossi la testa ridendo. «Impossibile, oggi è 13.»
Mia madre mi rivolse un'occhiata paziente. «Tesoro...»  con un gesto del dito mi indicò l'orologio digitale che mio padre aveva insistito per piazzare sopra una mensola della cucina, proprio perché oltre l'ora segnava anche il giorno. «Vedi.»
Strabuzzai gli occhi rischiando di lasciarmi sfuggire la tazza di mano.
Su sfondo blu, in un grassetto inequivocabile, faceva bella mostra di se il gigantesco numero 20.
No. Non poteva essere possibile.
Scattai giù dallo sgabello correndo a perdifiato verso il piano di sopra.
Mia madre mi chiamò un paio di volte ma la ignorai, risalii gli scalini a tre a tre fiondandomi nella mia stanza.
La ispezionai con sguardo isterico, individuando il cellulare sulla scrivania.
Lo agguantai con più forza del dovuto, battendo con un dito sullo schermo per illuminarlo.
Sentii il sangue defluire dalla faccia mentre sullo schermo si affacciava la stessa combinazione di cifre con il 20 a far da padrone.
«No. No»  ripetei disperata.
Sbloccai il cellulare con le dita tremanti raggiungendo il calendario personale, scorsi velocemente fino alla stringa della passata settimana e mi paralizzai.
Il cuore prese a martellarmi nelle orecchie mentre i miei occhi atterravano su una data segnata in rosso ma non spuntata.
Non avevo voluto crederci fino all'ultimo, ma adesso era inconfutabile.
Avevo un ritardo di una settimana.

«Tesoro che ci fai ancora in pigiama?»  domandò mia madre quando riemersi in cucina qualche ora dopo.
Nathan e mio padre stavano finendo di sistemarsi i completi per l'occasione e a loro volta mi rivolsero un'occhiata dubbiosa.
Feci una smorfia che non mi costò alcuno sforzo. «Non penso di poter venire a casa dei Durmont»  dichiarai.
I tre si voltarono a guardarmi come se avessi appena tirato fuori una bestemmia.
«Cosa vuoi dire con questo?»  replicò mia madre sistemandosi meglio la stola intorno alle spalle.
Tamburellai con le dita contro il tavolo. «Ho il ciclo.»
Non è che fosse proprio una menzogna, il problema principale era proprio il ciclo, peccato si trattasse di un'assenza e non di una presenza.
«Oh»  esclamò mia madre facendosi improvvisamente comprensiva.
«Non te la senti proprio, tesoro?»  si informò mio padre carezzandomi la schiena con una mano.
Scossi la testa. «Non sto per niente bene.»
E almeno quello era totalmente vero.
Avevo provato ad assimilare la cosa durante quelle ore trascorse nella solitudine della mia stanza, ma avevo fallito.
Non riuscivo a pensare ad altro se non a quel maledetto ritardo, ed ogni volta che ci pensavo il mio stomaco finiva per contrarsi minacciandomi con un senso di nausea devastante.
Stavo rischiando di impazzire e se non volevo perder la testa del tutto, dovevo risolvere quella situazione in giornata.
Mia madre sospirò. «Beh, in questo caso, sei giustificata.»
«Che cosa?»  sbottò Nathan. «Perché lei può saltarlo ed io no?»
«Quando rinascerai donna potremo riavere questa conversazione»  tagliò corto mia madre senza neanche degnarlo di uno sguardo.
«Ma»  instette lui spalancando le braccia prima di ripiegare su un broncio infastidito. «Non è giusto»  ripeté.
Avrei tanto voluto mostrarmi vittoriosa, ogni anno provavamo ad inventare mille scuse per sottrarci a quell'evento, senza mai riuscirci.
Fortuna voleva, che l'unica volta in cui riuscivo ad esserne esentata, la motivazione mi faceva preferire di gran lunga una noiosa e del tutto piatta giornata spesa dai Durmont.
«Dobbiamo andare»  decretò mio padre afferrando le chiavi della macchina.
«Tesoro, hai bisogno di qualcosa?»  si informò mia madre voltandosi per guardarmi.
«Potrei rimanere per aiutarla nel caso di bisogno»  si offrì Nathan che proprio non riusciva ad apparire disinteressato.
Sgranai gli occhi terrorizzata da quella prospettiva. «No»  esclamai di getto richiamandomi addosso delle occhiate sospettose. «Cioè, intendo dire che non c'è bisogno»  chiarii costringendomi a sorridere. «Ho già chiesto ad Amy di passare a farmi compagnia.»
Mia madre sembrò soddisfatta. «Molto bene, allora.»  Batté una pacca sulla spalla di Nathan facendo segno di seguirla. «A dopo, tesoro.»
Attesi di sentire il motore della macchina ed il rumore delle ruote contro il vialetto. Poi scattai nuovamente di sopra.
Afferrai il telefono scorrendo rapidamente i nomi in rubrica fino a trovare quello che mi interessava.
Premetti il tasto di chiamata ed attesi.
Seguii gli squilli battendo a tempo con il piede sulle travi del pavimento.
Cinque squilli e nessuna risposta.
Poi otto squilli.
Al decimo si attaccò la segreteria telefonica facendomi liberare un ringhio.
"Sono Nick e in questo momento non ci sono o non ho voglia di parlare. Se proprio ci tenete, lasciate un messaggio dopo il beep."
«Nick»  ruggii. «Che razza di messaggio sarebbe?! E perché cazzo non rispondi a questo maledetto telefono?»  Socchiusi gli occhi inspirando a fondo per ritrovare un po' di calma. «Senti, è successo qualcosa. In realtà non è successa, ma...»  sospirai. «Vediamoci a casa mia. È importante.»
Riattaccai la chiamata per lanciare il telefono contro il letto.
Sapevo non esserci buone probabilità che sentisse il messaggio a breve ed io non ero disposta ad attendere oltre.
Tornai al piano di sotto, recuperai le chiavi della mia auto ed uscii sbattendomi dietro la porta.

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