Capitolo 4

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Interi giorni di vuoto, trascorsi ascoltando musica - le prime canzoni scelte rigorosamente con criterio, le altre riprodotte a caso dalla playlist, mentre ormai la mente, distaccata, vagava e non ascoltava più - e osservando il mondo dall'alto del suo terrazzo. A Linda piaceva stare lì: poteva vedere la vita scorrerle davanti, sentirsi viva parte di essa pur stando da sola - gli altri condomini salivano lì raramente, solo quando vi erano dei problemi con le antenne o con le vasche d'acqua. 

Come tutte le altre sere, Linda stava lì, seduta sul solito muretto di mattoni, con la spalla destra appoggiata al muro, le gambe protese sul vuoto e i piedi poggiati sulla ringhiera gelida, ad osservare, ascoltare musica, riflettere. 

In genere pensava alla vita. Prima nella sua insensata generalità, poi nella sua assurda particolarità: scrutava i passanti - quasi li spiava in ogni loro piccolo gesto distratto - e poi immaginava quella che poteva essere la loro vita. 

Osservava tutti, ma non parlava mai con nessuno - la maggior parte delle volte non conosceva nemmeno i loro nomi, e quindi decideva di dargliene uno lei. Il suo preferito era Fabio: un giovane uomo sulla trentina. Lo vedeva spesso, dato che frequentava la pizzeria davanti casa. Era il suo preferito perché la divertiva: ogni sera era accompagnato da una ragazza diversa. E, quando per più sere era in compagnia dalla stessa persona, Linda pensava che non sarebbe durata a lungo. Più volte, infatti, lo aveva visto discutere animatamente con una ragazza che, puntualmente, spariva. 

Poi c'era Irene, una donna di mezz'età, decisamente single. Spesso andava a cena da sola - raramente con qualche amico. Linda non sapeva perché, ma pensava che fosse un peccato. Pensò che di sicuro sarebbe stata una buona madre, dolce e pacifica com'era. 

Infine c'era Marco. Non lo conosceva, ma lo odiava. Lo vedeva andare lì con moglie e figli, ma non si occupava mai di loro. Stava sempre al telefono - sempre a scrivere, distratto, lontano dalla famiglia. Distaccato, come se fosse lì per caso, mentre la donna si occupava dei bambini. Lei li guidava, abbracciava, toccava - lui guardava altrove. Lo odiava, forse, perché gli ricordava suo padre.

Quella sera, però, nonostante davanti a lei si consumasse uno spettacolo di urla e litigi, decise di chiudere gli occhi e ignorare il mondo. Pensò a se stessa, a quella che era la sua vita, così piatta, noiosa e vuota. Pensò all'ultimo periodo: dopo la fuga la sua vita si era come bloccata, come se qualcuno avesse deciso di mettere in pausa quell'insensato e doloroso gioco. 

Non aveva fatto nulla, nemmeno studiato, nemmeno letto o scritto qualcosa. Nulla. Si era semplicemente chiusa in se stessa, nel suo solito mutismo, adagiandosi piano in un baratro di vuoto. Un pozzo senza fondo, in cui ogni tanto riusciva a scorgere qualche breve spiraglio di luce attraverso la fantasia. Fuggiva dalla realtà - dalla sua vita - e ne creava un'altra. Ecco, no, a lei non piaceva stare lì, a distruggere il mondo esistente e crearne uno nuovo ogni sera - ne aveva bisogno per andare avanti. Lo necessitava. 

Ma quello non le bastava più. Era stanca di sopravvivere, di non sentirsi nessuno. Le era andato bene per moltissimo tempo, ma non riusciva più a far finta di niente. Giorno dopo giorno andava sempre peggio - sentiva la vita atrofizzarsi dentro di lei, spegnersi lentamente, attimo dopo attimo, come una candela sotto una campana di vetro. 

Linda voleva vivere, voleva sentirsi spensieratamente viva. Voleva uscire, ridere, bere. Voleva cantare a squarciagola e ballare. Voleva essere allegra, impulsiva e felice. Voleva essere un'altra. 

Un'altra.

All'improvviso riaprì gli occhi, scoppiando a ridere, come se si fosse accesa. Balzò in piedi e, continuando a ridere, tornò a casa. Lei poteva essere un'altra: poteva essere Mary. 

"Mamma, esco!" urlò, non appena aprì la porta d'ingresso. La testa riccia della madre sbucò dal salotto, la prima stanza sulla destra. 

"A quest'ora?" Le chiese, stranita. 

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