Quante scuse ho inventato io
Pur di fare sempre a modo mio
Evitare così
Una storia importante
Non volevo così
Ritrovarmi già grande
-''Una storia importante'' Eros Ramazzotti
Mia madre aveva sempre disdegnato le sue origini. L'idea che i suoi compagni di scuola potessero permettersi borse e macchine infinitamente costose mentre a lei erano permessi pochi spicci per mangiare un boccone, quando usciva quell'unica volta della settimana, la nauseava e la riempiva di vergogna. Si promise che avrebbe vissuto una vita diversa da quella, che in poco tempo avrebbe abbandonato quelle campagne che col suo animo cinico vedeva tutto meno che bucoliche. Prese un buon diploma e si laureò col massimo dei voti; l'unico errore che fece in giovinezza fu rimanere incinta. Il mio padre biologico, a sentire lei, era un ''fallito'', un ''ciarlatano'', un ''misero, povero, provinciale'': di fatto, era il figlio dei suoi vicini di casa. Non gli disse mai della gravidanza, scappò dal paesino e si stazionò nella capitale, destreggiandosi tra pappe ed esami. A venticinque anni conobbe Antonio, bello e ricco da morire, che poi sposò in poco tempo. Tutti i sogni di mia madre erano finalmente realizzati, io restavo l'unico impiccio. Io con la mia risata rumorosa, io col mio strano modo di correre, per niente da signorina, e la mia fame insaziabile, io così diversa da lei. Detestava in special modo i miei occhi, identici a quelli di mio padre, una orribile e raccapricciante finestra sul passato. Il mio patrigno non dimostrò di apprezzarmi di più, ma si offrì ''gentilmente'' di pagare tate e maestre che potessero ''correggere quella bambina troppo vivace''. Compresi sin dall'infanzia quanto la mia personalità fosse un peso per il proprietario di un'azienda sportiva multinazionale e per una stimatissima psicologa, quindi, per non vivere l'inferno in casa, misi da parte quell'esuberanza, sfogando la vera me nella spaziosa cameretta al secondo piano, a ritmo delle trascinanti canzoni di Britney Spears.
Frequentavo il terzo anno di superiori, quando lo conobbi. Matteo Alberti era il ragazzo più popolare del liceo, bravissimo a scuola e amato da tutti, studenti e insegnanti. Mi ricordo ancora la sorpresa che provai nel vederlo quel giorno, seduto nella poltrona del mio grande soggiorno soleggiato. Aveva avuto da poco un incidente con la moto che l'aveva bloccato con la sedia a rotelle: i suoi sogni di diventare un giocatore di basket, realizzabili in quanto era pieno di talento, evaporarono come l'acqua al sole. Gli occhi neri, solitamente ridenti, sembravano spenti. I suoi genitori erano due conosciuti ex atleti, si servivano dal mio patrigno e conoscevano la grande fama di mia madre, quindi chiesero a lei di aiutarlo con la depressione acuta in cui era sprofondato.
Avevo una cotta incredibile per quel ragazzo dal primo anno. Fino ad allora, nonostante la famiglia benestante, non si era mai nemmeno accorto della mia esistenza, complici i due anni di differenza. Essendo mia madre oberata di lavoro, ma non volendo rifiutare di fare favori a dei personaggi così importanti e influenti, accettò di visitarlo in casa, nel salotto al pian terreno.
Mi nascondevo sempre dietro alla ringhiera delle maestose scale, sicura, dopo varie prove, che non potessero vedermi. Era doloroso constatare quanto poco rimanesse della leggenda, quanto alla fin fine anche lui fosse umano. Lo avevo notato in quei giorni a scuola, spavaldo e sicuro come se nulla fosse accaduto. Tutta finzione. Mi faceva male vedere quel viso abbronzato divenuto pallido e magro, mi domandai un'infinità di volte quanto la vita fosse ingiusta, senza arrivare a darmi una risposta. Volevo farlo stare meglio, forse più per egoismo, per sentire ancora quella sensazione di piacere che mi dava il suo sorriso genuino. Quando ci piace una persona, alla fine lo facciamo solo per noi stessi. Quelle palpitanti emozioni che ci regala la presenza, altro non sono che uno stimolo irrazionale volto a soddisfare nessun altro che noi. Non c'è niente di profondo o romantico. L'amore, però, è un'altra cosa. Me lo insegnò lui.
Avendo appreso che l' amava, ero solita comprare la cheesecake, nei giorni in cui veniva. Matteo parlava poco, alcune volte si ammutoliva quasi. Però, quando mamma gli proponeva una fetta di quella buona torta al formaggio, non rifiutava mai.
Inevitabilmente, lo conobbi. Mia madre aveva avuto un impegno improvviso ma si era dimenticata di avvertire Matteo, quindi me lo trovai inaspettatamente in salotto, scortato da una domestica. Mi guardò intensamente mentre scendevo le scale, forse per la prima vera volta. Il suo sguardo pesava sul mio cuore e sulle spalle così tanto che inciampai.
''Qualche gradino più su e avrei dovuto prestarti una di queste'' disse sghignazzando, alludendo a una delle due stampelle. La terapia, che stava andando bene, gli aveva già permesso di fare a meno della sedia a rotelle. Sorrisi e le guance mi si colorarono di un rosso intenso: non era il primo ragazzo con cui mi capitava di parlare, ma...era lui. Era sempre stato lui, dal primo momento che, il secondo giorno di scuola, mi aveva quasi colpita con la palla in corridoio.
Parlammo a lungo, quel pomeriggio. Fu la prima vera volta che comunicai con una persona. Col tempo scoprii quanto fosse bello avere il privilegio di lasciarsi andare con qualcuno che non fosse pronto a giudicare. Si sfogava della sua vita di merda, dei suoi desideri caduti insieme alle stelle, di tutto quello che non sarebbe stato mai. Io facevo lo stesso. Odiavo la mia famiglia che non mi capiva, la negazione della mia natura che mi faceva impazzire. Piangevamo a vicenda l'uno sulla spalla dell'altro, poi ridevamo di tutto quello che invece non avevamo ancora perso. Quando si liberò delle stampelle nessuno lo accettò più in squadra; ormai era un talento sfumato. Allora andavamo al parco e giocavamo a basket, io e lui. Diventai anche abbastanza brava. No, non è vero, ero una frana. ''Sarai una campionessa per me?'' mi domandò staccando le labbra dalle mie. Io gli risposi che avrei fatto qualsiasi cosa, pur di vederlo felice.
Il primo appuntamento lo passammo a parlare in centro, davanti a una bella tazza di cioccolata calda.
Il primo bacio al cinema, quel sabato di gennaio che avevano scelto di trasmettere ''Grease''.
La prima volta che facemmo l'amore era una chiara notte di agosto, in spiaggia, mentre aspettavamo le stelle cadenti.
Il primo ''ti amo'' dopo un pomeriggio passato a giocare intorno al canestro, quando improvvisamente aveva iniziato a piovere.
Poi, la vita ci costrinse a dirci addio. Non ero pronta, forse non sono ancora pronta a lasciar andare quell'amore che mi ha colmata lasciandomi senza respiro, ma che allo stesso tempo mi ha dato l'aria per volare via. Il ricordo di lui è l'unico che mi abbia spinto a dubitare della mia nuova vita. Ho sempre pensato che volendo avrei potuto sopravvivere nel vecchio mondo, nel passato, per lui. Ma non potevo annullarmi per amore, non lo volevo io e di sicuro non lo voleva lui. Eppure ogni tanto mi ritrovo di fronte alla finestra a pensare alle sue labbra sottili, alle guance rosee e al grande petto. Mi domando cosa fa, se sta amando una nuova ragazza nello stesso modo in cui ha amato me, se piacciono anche a lei le carezze sotto al mento. Chiudo gli occhi e il dolore mi invade causando una fitta allo stomaco. In un attimo me lo sento quasi accanto a sussurrarmi che mi ama mentre, da sotto le coperte, mi cinge la vita nuda con un braccio. Sento il suo odore di menta invadermi le narici e le lacrime agli occhi mi obbligano ad aprire gli occhi. Allora muovo le mani sul letto, lo cerco, ma lui non è lì. E non ci sarà mai più.
Come si può dimenticare completamente quella sensazione di protezione, la pace profonda, l'altra metà?
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Il mio dolce capo
Lãng mạnClara, una giovane ragazza appena laureata, inizia a lavorare per la rivista dei suoi sogni. È simpatica, raggiante, ma cerca di scappare dai mostri del passato. Il suo nuovo capo è un uomo arrogante e magnetico, che l'attira a se come una calamita...