Epilogo.

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Erano passati dieci anni dal ratto della bella.
Una mossa astuta e vigliacca, svolta nel cuore della notte come un gatto che fa il gradasso con i topi, ma scappa quando vede un cane.
Perchè questo era lo straniero: un gatto tra i cani.
Poteva atteggiarsi come un essere superiore, quasi come un dio solo perchè era stato il prescelto, per la sua bellezza, per fare da giudice ad una contesa divina.
Il destino che le Parche avevano intrecciato per lui era causare una guerra per amore, vedere i suoi fratelli morire per causa sua.
Ma sopravvivere, finchè una freccia non l'avesse colpito.
Erano stati dieci anni di guerra, di dolore, di sangue rosso come i vessilli di Micene.
L'orfano portava sul viso un tempo liscio come quello di un ragazzo i segni degli anni, con cicatrici e scottature dovute all'incedio della rocca intoccabile.
Zoppicava, perchè lo straniero lo aveva ferito durante il loro duello.
Ma andava fiero di quelle nuove parti di lui, perchè significava che aveva lottato.
Combattuto come un vero uomo.
Il piano dell'astuto, dieci anni prima, si era rivelato una fortuna: la bella era stata strappata dalle braccia di suo marito e c'era stata una guerra.
A volte l'orfano scorgeva di sfuggita il suo riflesso nella lama della spada e si soprendeva nel vedere che non era più la stessa persona di dieci anni prima.
Un tempo c'era innocenza sul suo viso.
C'era tenerezza, gentilezza, un cuore d'oro.
Ma gli erano state rubate, insieme a sua moglie.
Ora era crudele, spietato e senza cuore.
C'era distruzione intorno a lui, la rocca bruciata e rasa quasi del tutto al suolo.
L'orfano avanzò lentamente, quasi godendosi ciò che aveva intorno.
Ma non poteva, non del tutto.
Ogni volta che osservava quella distruzione, gli tornava in mente perchè si fosse stati costretti ad arrivare a quel punto.
Forse la bella e lo straniero erano scappati insieme, senza un graffio o un'ammaccatura.
Eppure lui si chiedeva perchè.
Tra tutti, lei aveva scelto lui.
Perchè lasciarlo allora?
Non c'era nessuno ormai in città, se non le ombre dei morti che vagavano sulle sponde dell'Acheronte sperando che qualcuno desse degna sepoltura ai loro corpi.
Ma Caronte era implacabile, come l'orfano.
All'improvviso, sembrò che tra quelle macerie scure giungesse una luce.
L'orfano alzò lo sguardo e incontrò gli occhi che aveva amato per tutta la vita.
La bella era lì, davanti a lui.
Sembrava che l'orrore non l'avesse toccata, come se le scivolasse addosso senza nemmeno avere il permesso di contaminarla.
Era sacra agli dei e così sarebbe rimasta.
Loro l'amavano, ma lui non più.
La bella avanzò inesorabile e all'orfano parve di vederla come una spada pronta a tagliargli il cuore in due metà.
Lo guardò, come lo aveva guardato quel giorno di dieci anni prima.
Proprio come nel giorno della scelta, gli posò una mano sulla guancia.
Forse si era pentita, forse aveva solo paura che lui le potesse fare qualcosa, forse era convinta di averlo in pugno.
L'orfano ricambiò il suo sguardo e non lo distolse, come aveva sempre fatto fin da quando erano piccoli e giocavano insieme nei giardini del re di Sparta.
Guardò la bella negli occhi e non vi scorse nulla.
Le aveva consegnato il suo cuore ed esso era stato portato via con lei.
Ma un cuore non è un dono che possa venire restituito.
L'orfano fece un passo indietro, con freddezza, e se ne andò.
La sentì che lo chiamava con quella voce che lo aveva sempre fatto sentire al sicuro, sentire amato come mai prima.
Per questo non si voltò.
L'uomo di prima lo avrebbe fatto, ma quell'uomo ora era morto.
Alzò gli occhi al cielo cobalto, dove le prime stelle stavano cominciando a spuntare come ogni sera.
Da qualche parte lassù c'era l'Olimpo, la sacra dimora degli dei che lo avevano condannato a quel terribile destino.
Alla fine la promessa della dea non fu la rovina della bella, ma la rovina dell'orfano.

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