de senectute

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I. — Concedi, Attico, di rivolgermi a te con i medesimi metri, che Ennio poeta,
meno eminente per ricchezze che per animo sensibile alla schietta amicizia,
rivolgeva a Tito Quinzio Flamminino, comunque io menomamente non ti creda la
mente giorno e notte così agitata, siccome a quel personaggio. Sono a me troppo noti
il senso e la mitezza tua, portando io ferma opinione che tu prendesti il soprannome da
Atene non, che nel puro tuo accento greco, per l'amenità dei costumi e la giudiziosa
fermezza.
Tuttavia suppongo te dagli stessi casi profondamente commosso, che me pure
talvolta tengono turbato, a confortarci de' quali da noi soli non bastiamo, ed unico
sollievo possiamo aspettarlo dal tempo.
Perciò appunto ho deliberato d'inviarti i miei pensieri intorno alla vecchiezza.
Essa, che ormai ne ha raggiunti e che non sta in poter nostro di sfuggire(2), voglio
pormi con ogni studio a rendere meno tediosa per ambedue, per quanto mi sia nota
la moderazione e saviezza con cui sopporti e sei preparato a sopportare
quest'incomodo, al pari di qualsiasi altro.
E venuto nel proposito di tener discorso della vecchiezza, di te mi risovvenne a
spronarmi in tale divisamento, siccome cosa che potrebbe ridondare a vantaggio
d'ambedue.
Comporre questo trattato mi riuscì tanto più gradito, non che io m'attenda una panacea
universale contro la molestia della vecchiezza: ma perché sembra a me la via di rendere
la presenza di essa più mite e gioconda.
Laonde non potrà mai abbastanza meritamente encomiarsi la filosofia di far
trascorrere a tutti coloro che sanno farne buon uso, senza dispiaceri l'intero corso
della vita.
Ma di ciò a lungo già parlammo altrove e spesse fiate ancora diremo.
Io questo libro intorno alla vecchiaia t'invio: e davvero non parvemi tornasse conto
di porre, siccome fece Aristone di Chio sulle labbra di Titone, questo sermone,
avvegnachè, pronunciato da favolosi personaggi pochi trovasse propensi a credergli
da senno. Bensì mi sembrò più a proposito di farne interlocutore Catone il
seniore onde alle sentenze s'aggiungesse peso mercé l'autorità di tanto nome. —
Lelio e Scipione feci ammiratori della amenità con cui Catone trova di accomodarsi
alla vecchiezza, e di sue argute risposte.
Ove ti sembri che egli in questi dialoghi spenda maggior copia di erudizione, che
non sia solito farlo in altri suoi scritti, il merito è tutto delle lettere greche, da quel
sommo indefessamente coltivate negli anni senili. Ma a che giovano parole?
Lasciamo a Catone medesimo il vanto di porre in maggiore luce le massime nostre
intorno alla vecchiezza.
II. (Lodi a Catone. Opinioni controverse intorno alla vecchiezza.) — SCIPIONE.
Io e Lelio siamo, o Catone, frequenti volte ammiratori del tuo squisito e profondo
sapere in ogni cosa. Ma tanto più viva è la nostra ammirazione, perché consapevoli
che non t'incomoda il peso della vecchiezza, di cui non pochi uomini sono infastiditi
quasi pesasse sul loro dorso il monte Etna.
CATONE. Lelio e Scipione, voi prendete a fare le meraviglie per cosa di lieve conto.
A coloro che entro sé medesimi nulla ponno trovare che li soccorra a condurre
gioconda la vita, torna incomoda ogni età; ma gli uomini che hanno l'animo ricco
di energia, non s'infastidiscono facilmente di ciò che deriva dal necessario ed
immutabile ordine della natura.
Pur troppo la vecchiezza è la prima di queste necessità e nonpertanto gli uomini, a
forza d'incessanti desideri, se l'avvicinano più rapidamente. Ma quando vi sono
arrivati se ne lagnano, tanta è in essi incostanza, leggerezza ed ingiustizia. "Ci ha
colto, dicono costoro, all'impensata, e più pronta che non fosse aspettata."
Anzitutto, io dimando, come mai si condussero a fare un calcolo così fallace? Si
dica in che modo una età succeda all'altra e la vecchiezza sembri incalzata più
presto dall'adolescenza, che questa non sia raggiunta dall'infanzia? Al postutto
sarebbe sedotto da mera illusione che immaginasse una vecchiezza più piacevole,
per ciò solo che la vita potesse durare ottocento anni anziché ottanta. Per lunga
che sia, in un modo o nell'altro passa l'età, e consumata una volta, allo stolido
vecchio non rimane alcun compenso.
Se mai voi mi tenete in conto di uomo giudizioso, e Dio volesse che io fossi degno
della vostra stima e del nome che porto(3), credete a me che ogni mia scienza è
riposta a meditare ed ubbidire, quasi a Divinità, una eccellente guida, la natura.
Ogni periodo della vita, essendo da essa distribuito con tanto senno, non è a
supporsi che, simile a poeta dappoco, abbia studiato con minor diligenza l'ultimo
atto della vita.
Ma siccome cosa fatta capo ha, nella stessa guisa che al chiudersi dell'autunno,
le spiche e i baccelli resi maturi dalla stagione cadono al suolo dagli incurvati rami,
giunto l'uomo al tramonto della vita, le sue forze si logorano ed affievoliscono.
Ultima necessità, che il savio accetta senza ribellarsi: poiché invertere le leggi di
natura, non è forse sull'esempio de' Titani, porsi in lotta con Dio?
LELIO. Or dunque, o Catone, ne farai cosa oltremodo gradita, e te ne sono
mallevadore anche per Scipione, se a noi, preparati alla vecchiezza e nella fiducia di
arrivarvi, tu additerai ben tosto il modo di sopportare quella pesante età.
CATONE. Di buon grado il farò, Lelio, qualora siccome lo dici, possa ciò essere ad
entrambi.
LELIO. Ci proponiamo seriamente, o Catone, di conoscere da te quel sì lungo
cammino che tu già calcasti, sul quale noi pure dobbiamo passare.
III. — CATONE. Ed io mi accingo alla meglio che potrò. Fra coloro a me pari d'età
(gli eguali con gli eguali, dice un antico proverbio, conversano facilmente insieme)
spesse volte m'avvenne udire lamentanze, le quali da Cajo Salinatore e Spurio
Albino, personaggi consolari miei coetanei, erano biasimate; che fossero, cioè, ormai
costretti di astenersi dai piaceri, senza di cui sembrava loro insipida la vita: né essere
tenuti in conto presso loro, da cui per lo passato venivano corteggiati.
Del che, mi sembra, che nel rovesciarne la colpa sulla vecchiezza, fossero costoro
fuori di via. Conciossiaché, se una simile accusa fosse da lei meritata, io pure del
pari avrei dovuto subirne gli effetti, e con me coloro tutti di età più provetta, non
pochi dei quali vidi traversare la vecchiezza senza lagnarsi, né trovare molesto il
languore degli ardenti desideri, né essi mai venire a noia ai loro amici.
Ma per chi attentamente osservi, il peccato non sta nell'età, bensì ne' costumi.
L'uomo di modi gentili e cortesi torna piacevole e gradito anche nella vecchiezza,
mentre gli importuni ed esigenti sono molesti in qualsiasi stadio della vita.
LELIO. Parli ottimamente, o Catone. Ma per avventura non potrebbe taluno farti
osservare che in mezzo alle dovizie, alla copia d'ogni cosa, allo splendore delle tue cariche, ti avviene di sopportare la vecchiezza più agevolmente, il che non da molti è
possibile conseguire?
CATONE. Queste circostanze hanno il loro valore, ma sole non bastano
sicuramente. E siccome narrasi di Temistocle che disputando con cotale serifiese, dal
quale venivagli apposto non essere la di lui gloria merito tutto suo, ma di Atene sua
patria, replicò "Non io, per Dio, sarei illustre, per ciò solo che nativo di Serifo;
ma tu neppure saresti chiaro giammai quando pure fosti nato cittadino ateniese"
altrettanto può dirsi della vecchiezza. Poiché nel modo stesso che l'uomo anche
filosofo, travagliato dalla miseria, troverà incomoda l'età senile, del pari l'ignorante,
benché circondato dagli agi a stento saprebbe compiacersene.
Conforti efficacissimi della vecchiaia, o amici, sono le arti e la pratica delle virtù, le
quali coltivando in ogni tempo, anche nella più tarda età sono feconde di stupendi
vantaggi, sì per non venire meno giammai anche nel più remoto periodo della vita
(del che è massima l'importanza), e perché la coscienza pura di rimorsi, e la
memoria d'avere operato il bene, sono dolcissima soddisfazione dell'uomo.
IV. (Encomio al vecchio Quinto Fabio Massimo.)
Io tuttora giovinetto, tenni caro, come mio coetaneo, quel vecchio Q. Fabio
Massimo che ricuperò Taranto. In quel personaggio la gravità era temperata dalla
cortesia dei modi, né per vecchiezza cambiò costume, benché mi legassi con lui,
non ancora toccata l'età senile, comunque fossi abbastanza maturo.
Io era nato da un anno quando otteneva egli il primo suo consolato, e seco lui, allora
console per la quarta volta, io giovinetto e semplice milite marciava alla volta di
Capua, e poscia a Taranto. Quattro anni dopo venni Questore, la quale carica fu da
me esercitata durante il consolato di Tuditano e Cetego nell'anno 549. A
quell'epoca, Quinto Fabio già vecchio, propugnava la legge Cincia che vietava
agli avvocati di accettar doni e ricompense. Giunto in avanzata età, con ardore
virile condusse la guerra, e seppe stancare la focosa baldanza d'Annibale con le
studiate lentezze.
Di lui egregiamente scrisse Ennio nostro:
Solo coll'indugiar salva fe' Roma:
Spregiò i clamori e vincitore in campo
Gloria n'ebbe sicura e assai maggiore!
Quale non fu la destrezza ed alacrità di quel capitano nel ricuperare Taranto? In mia
presenza, a Salinatore, il quale abbandonata la fortezza s'era ricoverato nella rocca, e
seco lui millantavasi dicendo: "per opera mia, Quinto Fabio, ricuperasti Taranto!" —
"Sì, rispose Massimo sorridendo, né l'avrei ripresa giammai, se tu prima non te
l'avesti lasciata toglier di mano".
Né meno perito dimostrossi nelle civili che non fosse nelle belliche faccende: fu nel
corso del suo secondo consolato, e resistendo alla neghittosa inerzia del collega
Spurio Carvilio, che egli, come meglio seppe, fece opposizione a Cajo Flaminio
tribuno della plebe, il quale, a scapito dell'autorità del Senato, favoreggiava la
legge di scompartimento per capi al popolo delle picene e galliche terre: assunto
alla dignità di augure, osava dire che i presagi erano propizi a chi operava a pro della
repubblica, avversi sempre per coloro che tentavano di nuocerle.
Non pochi egregi atti mi avvenne di ammirare presso quel personaggio; ma nulla
pareggia la fermezza d'animo che mise a sopportare la morte del figlio suo
Marco, giovine di chiara rinomanza e già consolare. Leggendo l'orazione funebre ormai nota a tutti, che egli medesimo ne scrisse, gli stessi filosofi ne sembrano
assottigliati a meschine proporzioni.
Né grande era solamente al cospetto de' suoi concittadini, ma più commendevole
ancora nelle domestiche pareti. Per eleganza nel dire e sapere, preclaro;
nell'archeologia, eruditissimo; profondo nella scienza degli auguri; nelle lettere,
siccome conviensi a cittadino romano; perfettamente colto; dotato di prestante
memoria, nessun particolare gli riusciva nuovo sì delle guerre intestine, che delle
straniere.
Ed io avidamente godeva di conversare con lui, quasi presago di quanto
avvenne; mancatomi un maestro di tanta capacità, non mi fu più possibile di
rinvenirne l'eguale.
V. (Placida vita condotta dai vecchi.) — Assai cose dissi di Massimo e più che basti
a convincervi che non avvi motivo di chiamare disagevole una vecchiezza pari alla
sua.
Ma non tutti però ponno essere Scipioni, o Fabi per godersi nelle rimembranze
di espugnate città, di battaglie campali o di mare — e di guerre condotte e
riportati trionfi. Tranquilla e piacevole trascorre del pari la vecchiezza in seno alle
gentili abitudini d'una vita placida e pura. Così narrasi di Platone che giunto
all'ottantesimo anno si spegnesse scrivendo; di Isocrate che grave di novantaquattro,
componeva il suo libro del Panatenaico, vivendo poscia altri cinque anni. Fu suo
maestro Gorgia Leontino che varcò il centosettesimo anno, senza mai distogliersi
dagli intrapresi studi, né abbandonare le consuete faccende. Richiesto un giorno,
come mai sapesse reggersi in così lunga vita " perché, rispose, la vecchiezza non mi
dà finora motivo di essere malcontento". Sublime risposta, degna di così valentuomo,
conciossiaché gli uomini rozzi solamente incolpano l'età senile di loro melensaggine
e de' loro difetti.
Così non la pensò quell'Ennio, a voi già noto:
Pari a destrier che la sudata arena
Correndo, vinse i contrastati allori
Ed or carico d'anni, sta e riposa
paragona la sua vecchiezza a quella d'antico animoso corsiero vincitore: e di lui
certamente voi potete avere qualche memoria. Diecinove anni dopo sua morte
vennero al Consolato Tito Flaminio e Marco Acilio; ed egli, essendo Consoli, per la
seconda volta Cepione e Filippo, trapassò, allora appunto che, compiuti li
sessantacinque anni, io mi feci a propugnare la legge Voconia con validi argomenti e
con tutta l'energia de' miei polmoni. Ennio toccava il settantesimo anno, ed in
quell'ultimo stadio, povertà e vecchiezza, che tutti credono noje gravissime,
sopportò con tanta fermezza che quasi sembrava compiacersene.
Ad ogni modo, il tutto ben considerato, trovo quattro motivi per cui sembra infelice
questa età.
Il primo, perché distoglie l'uomo dagli affari;
L'altro, perché è accompagnata dalle fisiche infermità;
Il terzo, perché lo priva presso che d'ogni voluttà;
Finalmente, perché confina da vicino con la morte.
Esaminiamo dunque ad una ad una queste accuse per giudicarne la verità.
VI. (La vecchiezza non distoglie l'uomo dai gravi affari.) — Il vecchio è dunque
distolto dall'incumbere agli affari? Ma da quali per Dio? forse da quelli che hanno bisogno di gioventù e fisico vigore. Ma le forze dei vecchi non sono mai ridotte a tale
nullità, che essi non possano supplire con la mente nel governo delle cose, quando le
infermità del corpo hanno affievolita la loro energia. Era dunque assolutamente
inetto quel Quinto Massimo? Inetto, Lucio Paolo tuo genitore, o Scipione, il
quale fu suocero altresi di mio figliuolo, egregia persona? E gli altri vecchi,
Fabrizio, Curio, Coruncanio prestando alla Repubblica l'appoggio del loro
autorevole consiglio, forse che erano buoni da nulla?
Ed Appio Claudio che non solamente era vecchio, ma cieco, quando il Senato
mostrossi propenso alla pace ed all'alleanza con Re Pirro, rimase egli un istante
perplesso a biasimarlo con i detti, che Ennio riferisce ne' seguenti versi:
Senatori, dov'è l'usato senno?
Giudiziosi una volta, or deliranti,
e con altre rampogne dello stesso peso? — A voi quel carme non è cosa nuova.
Esiste pure il discorso dello stesso Appio, da lui declamato diecisette anni dopo il
suo secondo consolato, essendone già passati dieci fra questo e il primo al quale fu
eletto dopo essere stato Censore. Tutto ciò prova quanto ei fosse attempato
all'epoca della guerra con Pirro: e tuttavia, come lo attestano i di lui
contemporanei, parlò con meraviglioso vigore.
Nulla dunque provano coloro che affermano essere inetta agli affari la vecchiezza.
Simili in questa loro opinione a chi giudichi ozioso il pilota, conciossiaché mentre i
marinai salgono sugli alberi, alcuni corrono alle sarte lungo i bordi, ed altri vuotano lo
scafo dell'acqua, solo sta seduto a poppa immobile, stringendo nella mano il timone.
Egli non si affatica come i giovani certamente, ma presta opera assai più essenziale e
migliore.
Alle grandi imprese non sono qualità necessarie il vigore, la flessibilità delle
membra; ma bensì il senno, la dottrina e l'autorità del comando, doti che la
vecchiezza non che scemare, rende complete.
Ed io medesimo che alla volta milite, tribuno, legato, console, sono versato nelle
arti della guerra, forse vi sembro ozioso perché non mi vedete a capitanare un
esercito? E che perciò, se nel Senato mi faccio a proporre ogni fazione militare, e il
modo e il tempo d'operare? Io, con lo sguardo teso sulle puniche frodi, tengo già
ordinato il piano della guerra, prima che essa venga bandita a Cartagine; né cesserò
mai di dare l'allarme, finché quella città non veda distrutta. Piaccia agli Dei, o
Scipione, che sia questa la gloria destinata a te avviato sulle orme dell'avo, il quale,
passato da tredici anni, lasciò di sé memoria imperitura.
Noi fummo Consoli assieme, egli però per la seconda volta; e nove anni dopo se ne
morì, prima appunto dell'anno in cui io stesso venni eletto a Censore. Fosse egli
vissuto cento anni, non avrebbe certamente avuto di che pentirsi per sì lunga
vecchiezza! Aveva abbandonato il salto, la corsa, il maneggio del giavellotto e della
spada, ma era maestro di esperienza e di senno. — E per tali doti che
appartengono di consueto agli uomini attempati, fu dai maggiori nostri il Senato
appellato Consiglio della Repubblica. Del pari presso gli Spartani fra i vecchi
vengono eletti i supremi magistrati, e perciò appunto col nome di seniori chiamati.
Basta il leggere e scorrere le straniere storie, per rinvenirvi ad ogni tratto esempli di
grandi repubbliche poste a soqquadro da giovani, da vecchi puntellate e reintegrate
nella pristina grandezza.
Giace la patria vostra, un dì possente:
Ditemi or voi, perché cadde sì tosto?
È questa la dimanda che Nevio poeta introduce in una delle sue commedie. E fra le
altre osservazioni, sovrasta questa risposta:
Oratori inesperti, stolti, imberbi
Tenner lo Stato e vi dettâr le leggi.
La gioventù pecca per eccessiva temerità; la prudenza appartiene ai vecchi.
VII. (Né memoria né ingegno fanno difetto ai vecchi.) — Si rampognano i vecchi
per fugace memoria. Sia pure, quando fu tarda per natura, o irrugginì per mancanza
di esercizio.
Temistocle chiamava a nome tutti i cittadini: tuttavia ch'il crederebbe? nell'età
avanzata, confondeva i nomi, e salutando Aristide lo appellava Lisimaco. Io
parimenti conobbi non solamente coloro che al presente sono ancora in vita, ma i
padri ed avi loro. Scorrendo le iscrizioni scolpite sui loro sepolcri, non lo faccio,
come asseriscono taluni, per timore di smarrirne la ricordanza, bensì perché in
cosiffatta guisa rivivo fra i trapassati.
Non mi sovviene di persone attempate che nascosto un tesoro, dimenticassero mai il
luogo dove l'avevano celato. Rimembrano esse con rara precisione ogni loro
faccenda, non lasciano cadere in contumacia l'assegnamento delle comparse nel
foro, e tengono nella memoria i nomi de' loro debitori e creditori. Gran numero di
giureconsulti, pontefici, auguri, filosofi, arrivati in età avanzatissima, conservarono
intatta la vasta loro erudizione.
Lo studio e l'alacrità giovano a mantenere vigorosa la mente dei vecchi. E ciò non
avviene solamente per eminenti e chiari personaggi, ma per coloro altresì che vivono
privatamente.
Giunto all'ultimo stadio senile, Sofocle componeva tragedie, e perché assorto dalla
passione dello studio era noncurante degli interessi della casa, venne dai figli
chiamato a renderne conto ai giudici. E nella stessa guisa che in Roma sono
interdetti coloro che malamente amministrano le loro sostanze, così da quel tribunale
veniva Sofocle dichiarato mentecatto e sospeso dal governo della famiglia. Narrasi
di quel vecchio venerabile, che al cospetto dei giudici prendesse a declamare
l'Edipo a Colono, tragedia di fresco composta, in torno a cui stava tuttora lavorando,
e chiedesse loro se quei versi sembrassero dettati da uno stolido? — E quella
recita bastò perché il Tribunale rievocasse la sentenza.
Or dunque Omero, Esiodo, Simonide, Stesicoro, e gli altri già da me nominati,
Isocrate, Gorgia, Pitagora il principe dei filosofi, Democrito, Platone, Zenocrate, e
poscia Zenone, Cleante, e colui che voi tutti vedevate in Roma, lo stoico Diogene,
vennero forse costretti per vecchiezza a dimettersi dagli studi, ovvero li
proseguirono essi nel corso dell'intera vita?
Anche lasciata in disparte la divina occupazione delle lettere, ben io potrei nominarvi
non pochi campagnuoli dell'Agro Sabino miei vicini e famigliari, ai quali punto non
garberebbe che in loro assenza, altri desse mano ad alcun lavoro rurale di qualche
importanza, né alla seminagione, né al raccolto, né al togliere le granaglie dall'aia.
E la gelosia di tali faccende che sono di lunga lena mi desta minor meraviglia,
perché non è un uomo per vecchio che sia, il quale non creda di poter vivere
ancora quell'anno. Tuttavia essi incumbono a non pochi lavori, dei quali ben
sanno che non potranno raccogliere il frutto in vita. "È d'uopo piantare alberi che
preparino l'ombra ai nostri nipoti" dice il nostro Cecilio Stazio nella commedia dei
Giovinetti coetanei.
E il tremolante agricoltore richiesto per chi mai sudi a tracciare solchi novelli vi
risponderà senza imbarazzo: gli Dei immortali ne permisero di ricevere fecondi e
ben coltivati i campi dai nostri maggiori, affinché fossero da noi tramandati nel
medesimo stato ai nostri nipoti.
VIII. (Il conversare con vecchi riesce piacevole). — Quando Stazio Cecilio
alludeva alla previdenza dei vecchi oltre il confine dell'età loro, li avea lasciati
parlare più giudiziosamente che dopo non facesse con i seguenti versi:
Per Giove, se vecchiezza al venir suo
Non traesse altro sconcio, avvene un solo
E questo basta. Per sì lunga etade
Vede assai più, ch'essa veder non brami.
Sia pure, ma scorge altresì non poche delle cose che desidera.
Né i vecchi solamente, ma la gioventù stessa di frequente, si avviene in molti
oggetti che scanserebbe volentieri.
Falsissima però oltre ogni dire è quell'altra sentenza di Cecilio:
Miseri vecchi! Essi lo sanno a prova,
Di farsi coll'età noiosi al mondo.
anziché noiosi, dico io, piacevoli.
Nello stesso modo che ai colti vecchi riesce gradito il conversare con giovani
d'ottima indole, per il diletto che trovano nel rispetto e nella benevolenza della
gioventù, del pari i giovinetti accettano con piacere gli ammaestramenti degli
uomini attempati, siccome indirizzo al retto cammino della virtù. Dal canto mio
credo di non essere meno accetto a voi di quanto voi stessi lo siete a me.
Ma procacciate di evitare che la vecchiezza s'intiepidisca nel languore dell'inerzia,
tenetela tesa nelle utili occupazioni e sempre attenta a qualche studio: non però in
contraddizione con quelli in cui si esercitò nei precedenti anni.
Che dire di coloro che non si stancano dal far dovizia di nuove cognizioni? Non
aspirò forse Solone alla palma della poesia? narra egli non aver mai cessato di
apprendere cose nuove benché assai attempato. Non dissimile da lui io già vecchio
mi diedi allo studio delle greche lettere e con vera passione, onde saziare l'ardente
sete di farmi profondo in quelle dottrine dalle quali ora attingo esempi ad ogni tratto.
Al pari di Socrate datosi con ostinato proposito allo studio della cetra (posciaché
presso gli antichi frequentissimo era l'esercizio della musica) neppure io
dedicandomi allo studio della letteratura greca, volli essere avaro di fatica.
IX. (Le forze de' vecchi sono di altra specie e si fanno amare dai giovani mercé i
loro ragionamenti.) — Venendo a parlarvi della mancanza di forze, altra delle
mende apposte alla vecchiezza, nella mia gravissima età non m'è venuto mai di
invidiare il vigore de' giovani. Io pure, nel fiore degli anni, pago della mia, non mi
sono mai sentito umiliato davanti alla possanza muscolare del toro e dell'elefante.
Il savio è soddisfatto dei mezzi che ha e li impiega tutti ad ottenere l'intento.
Come si mostrò dappoco e spregevole quel Milione di Crotone, il quale reso
cadente per età, allo spettacolo degli atleti nella palestra, mirando con occhi pieni
di lagrime i muscoli del proprio braccio, — e questi, disse, non valgono più a
nulla! — E tu assai meno di essi, vecchio stolido, perché non ti bastò l'animo di
crearti un nome con l'ingegno e quel poco di celebrità te la diedero le spalle e il nerbo del tuo braccio. Assai diversi di cotestui furono Sesto Elio, Tito
Coruncanio che vissero in epoca anteriore, e Publio Crasso, mercé i quali le leggi
a tutela dei cittadini furono poste in vigore e che fecero prova di maturo senno
fino all'ultima età.
Ma, perché dissimularlo? nella vecchiezza pochi sono oratori; mentre a quest'arte
non soccorre il solo ingegno; essa ha bisogno di lena e polmoni. Del resto può essere
conservata anche nella vecchiezza l'armonia della voce; in qual modo poi non saprei
spiegarlo. Essa a me medesimo non venne meno finora, benché molti lustri abbia già
contati.
Il discorso dei vecchi è rotondo, placido, maestoso. Con eleganti ed aggraziate frasi,
non di rado fermano essi l'attenzione de' loro uditori. E se le affievolite forze non
permettono loro più di arringare nella Curia, hanno almeno la compiacenza che
mercé i consigli dati nelle domestiche pareti a giovani generosi del calibro de' Leli
e de' Scipioni, altri eseguiscano quanto fu da loro proposto. Questi uomini canuti
ponno essi trovar compenso più dolce della affezionata gioventù che fa loro
onorevole corona? Ho motivo di credere Gneo e Publio Scipinone e i tuoi due avi
Lucio Emilio e Publio Africano ebbero vaghezza di vivere nel consorzio di nobili
giovani. Ciò prova non doversi stimare meno felici coloro che sono maestri di
dottrina, per ciò solo che consumarono il vigore con l'età. La fisica debolezza
frequenti volte è colpa dei vizi della gioventù, anziché degli acciacchi della
vecchiezza. Una adolescenza disordinata e lasciva rende il corpo snervato e cadente
nell'età senile. Leggesi in Senofonte d'un discorso tenuto dal Re Ciro a vicino a
morte, nel quale afferma di non essersi avveduto che da vecchio le sue facoltà
mentali fossero divenute più deboli che non le avesse in gioventù.
Nella mia fanciullezza ho memoria di Lucio Metello (quattro anni dopo il secondo
Consolato venne eletto sommo Pontefice, e non meno di venti anni più tardi copriva
ancora quella dignità) che giunto all'estrema vecchiezza era robusto al pari di
qualsiasi giovane. Nulla vi dirò sul conto mio, malgrado l'antico uso dei vecchi ai
quali si perdona in grazia dell'età.
X. (Personaggi che condussero robusta vecchiezza.) — Nei poemi di Omero avrete
certamente letto di Nestore eterno panegirista de' propri meriti. Toccando egli
pressoche novant'anni, non ebbe a temere, grazie alla schiettezza con cui parlò di sé
medesimo, di venir giudicato ciarlone esagerato e millantatore. Narra Omero che la
parola scorrevagli sulle labbra più dolce del miele, né a condirla di tanta soavità avea
mestieri di fisica forza. Tuttavia dalle labbra del supremo condottiero de' Greci non
esce mai il voto che dieci Aiaci sieno da anteporsi a dieci Nestori. Se questi ei
possedesse non dubiterebbe della prossima espugnazione di Troia.
Ma ripiglio il discorso per dirvi che giunto all'anno ottantesimoquarto, vorrei pure
sapermene dar vanto come faceva Ciro; ma non posso dissimularvi che le mie forze
sono di gran lunga minori che non fossero quando milite feci la guerra
cartaginese e nella medesima campagna ottenni la carica di Questore; o Console
mi trattenni nella Spagna, e quattr'anni dopo, allorché, Tribuno militare, presi
parte al combattimento presso le Termopili, sotto il Consolato di M. Acilio
Glabrio. Malgrado li gravi sofferti disagi, la vecchiezza, con i lo vedete, non mi
snervò completamente, né sono affranto dalle infermità, e il foro, il tribunale, gli
amici, i clienti, gli ospiti non si lagnano certo che io manchi d'attività.
Non sarò mai per approvare quel vecchio proverbio che dice: non farti vecchio
troppo tardi, se vuoi campar vecchio lungamente. — Preferirei di passare pochi anni
nella vecchiezza, che non avvicinarmela prima del tempo. Ond'è che nessuno
venuto da me per affari, ebbe a cogliermi nell'ozio. Non crediate però che io mi tenga di robustezza pari alla vostra, siccome voi pure
conoscete certamente di essere meno vigorosi del Centurione Tito Ponzio.
Vanta egli per ciò solo un merito maggiore del vostro? Ponno bastare anche forze
moderate, e purché ciascuno faccia né più, né meno di quanto è capace, non potrà
mai essere invidioso d'altri. Narrasi che Milone percorresse lo stadio Olimpico
portando un bue sulle spalle. Sareste voi ambiziosi di questa gloria materiale,
anziché di quella che Pitagora ottenne con il luminoso suo ingegno? Godiamo pure
le forze fisiche finché le abbiamo, ma non rimpiangiamole quando ne
abbandonano. Altrimenti avverrebbe che giovani lamentassimo la puerizia, e fatti
adulti faremmo richiamo all'adolescenza già sfuggita.
L'età procede sempre con passo costante, e natura che batte unica e semplice via, e
assegna ciò che spetta ad ogni stagione della vita, comparte all'infante la debilità, ai
giovani l'intrepidezza, la perseveranza all'adulto, lasciando ai vecchi la prudenza e
il consiglio. E tu stesso, o Scipione, sei in grado di darci contezza del
nonagenario Massinissa ospite tuo e dell'avo. Di quell'uomo, che postosi in viaggio
a piedi, non prendeva certo una cavalcatura; e se a cavallo, non discendeva per
lungo che fosse il cammino, né per gelo o per pioggia coprivasi il capo: di corpo
adusto e muscoloso non mancò neppure ai doveri ed al carattere di Re.
Laonde l'esercizio e la temperanza giovano ai vecchi per conservare una parte del
pristino vigore.
XI. (Il senno supplisce ne' vecchi la fisica debolezza.) — Nella vecchiezza vengono
meno le forze, né vi sarebbe ragione di pretenderne da essa. Per legge è dispensata
da ogni atto, dove sia mestieri vigoria di corpo; nessun obbligo ci corre di fare
quelle cose a cui siamo inetti, e nemmeno di adempirle nella misura che le forze
nostre ce lo permetterebbero. Poiché tale è l'imbecillità di molti vecchi da
renderli incapaci d'ogni ufficio, nonché di qualsiasi comune incumbenza sociale.
Ciò però non potrebbe assegnarsi a vizio speciale della vecchiezza, bensì alle
infermità inseparabili dalla umana natura.
Poteva essere più sfinito di forze quel figlio di Publio Scipione Africano, del
quale tu sei figlio adottivo? Poteva la di lui salute essere più vacillante o per meglio
dire soffrire infermità più ostinate? Se le malattie non avessero reso tanto grave la
sua debolezza, Roma avrebbe vantato una gloria di più, poiché al generoso animo
del genitore accoppiava una erudizione di gran lunga più vasta.
Perché dunque far sì gran caso delle infermità de' vecchi, se i giovani medesimi
talvolta non ponno evitarle?
È mestieri, o Lelio o Scipione, avvezzarsi a far resistenza alla vecchiezza, e supplire
ai di lei incomodi con l'alacrità: combatterla, come avviene delle malattie,
quando ne siamo assaliti. Aver giudiziosa cura della salute; attendere a moderati
esercizi; di cibo e bevanda prenderne quella porzione che basti bensì a rifare le
forze, non mai a intorpidirle.
Il corpo non solo, ma le morali facoltà educare e soccorrere, poiché a guisa della
fiamma che mancando l'olio si spegne, così queste vengono offuscate dalla
vecchiezza. Diversamente dai corpi snervati dall'eccessivo esercizio e dalla fatica,
l'animo è più svegliato quanto più operoso.
Conciossiaché quando il poeta Cecilio ci presenta sulla scena i vecchi stolidi, li
sottintende creduli, smemorati, dissoluti; cattive qualità non appartenenti
all'indole dell'età attempata, bensì generate dall'inerzia, dall'ozio, dalla
svogliatezza, che in certi vecchi diventò abitudine.
A quel modo che inverecondia e libidine sono vizi assai più da giovani, che da vecchi, e
non per questo può darsena la taccia ai giovani tutti, sibbene ai malvagi fra essi; del pari non tutti i vecchi, ma quelli soli di poco cervello si abbandonano alle stolidezze, e
smarriscono il retto criterio.
Appio, vecchio e cieco com'era, governava quattro figli già adulti, cinque figlie,
un servidorame assai numeroso, ed una estesa clientela. Con mente svegliatissima
attendeva a tutti gli affari, i quali non soffrirono mai perché fosse tanto attempato.
Non pago di essere capo della famiglia, ei ne esercitava di fatto il potere: temuto
dagli schiavi, rispettato dai liberi. Tutti lo avevano caro, e la di lui casa offriva un
modello di costumi, e di ordine veramente romano. Così la vecchiezza sostiene il
decoro, e vale a mantenersi indipendente, se non è costretta a spogliarsi
dell'autorità, e se col senno domina la famiglia fino all'ultimo limite della vita.
È degno di tutta la mia stima quel giovine che la pensa da uomo maturo, non meno del
vecchio che conserva vivacità ed animo giovanile, in esso invecchiando bensì il corpo,
l'ingegno reggendosi sempre vigile e pronto.
Dal canto mio, ora sto componendo il settimo libro di Origene, faccio collezione
d'antichi monumenti, attendo indefessamente a ripulire le orazioni da me
pronunciate nelle più celebri cause, studio sui codici degli Auguri, dei Pontefici, e
del diritto civile; faccio altresì quotidiano esercizio di lettere greche, e giusta l'uso
de' pitagorici, onde tenermi pronta la memoria di quanto dissi, ascoltai e feci nella
giornata, tengo nota nella sera. È questa la maniera di affilare l'ingegno, questa la
ginnastica del pensiero. Occupato assiduamente, ottengo di sentire ben poco il
bisogno delle forze del corpo. Non lascio negletti gli amici, di frequente intervengo
alle adunanze del Senato; per quelli e per questo presento memorie profondamente
studiate che faccio valere col vigore dell'animo, anziché con le fisiche forze. Ed ove
me ne sentissi incapace, mi riuscirebbe gradito anche lo stesso letto sul quale starei
adagiato, elaborando col pensiero le idee che non bastassi a mandare ad effetto. Ma
grazie al mio sistema di vita, m'è dato di attendervi e trarle a compimento.
In questo modo per coloro che fra gli studi conducono una vita attiva e indefessa, la
vecchiezza viene quasi inosservata, gli anni si accumulano senza avvedersene, e il
filo dell'età non si spezza all'improvviso, ma nell'attrito d'un giorno con l'altro è
consumato.
XII. (La vecchiezza distoglie dai piaceri sensuali.) — Terzo difetto si appone alla
vecchiezza: d'essere abbandonata dal gusto dei sensi.
O età doppiamente privilegiata se mercé di essa siamo tratti in salvo da ciò che è
fonte di tanti vizi per la gioventù! E qui, ottimi garzoni, imparate quale fosse
l'opinione di Archita di Taranto, filosofo chiarissimo e primo fra i primi di quella
città. A me venne fatto di conoscerla quando tuttora giovinetto ebbi stanza in quella
città con Quinto Massimo.
Diceva quel savio che natura non avea mai percosso gli uomini con flagello
peggiore dei godimenti sensuali. "Da quella sete insaziabile di voluttà sono eccitati
senza verecondia e senza freno. Per essa tradirsi la patria, rovesciarsi le repubbliche,
aprirsi perfidi colloqui col nemico. Non scelleraggine, non misfatto dove non tragga
irresistibilmente la passione delle voluttà; stupri, adulteri ed altre nefandità avere
primo, prepotente eccitamento dalla libidine. All'uomo compartisse natura, o per
avventura un Dio, dote nobilissima, l'ingegno, e la concupiscenza bastare da sola a
corromperlo ed ottenebrarlo. L'uomo nel calore della libidine non sente più il freno,
ed ogni virtù abbandona l'animo di coloro che lasciansi dominare da così sozza
passione." Soggiungendo poi, onde maggiore fosse l'evidenza di questa verità,
doversi immaginare un uomo arso da quell'ardentissima fiamma. "Chi mai
crederebbe, sotto la brutale contrazione di tanto incubo, potesse diverso desiderio o
pensiero schiudersi la via nella sua mente? Avvisava nulla esservi di più vituperoso ed iniquo della voluttà la quale se per lungo tempo irrita i sensi dell'uomo,
irreparabilmente ne spegne ogni lume dell'intelletto."
Tale ragionamento tenne Archita con Caio Ponzio Sannito genitore di quello
stesso che sbaragliò l'esercito dei Consoli Publio Postumio, e Tito Vetturio nella
battaglia di Caudio. Nearco di Taranto ospite nostro, e tanto innoltrato nelle grazie
del popolo romano, affermò averlo udito da persone già attempate, e soggiunse
essere stato presente a quelle parole l'ateniese Platone, che siccome ho letto, aveva
preso stanza in Taranto sotto il consolato di Lucio Camillo e di Appio Claudio.
Ma a qual fine vengo io a narrarvi tante cose? È mio intento di persuadervi che se
non bastasse la sola ragione e la filosofia a rendere odiosi i piaceri sensuali,
teniamo almeno dovere di gratitudine alla vecchiezza, la quale non ne lascia più
desiderare quello che non ne bisogna.
La passione delle voluttà ci toglie il retto criterio, oscura il pensiero, e non associasi
mai con la pratica di qualsiasi virtù.
Io stesso feci cassare dal Senato, otto anni dopo il suo consolato, Lucio
Flamminino fratello di quell'ottimo e valoroso Tito Flamminino, e malgrado il
facessi di mala voglia, ne vergai il decreto, pensando che contro la di lui sfacciata
libidine un esempio fosse necessario. Mentre stava Console in Gallia quell'uomo,
fra i vapori d'un banchetto, ammaliato dai vezzeggiamenti d'una cortigiana,
percosse a morte un prigioniero già condannato per capitali delitti. Questo misfatto
passò inosservato alle investigazioni di suo fratello Tito, assunto a Censore poco
tempo prima che io vi fossi chiamato. Ma da me e da Flacco fu considerata
imperdonabile così scellerata licenza che aggravava il disonore della pubblica carica
con la privata ignominia.
XIII. (Non disdicono ai vecchi gli onesti godimenti della mensa.) — M'avvenne più
volte che i maggiori miei facessero racconto, siccome di fatto accaduto nella loro
età giovanile, che Caio Fabrizio allorquando stava Legato della repubblica
presso il Re Pirro, facesse meraviglie di quanto gli narrò il tessalo Cinea di certo
ateniese, il quale tenevasi in conto di filosofo(4) ed affermava la voluttà servire
d'incitamento a tutte le azioni dell'uomo. Marco Curio e Tito Coruncanio, all'udire
codesta sentenza, fecero voti che Re Pirro e i Sanniti accettassero per vera quella
dottrina nella certezza di poterli vincere più facilmente resi imbelli per sì brutale
passione.
Contemporaneo di Marco Curio e cinque anni prima che questi venisse al Consolato,
Publio Decio, console per la quarta volta, faceva sagrificio della propria vita alla
Repubblica. Era questo Curio amicissimo di Fabricio e di Coruncanio; ed essi, così il
costume di sua vita che l'eroico atto di Decio considerando, avvisavano esservi
certamente alcun che di specie più bella e nobile che per spontanea attrattiva si fa
appetire: ciò che ogni uomo dabbene, posta in non cale la voluttà, dovrebbe fare studio
di conseguire.
Ma ormai fu detto più che basti de' piaceri sensuali, il che torna in lode più che in
biasimo della vecchiezza, se per essa si ammorza la scintilla delle emozioni carnali.
Non ghiotta di squisite vivande, di sontuose mense imbandite e di tazze ricolme,
nemmeno soggiace all'ebbrezza, alle affannose veglie, agli agitati sogni.
Ma se pure in qualche modo è forza compatire al fascino delle voluttà, arduo non poco
essendo combattere il solletico de' sensi (dal divo Platone chiamato esca del male,
essendone gli uomini accalappiati come i pesci all'amo), basti che i vecchi
s'astengano dalle disordinate gozzoviglie senza vietar loro i modesti passatempi, e
i temperati banchetti.
Caio Duillio figlio di Marco, che primo vinse in battaglia navale i Cartaginesi,
io, tuttora adolescente, vidi più d'una volta far ritorno da cena lietamente fra lo
splendore di abbaglianti doppieri e i suoni armoniosi; unico fra i privati cittadini che
si regalasse con tanta magnificenza, la gloria delle sue gesta scusando questa licenza.
E senza parlarvi d'altri, non poss'io di me stesso intrattenervi che sempre vissi in
festose brigate?
Sotto la mia questura vennero istituiti consorzi d'uomini per liete adunanze nei giorni
sacri ai riti di Cibele. In mezzo a questi gioviali convegni si banchettava, ma senza
varcare i limiti della temperanza, sebbene non potesse ammutolire lo slancio vivace
naturale alla gioventù.
Con la matura età però ogni atto si compone a più placidi e pacati modi. Il diletto
di questi banchetti, assai meno stava risposto nei godimenti della gola, che nella
qualità degli amici e del piacevole conversare. Più esattamente dei Greci, gli avi
nostri, dal convivere degli amici a mensa, il nome di convito derivarono. Coloro
invece, appellando sodalizi di bevande e di cibi questi convegni, mostrarono dare la
preminenza alla parte materiale, che avrebbero dovuto tenere in infimo pregio.
XIV. (Gozzoviglie di Catone.) — Per diletto di conversare, amo talora presentarmi
ai conviti prima dell'ora fissata e partirmene dopo; e non siedo soltanto fra i miei
coetanei che ormai sono assai diradati; mi va a genio anche la compagnia dei
giovani dell'età vostra e di voi. E ne tengo debito alla vecchiezza, che di tanto mi
accrebbe il gusto del conversare quanto m'ha scemato quello della bottiglia e de'
manicaretti.
Che se taluni sono ghiotti di questi piaceri sensuali (affinché io non sembri troppo
austero avversario delle voluttà verso le quali per avventura sta nell'uomo una
tendenza naturale) mi asterrò dall'affermare che per essere ormai vecchi sia loro
mancata ogni sensibilità.
Piace anche a me, credetelo, la presidenza della mensa introdotta dai nostri maggiori
e i brindisi che il capo della tavola innalza fra le ricolme tazze, purché, siccome
Senofonte ne apprende nel suo Simposio, queste sieno di piccola forma adattata per
deliberare il vino; mi piace la fresca aura nella state, e nel verno godo al tepore del
sole, o di fiamma vivace, li quali gusti di frequente mi prendo nella mia villa
Sabina. Ivi convito ogni giorni i vicini a cena e vi sediamo fino a notte inoltrata
passando il tempo in giocosi discorsi sopra vari argomenti.
Che lo stimolo sensuale, non si faccia sentire con molta vivacità nei vecchi, lo
credo. Tuttavia l'astinenza non debbe costare ad essi molta fatica. La privazione
d'una cosa non più desiderata, cessa d'essere molesta.
Sofocle richiesto da taluno già in età avanzata perché non si prendesse i piaceri di
Venere "Dio me ne guardi", rispose, "di piena volontà li sfuggo, siccome da tiranno
dispotico e sfrenato". Per verità coloro che sono ghiotti di questi diletti, ne trovano
spiacevole e molesta la privazione; quelli poi che a sazietà ne gustarono, sono
assai più paghi di averli abbandonati, che di goderne. Siccome la pena
dell'astinenza non è sentita da chi non appetisce, preferisco la mancanza del
desiderio al possesso.
I giovani certamente trovano mercato più facile e spontaneo di certe voluttà; ma
anzitutto, diciamolo pure, sono questi piaceri riprovevoli. — Se poi la vecchiezza
non può goder degli altri a profusione, non le manca mezzo tuttavia di gustarli
con moderazione. L'attore Turpio Ambivio diletta certamente assai più coloro che
siedono ai primi posti, ma ponno averne piacere anche gli spettatori collocati ai
secondi.
Del pari la gioventù assapora i piaceri più spensieratamente perché vi si abbandona
con maggiore intimità, ma i vecchi hanno mezzo di esserne soddisfatti anche
tenendosi a moderata distanza da essi, perché sentono bisogni più limitati. Contiamo
forse per poco che l'animo nostro, scosso il dominio delle sozze passioni, quali sono
la libidine, l'ambizione, l'invidia, l'odio, possa vivere in pace, e per così dire, a sé
medesimo? Soccorsa dal pascolo dello studio e della dottrina, la vecchiezza nella
placida sua acquiescenza, può apprestarsi momenti piacevolissimi.
Non vidimo noi Caio Gallo amicissimo del padre tuo, o Scipione, uscir vita
quasi senza avvedersene, tanto fervore metteva negli studi dell'astronomia? Oh
quante volte fu sorpreso dall'aurora dopo essersi posto allo studio nella sera
precedente! Quante volte, la notte sopraggiunse intanto ad un lavoro da lui
incominciato nel mattino! Come godeva quell'ottimo nel predirci assai prima che
non fossero visibili, gli eclissi del sole e della luna?
Che dirò io degli studi meno severi dove però è necessario un pronto ingegno? Con
quanto diletto Nevio ci declamava le imprese della guerra cartaginese! Quanta
compiacenza Plauto sentiva delle sue commedie il Truculento e il Pseudolo?
Sei anni prima della mia nascita, Livio Andronico, già fatto vecchio, non scriveva
forse una tragedia sotto il consolato di Centone e di Tuditano? Tuttavia io era
già fatto adulto che egli stava ancora in vita. Che dirò di P. Licinio Crasso autore
d'un commento sul diritto civile e pontificio? O degli scritti di Publio Scipione(5), il
quale ai nostri giorni noi tutti abbiamo salutato Pontefice massimo?
Questi personaggi che io passai a rassegna, benché carichi d'anni, non cessarono mai
di proseguire con ardore i loro studi. E quel Marco Cetego, chiamato da Ennio con
tanto criterio anima della Dea Suadal(6)
, benché giunto in età avanzatissima, non
vidimo noi ostinatamente immerso nelle profonde sue meditazioni intorno al ben
dire?
Che valgono mai, diciamolo schiettamente, i godimenti della mensa, dei dadi e del
bordello a paragone di quelle morali soddisfazioni? Mercé di codesti studi, viene
creata una dottrina che grado per grado crescente, arriva a sublime stadio, a misura
del senno e dell'ingegno di chi la possiede. Assai giudiziosa massima fu dunque
quella scritta da Solone, in alcuno de' suoi versi, che cioè, dall'invecchiare, ogni
giorno apprendeva qualche cosa, nel che la voluttà provata dall'animo suo era
maggiore di qualsiasi altra.
XV. (L'agricoltura nobile passatempo de' vecchi.) — Vengo ora ai piaceri
dell'agricoltura, la passione dei quali è per me indicibile; prestandosi essi così
bene anche alla vecchiezza, senza digradare le cure dell'uomo dotto.
Gli agricoltori sono intenti al lavoro della terra, la quale non è mai ribelle alla
mano dell'uomo, e rende con usura, talora più, talora meno, ma quasi sempre
generosamente, li semi deposti nel suo seno. La terra non mi porge piacere per i soli
frutti che produce, altresì per il vigore e per le proprietà della sua natura.
Nei di lei solchi squarciati dall'aratro e ricchi di sostanze fermentatrici accoglie lo
sparso seme che asconde nel seno delle infrante glebe (da cui l'arte poscia
inventava l'erpicazione). Il seme dagli ardori solari riscaldato e reso fecondo,
s'inturgida, e ne spunta fuori una verde, sottile erbetta, le tenere fibre della quale
traggono nutrimento dalle di lei radici; a misura che invigorisce s'innalza, e rizzata
sul nodoso stelo, quasi pudibonda, fa velo ai semi nei calici non per anco dischiusi.
Questi apronsi allo spiccare de' grani, che simmetricamente distribuiti, alla voracità
dei piccoli uccelli trovano scudo nei gusci delle spiche.
E se mi trattenessi a parlarvi intorno alla piantagione, al nascimento, allo sviluppo
della vite, ciò farei non per altro, che non sono mai pago di far conoscere la pace e i
placidi passatempi di questa mia senile età. Ma troppo lungo sarebbe il discorrere
della forza vitale d'ogni produzione terrestre, la quale dal granello del fico e
dall'acino della vite fino ai minutissimi semi di tutti i vegetabili, infinite propagini e
rami fa nascere. Chi può non ammirare e dilettarsi alla vista delle piante di radice
vigorosa, degli arboscelli, de' tralci, degli allievi innestati? La vite per indole
propria flessibilissima, che priva di sostegni, giace prostrata al suolo,
meravigliosamente si drizza sui propri capreoli, i quali a guisa di mano afferrano
tutto ciò che sta loro vicino. Guidato dall'arte sua, l'agricoltore le tronca con il
ferro i tralci parassiti che serpeggianti e molteplici spinge per ogni lato, onde
impedire che essa, per lussureggianti rami, inselvatichisca e prodigati facciansi
insipidi i di lei succhi. All'aprire della primavera spunta la gemma sulle
articolazioni dei rami lasciati al tronco, e da essa nasce l'uva, che alimentata dai
calori del sole e dai sali della terra, da principio appare agresta al palato e poscia
maturando acquista dolcezza, e avvolta ne' rigogliosi pampini se ne fa velo
contro i raggi solari, senza perdere il beneficio della tepida temperatura. Non avvi
albero che meglio della vite produca frutto più saporito, e leggiadro allo sguardo. Io
non solo apprezzo altamente l'utilità di essa, ma eziandio mi diletta la di lei
coltivazione, e i vari sistemi di regolarla, l'ordine delle spalliere, l'intrecciamento
delle propaggini, il modo di moltiplicarle, la separazione dei tralci parassiti, e
l'immissione sotterra di quelli che voglionsi far germogliare.
Dirò io dell'irrigazione, della canalizzazione degli scoli, e della concimatura dei
terreni mirabilmente idonea a fomentare la fecondità del suolo?
Appunto perciò sembrommi pregio dell'opera tener separato discorso di essa nel
libro che appositamente scrissi intorno alle cose agrarie, benché Esiodo, per altro sì
dotto, il quale trattò della coltura dei campi, non abbia nemmeno fatto parola degli
ingrassi, che sono primo elemento di fertilità. Omero però, che vari secoli visse
prima di Esiodo, molto a proposito descrive Laerte, il quale onde confortarsi della
dolorosa assenza del figlio Ulisse, sta rivolgendo e concimando l'orto.
Attendere all'agricoltura non diletta solamente mercé la educazione delle messi,
delle praterie, delle vigne e degli alberi, ma torna oltremodo piacevole per tutto ciò
che spetta ai frutteti, agli ortaggi, al pascolo dei greggi, alla cura degli alveari, alla
infinita varietà dei fiori. Al piacere che porgono le piantagioni si può aggiungere
quello dell'innesto, invenzione che onora i progressi dell'agricoltore.
XVI. (Generali romani coltivatori della terra.) — Potrei farvi passare a rassegna
altri non pochi passatempi campestri, se non mi avvedessi d'essermi su questo
argomento già troppo dilungato. Voi però mi sarete indulgenti per tale prolissità in
grazia del profondo studio che feci intorno all'agricoltura, e della naturale tendenza
dei vecchi alla loquacità, con che risparmio l'accusa, che io dissimuli i peccati della
vecchiezza onde farvela assaporare siccome scevra di mende e perfetta.
Gli ultimi anni trascorse nella vita campestre Marco Curio, il trionfatore de' Sanniti,
de' Sabini e di Pirro, ed io, mentre rivolgo gli sguardi alla sua villa, la quale è vicina
alla mia, non mi stanco mai di ammirare, sì la frugalità di quell'uomo, che
l'austerità dei tempi passati. Sedeva egli modesto davanti al focolare, quando venuti
gli ambasciadori di Sannio ad offrirgli in dono una riguardevole somma in oro, Curio
la respinse dicendo: non tenersi da lui in pregio il possesso di quelle ricchezze,
bensì l'impero sopra coloro che le possedevano. — Un animo di tal tempra non
bastava forse a rendere contenta di per sé la propria vecchiezza?
Ma ripigliando il discorso delle cose campestri i senatori d'allora, o per meglio dire i
vecchi, tenevano dimora nel contado. Lucio Quinzio Cincinnato stava conducendo
l'aratro, quando un messo venne ad annunziargli essere egli innalzato alla Dittatura: e fu appunto per suo comando che Caio Servilio Aala mastro della cavalleria, tolse di
vita Spurio Mevio il quale cospirava a farsi Re. Dalle loro ville, quel Marco
Curio e i Senatori venivano al Senato; e da quel costume di abitare i campi ne
venne poi nome di Cursori ai messi incaricati di recare ai Senatori la lettera d'invito.
Or dunque di che mai si potrebbe lamentare l'esistenza di questi vecchi che presero
piacere all'agricoltura? È mia opinione che di più beata non se ne possa
immaginare, non solo per il giovamento alla salute dell'uomo, ma per le
distrazioni che porge, per l'abbondanza e dovizia d'ogni cosa atta al vitto nostro,
non che ai riti degli Dei. Verso le quali voluttà da molti appetite perché non
disoneste, io non mi dimostrai troppo severo. Grazie poi alle cure di esperto e
diligente padrone, li granai, la cantina e le stalle contengono in abbondanza vino,
olio, ed ogni derrata; avvi copia di maiali, capretti, agnelli e pollami.
L'orto dei legumi fornisce di camangiari sussidiari la loro cucina, e quando la
stagione dei raccolti è chiusa, non mancano l'uccellazione e la caccia.
Accennerò io brevemente li prati sempre verdi, li simmetrici filari d'alberi, la
leggiadra disposizione dei vigneti, e i fecondi uliveti? Nulla può paragonarsi a
campo ben coltivato per la ricchezza dei frutti e per il lussureggiante aspetto; la
vecchiezza medesima anziché distogliersene, se ne trova eccitata e sedotta.
Dove, meglio che in villa, il cadente vecchio può ristorarsi al vivido raggio solare,
alla allegra fiamma del focolare; o nell'estiva stagione, al rezzo amico, o nel bagno di
acque salubri?
Abbia pur vanto la gioventù nell'armeggiare, nel guidare destrieri, nel maneggio del
giavellotto e della clava, sia pure agilissima alla corsa ed al nuoto. Fra i vari giuochi
resta sempre a noi vecchi il passatempo dei dati e della trottola. Ambedue questi
giuochi sapranno spassarci; ma non sono necessari alla vecchiezza; non le
mancano passatempi piacevoli anche priva di essi.
XVII. (Re agricoltori dell'antico evo.) — Senofonte scrittore di tante ottime cose,
delle quali io attenta lettura vi raccomando, nel suo libro appellato Economico,
intorno al governo domestico, porta al cielo l'agricoltura: e siccome uomo che alla
regale maestà non reputava indecorosa la pratica di essa, ivi introduce Socrate a
narrare a Critobulo, di Lisandro spartano personaggio di preclaro ingegno venuto
in Sardi, quel messo della lega greca, per offrire presenti a Ciro il Minore re de'
Persiani, rinomato per prestanti virtù e glorioso impero. Questo monarca che
adoperava con l'ambasciadore modi urbani e cortesi nei pubblici affari, un giorno
prese a mostrargli il proprio giardino chiuso da ben contesta siepe, dove stavano
leggiadri filari di bellissimi alberi. Lodava Lisandro la superba altezza di essi con
leggiadria allineati, a spazi equidistanti, il terreno perfettamente purgato e il soave
olezzo de' fiori "non sì forte meravigliandosi (esclamò) di tanta precisione, che della
solerzia e maestria degli autori ed esecutori di sì egregio disegno". — "Io stesso qui
tutto disposi, soggiunse Ciro, mio l'ordine, mia la distribuzione, e non pochi di tali
alberi con le mani mie io stesso piantai." Allora lo spartano mirando le agili
forme del Re, la porpora e la tiara d'oro e di gemme contesta, disse: "A buon
dritto, Ciro, godi fama d'uomo felice, poiché posto in così alto grado basti a
raccogliere tanta virtù".
E diletti di questa specie sono anche ai vecchi permessi, i quali nell'età che
raggiunsero non vengono assolutamente distolti dall'attendere ad altre occupazioni,
e specialmente all'agricoltura, che non disdice nemmanco all'età più avanzata.
È noto che Marco Valerio Corvino visse fino a cent'anni, avendo consumato quasi
intero il corso di sua vita nella coltivazione dei campi. Venne egli per sei volte al
consolato, con intervallo di quarantasei anni fa il primo e l'ultimo. Quel periodo di nove lustri, a cui i maggiori nostri assegnavano il principio della vecchiezza, fu
per esso non interrotto seguito di magistrature; e così l'ultimo stadio di sua vita
passava egli più dolce del medio, possedendo maggior autorità mentre il suo lavoro
era di gran lunga minore.
Altro eminente pregio della vecchiezza è riposto nella considerazione che la
circonda. Quanta mai non fu quella di Lucio Cecilio Metello, e d'Attilio
Celatino, per unico elogio del quale basterebbe l'iscrizione posta al suo nome
sopra una tavola di bronzo: "te saluta primo cittadino di Roma il popolo romano a
gran maggioranza di voti".
È noto l'epitaffio, che fu scolpito sulla sua tomba: veniva tenuto in conto d'uomo
preclaro e fu vera giustizia resa a lui che aveva guadagnata unanime in suo favore la
fama. Quanta eminenza in quel Publio Crasso negli ultimi tempi insignito del sommo
Sacerdozio; in Marco Lepido a lui succeduto nella stessa dignità! Che non direi io di
Paulo, dell'Africano e di Massimo, de' quali altre fiate vi tenni parola! L'autorità di
essi non era riposta unicamente nel merito delle loro dottrine, ma rivelavasi
dall'ossequio con cui ogni loro cenno veniva accolto.
In somma laddove è tenuta in onore la vecchiezza frutta considerazione di gran
lunga maggiore che tutti assieme non valgano i piaceri della gioventù.
XVIII. (Catone nelle sue lodi ai vecchi intende di quelli preclari per le loro
azioni.) — Ma in ogni discorso da me intorno alla vecchiezza tenuto, non sia per
isfuggirvi di mente che io di quella soltanto intendo parlare con lode, la quale
discende da una gioventù bene allevata. Ond'è che poi trovai concorde con me la
pubblica opinione, quando reputai meritevole di commiserazione quella vecchiezza
che può sostenersi in credito unicamente mercé la millanteria delle parole. Non
bastano le rughe della fronte, non i bianchi capelli per rendere di repente
vulnerabile un vecchio; soltanto nell'ultimo periodo l'età raccoglie i tardi frutti
d'una vita costantemente onesta.
Aggiungi certi riguardi che sebbene di lieve conto e volgari, sono accolti
siccome testimonianze onorevoli in società: valga il dire essere salutato dai più;
desiderato dai conoscenti; vedersi concessa la destra sulla via e ceduto il posto
nei teatri; l'alzarsi altrui al proprio cospetto; la numerosa clientela da cui il vecchio è
accompagnato al foro, e ricondotto a casa.
Si narra che lo spartano Lisandro da me dianzi accennato, solesse dire, essere
Sparta onorevole asilo dei vecchi; e in nessun luogo tributarsi maggior ossequio e
tenersi in maggior pregio l'età. A tal proposito, mi sovviene di talun uomo
attempato una volta intervenuto ai giuochi dell'anfiteatro in Atene, senza che
alcuno de' suoi concittadini si movesse a fargli posto. Senonché arrivato ai distinti
sedili riservati agli ambasciatori spartani, questi rispettosi si alzarono, e lo fecero
sedere in mezzo a loro. In quel momento l'intera assemblea, avendo fatto plauso
a tale atto, soggiunse uno di essi "conoscere gli Ateniesi ciò che fosse generoso a
farsi, ma non saperlo fare".
Vanta il Senato di Roma non poche pregevoli istituzioni, ma fra le altre merita
particolare menzione quella che il seniore abbia la priorità della parola. Ond'è che
gli stessi Auguri, quando sono vecchi non solo precedono coloro che tengono il
posto d'onore, ma altresì quelli insigniti di carica eminente. É dunque malinteso il
paragone fra i piaceri sensuali e le compiacenze derivanti dalla conseguita
considerazione. — Coloro che seppero maggiore e splendido profitto ritrarne,
sembrammi avere essi recitata abilmente la loro parte nella commedia dell'età, e
non a guisa di attori inesperti, giunto l'atto ultimo, essersi con mal garbo ritirati
dalla scena.
Ma vecchi non mancano queruli, stizzosi, sofistici, e se osserviamo minutamente,
anche avari; il quale vizio più nei costumi, che nella vecchiezza è riposto.
Le sofisticherie e i difetti testé accennati, se non ponno appieno giustificarsi,
trovano tuttavia qualche scusa. La vecchiezza di sovente sospetta di essere
schernita e teme gl'inganni; poiché all'uomo quanto più debole è, tornano più
sensibili le offese. Nell'esercizio degli onesti costumi, e delle savie dottrine sta
l'unica via di mitigarle, siccome tuttodì nella vita impariamo, o il teatro ce ne porge
lezioni. Tale è la scena dei due fratelli negli Adelfi di Terenzio, dove tanto sono
aspri i modi dell'uno, quanto gentile è il tratto dell'altro. E così vanno le cose.
In quella guisa che non tutto il vino inacetisce, non sempre l'età sotto il cumulo
degli anni, è fatta triste e noiosa. Piacemi bensì ne' vecchi la severa maestà; ma
siccome ogni altra cosa, mi va a genio moderata e senza spiacevole durezza.
Dell'avarizia poi negli anni senili, non giunsi mai a indovinare lo scopo. Può
essere più stolto il divisamento di accumulare la copia delle provvigioni per un
viaggio dove la meta è tanto vicina?
XIX. (Noncuranza della morte. — Teorie dei materialisti. Ragionamenti
sull'immortalità dell'anima.) — Resta una quarta causa che più delle altre questa
misera età conturba e tormenta, voglio dire la vicinanza della morte, che certamente
non può tardar molto a battere alla porta della vecchiezza.
Ben poco sarebbe da compiangere quel vecchio che passata una lunga vita, non
gli bastasse l'animo di disprezzare la morte! Della quale, o non debbe tener conto,
se l'anima interamente si spegne, o desiderarla se per essa, sciolta dai terreni legami,
spazia nell'eternità. Certamente fuori di questo dilemma, non avvi altra via.
Perché dunque temere, se morto, o avrò finito d'essere sensibile, o ben anco
posso andare alla volta della felicità?
Infatti non è forse presuntuoso quell'uomo, per quanto giovine sia, il quale nel
mattino vantasi di sapere che sarà tuttora vivente la sera? Poiché nella giovanile
età più frequenti sono che nella nostra i pericoli della vita. I giovinetti vengono colti
più facilmente dalle malattie; le soffrono più gravi, e ne risanano con maggior
difficoltà. Laonde assai pochi fra essi arrivano alla vecchiezza. E volesse pure Iddio
che molti la toccassero, chè gli affari della repubblica procederebbero con regola
migliore. Il senno, la ragione, la fermezza essendo consueto retaggio degli uomini
attempati, se questi mancassero, cadrebbe nel disordine ogni buon governo
civile.
Ma ritorno all'idea della morte imminente. — Perché far carico alla vecchiezza
d'un funesto accidente, comune alla stessa adolescenza? La perdita dall'ottimo figlio
mio, quella de' tuoi fratelli che avevano la prospettiva de' primi onori, è pur troppo
la prova, o Scipione, che la morte non rispetta differenza d'età.
Ma la speranza di lunga vita che risplende al giovinetto, manca al vecchio. —
Speranza malintesa, dicono taluni. Calcola da sconsigliato chi tiene per vero ciò che
è falso, e per certo ciò che non è. — Certamente, osservo, il vecchio non può sperar
nulla; trovasi però a migliori condizioni del giovinetto perché già ottenne ciò che
l'altro aspetta tuttora. Questi anela di vivere la lunga età, che dall'altro fu già vissuta.
Del resto puossi ella, Dio buono! chiamar lunga l'umana vita? Mi si conceda pure la
vita più durevole che mai si possa immaginare. Vivrò gli anni di Argantonio Re di
Tartesso il quale, secondo la storia, regnò ottant'anni e centoventi ne visse.
Tuttavia non conviene, a mia opinione, stabilire siccome regola generale ciò che è
meramente effetto del caso. Per l'uomo che arrivi a quell'estremo termine,
tutto il tempo trascorso, è zero; non d'altro gli si tien conto fuorché del frutto di sue
virtù, e buone azioni.
Sfuggono le ore, i giorni, i mesi, gli anni, non più ritorna il tempo passato e
l'avvenire è ignoto. Ciascuno ha dovere di essere pago della durata della propria
vita. Nella stessa guisa che poco importa se l'attore rimane sulla scena fino al
termine della commedia, bastando per fargli plauso che reciti bene quando si
mostra agli spettatori; così pure il saggio non ha bisogno di vivere fino all'ultimo
termine dell'età affinché ottengano approvazione le proprie azioni. Per breve che
sia la vita è sempre lunga abbastanza per chi sa vivere bene e onestamente. E perché
arriva ad un'età avanzata, l'uomo non ha diritto di lagnarsene più dell'agricoltore, il
quale lamenti perché dopo la florida primavera e la state, succedono l'autunno e
il rigido verno. La prima è immagine della gioventù e i venturi frutti prepara;
nell'altre stagioni poi si colgono e vengono assaporati. Il prezioso frutto della
vecchiezza è dunque riposto, soffrite che io lo ripeta, nella memoria delle frequenti e
nobili imprese operate.
Dovendo, parmi, accogliersi in buona parte tutto ciò che avviene secondo
l'ordine di natura, avvi mai cosa più ad essa consentanea che gli uomini d'età più
remota sieno da morte colpiti, quando i giovani medesimi soccombono ripugnante
per essi la stessa natura?
Laonde il morire dei giovani rassomiglia a fiamma sommersa all'improvviso
nella piena dell'acque, e invece la vita manca nei vecchi, siccome fuoco, consumata
l'esca, di per sé a poco a poco si estingue.
In quella guisa che è d'uopo adoperare la forza per divellere dal ramo il frutto ancora
acerbo, il quale se fosse arrivato a maturanza cadrebbe da sé, così nella gioventù è
violento il disgiungersi della vita, e ne' vecchi avviene per maturità.
Del quale pensiero essendomi fatta piacevole abitudine, quanto più m'innoltro
verso il limite della terrena carriera, mi sembra quasi di ravvisare la spiaggia, ed
arrivare in porto tranquillo, dopo lunga e procellosa navigazione.
XX. (Dispregio della morte per forza di ragionamento.) — Tutte le età hanno
un termine determinato, ma quello della vecchiezza è incerto. La sopporta
onorevolmente quel vecchio, che senza lasciarsi sgomentare dal pensiero della
prossima fine non dismette le funzioni del proprio stato. Da ciò dipende che la
vecchiezza sia anche più intrepida e ferma della gioventù.
Tale era appunto l'opinione di Solone, quando richiesto dal tiranno Pisistrato dove
mai trovasse la forza di resistergli con tanta energia, narrasi, gli rispondesse: nella
vecchiezza!
Merita preferenza sopra ogni altro, il fine della vita, se arrivi in quel punto in cui
sono tuttora intatte le facoltà della mente e del corpo. Allora natura da sé scompone
il proprio lavoro, con facilità pari a quella con cui l'artefice disgiunse i membri
della nave o della macchina già prima costrutta.
Le saldature fatte di fresco si sconnettono a stento; se logorate dal tempo, a
scomporle basta lieve scossa. Laonde a questo fugace avanzo di vita, né debbono i
vecchi afferrarsi troppo tenacemente, né abbandonarlo da spensierati; e pensò con
giudizio Pitagora, facendo divieto all'uomo di disertare dalla guardia della vita senza
comando del generale, cioè di Dio. Mostravasi filosofo, siccome era infatti, Solone
dicendo che alla sua tomba non voleva mancasse né dolore, né il pianto degli
amici. Tante care memorie studiavasi quel saggio di lasciare di sé!
Non credo che meglio la pensi Ennio con i seguenti versi:
La vana pompa di singulti e pianto
Risparmiate, miei cari, al cener mio
considerando essere superfluo il rimpianto a que' nomi che passano
all'immortalità.
Il senso della morte, se avvenne alcuno, dura un istante tanto più nei vecchi. Morti
che siamo una volta, ogni sensibilità è spenta: o se nol fosse, abbiamo di che
esserne lieti. I giovani debbono meditarvi di buon'ora per avvezzarsi a non darsi
pensiero della morte, perché chi non impara ad addomesticarsi con questo pensiero,
non può passare tranquillamente i giorni.
Certa è la morte, incerto se verrà a sorprenderci anche in questo medesimo
giorno. L'uomo che trema ad ogni istante di vedersene colto, può egli mai
conservare l'animo imperturbato? Né è d'uopo di molte parole a dimostrarlo.
Basti di rammentare quel Giunio Bruto che morì sul campo per la libertà della
patria; i due Deci che si scagliavano di carriera contro le spade nemiche; Attilio
Regolo che andò incontro al supplizio, anziché tradire la data fede; i Scipioni, che
ambedue chiusero il varco ai Cartaginesi col proprio cadavere; l'avo tuo Lucio
Paulo, che lavò col sangue la macchia del temerario collega nella vergognosa
rotta di Canne; Marco Marcello, alle cui spoglie mortali lo stesso ferocissimo
nemico non rifiutò gli onori della sepoltura. Che più? Se le stesse nostre legioni
(come dettai nel libro delle Origini) con lieto e intrepido animo coprirono quei posti di
combattimento da cui sapevano perduta ogni speranza di ritorno? E questa morte
adunque, la quale da giovinetti e da uomini ignoranti e rozzi non è temuta, dovrà
sgomentare l'animo del vecchio assennato?
Fu sempre in me ferma l'opinione, che dalla sazietà d'ogni cosa si arrivi alla
sazietà della vita. Vediamo i fanciulli: amano certi semplici giuochi; se ne
curano essi quando fatti giovinetti? E i passatempi di costoro non vengono forse
a noia nell'età virile? Alla sua volta questa si compiace di tali esercizi da cui
distogliesi al vecchiezza. Né a questa estrema età mancano pure godimenti che le
si attagliano. Ma nello stesso modo con qui vengono meno le sensazioni gustate nei
precedenti stadi, spengonsi quelle della vecchiezza. Scema il diletto con l'uso: e la
sazietà della vita ferma il punto immutabile della morte.
XXI. (Opinione di alcuni sommi pagani sull'immortalità dell'anima.) — Non
troverei fuori di luogo che da voi venissi dimandato cosa ne pensi della morte, io,
la quale avendo così vicina, dovrei guardarla in viso meglio di chicchessia.
E sono per credere, Lelio e Scipione miei, che gli illustri vostri genitori vivono; ma
un'altra vita, quella sola che vera si può appellare.
Finché restiamo vincolati da questi corporei legami, siamo schiavi delle passioni
e cieco strumento della necessità.
È l'anima d'origine celeste, scesa dalle superne sfere ad abitare la materia, asilo
poco degno dell'indole sua eterna e sublime. Senza dubbio quell'incommensurabile
soffio dagli Dei immortali veniva inspirato negli umani petti a guardia del mondo,
affinché l'uomo, l'ordine dei celesti corpi contemplando, lo imitasse con pari
costanza ed armonia nella vita. Né questa opinione s'ingenerò in me mercé la sola
forza della discussione e la guida della ragione, ma altresì dietro l'autorità e la
mente superiore di filosofi eminenti.
É fama che Pitagora e i suoi proseliti di recente stabiliti in Italia (dal che a quella
scuola ne venne il nome di italiana) non dubitassero menomamente che l'anima
fosse un'emanazione della Divinità. Ed all'appoggio di tale loro dottrina
adducevano i ragionamenti che sull'immortalità dell'anima, aveva tenuto Socrate
nell'ultime ore della vita, quel Socrate che dall'Oracolo delfico era stato giudicato
sapientissimo.
Ma che vale il dire? Sono convinto e in me medesimo sento che un ente dove si
raccoglie tanta prontezza di concetto, tanta reminescenza del passato, tanto
discernimento del futuro, tante arti, tanta scienza, tanti ritrovamenti, un ente ricco
di sì grandi prerogative, non può essere cosa mortale.
L'anima agitandosi incessantemente, senza che il moto abbia principio poiché questo
moto è inerente all'anima stessa, per identica ragione neppure debbe aver fine,
perché non è possibile che l'anima si spogli della propria natura. Ed essendo
questa semplice né commista d'alcun ché eterogeneo e dissimile, perciò appunto
l'anima è indivisibile. Se dunque non può essere divisa, neppure può cessare di
essere ciò che è e morire.
L'argomento capitale che nell'uomo la scienza preceda la nascita, fondato sulla
maravigliosa facilità con cui i fanciulli imparano le cose più ardue e concepiscono
rapidamente svariatissime nozioni, conduce a supporre che non sieno nuove le
impressioni che ricevono, ma semplicemente in loro si venga rinfrescando e
riordinando la memoria di esse. — Tali sono li argomenti di Platone.
XXII. (Argomenti degli antichi intorno all'immortalità dell'anima.) — Senofonte
così introduce a parlare Ciro il maggiore negli ultimi momenti del viver suo:
"Non vogliate pensare, o figli miei dilettissimi, che nel lasciare questo mondo, io
cessi di essere in mezzo a voi e rientri nel nulla. Anche nel corso della mia vita non
fu mai da voi veduta l'anima mia, tuttoché quanto fu da me operato fosse per voi
argomento di credere che essa abitasse questo corpo. Persuadetevi della di lei
esistenza anche se vi è invisibile.
"Per verità sarebbero inutili gli onori resi alle mute ceneri dei trapassati, se alla
nostra pietà non venissero chiesti dal voto delle anime di essi, cui torna dolce di
vedere conservata la propria memoria.
"Non crederò mai che l'esistenza dell'anima sia vincolata al corpo, e che spengasi
nell'uscirne, e molto meno che inerte rimanga nel disgiungersi dall'inerte materia.
Bensì che sciolta una volta dalla sostanza corporea, l'anima ritorni alla limpidezza e
semplicità primitiva. In allora soltanto scintillerà il lampo della suprema intelligenza.
“E siccome in morte la natura dell'uomo cade in dissoluzione, ed ogni di lei elemento
vediamo ritornare alla sua origine, ed ogni cosa ridursi ai principi da cui derivò:
l'anima sola sì nell'atto di vestire che d'abbandonare la fragile spoglia terrena,
sfugge ai nostri sensi.
"Osservate la morte; nulla più del sonno le rassomiglia. E tuttavia dormendo
l'anima palesa la propria divina essenza, a tale punto che nella libertà dei sogni
talora udiamo predire l'avvenire. Da ciò è permesso di immaginare cosa sia per
divenire una essenza così sottile disciolta da ogni terreno legame. Se dunque
l'anima è aspettata da tanto destino, venerate la mia quale partecipe della
divinità. Se poi perisse con il corpo, voi però devoti agli Dei, che presiedono a
così mirabile prodigio, non cessate di serbarmi pia ed onorata memoria."
XXIII. (Profondo convincimento di Catone nell'aspettare una vita migliore.) —
Così parlava Ciro vicino a morte. Ma ritornando al nostro discorso, nessuno potrà
farmi persuaso, o Scipione, che il padre tuo Paulo, e i tuoi due avi Paulo ed
Africano, o il padre dell'Africano o suo zio, non che altri molti personaggi
chiarissimi, sieno venuti a capo di tante imprese meritevoli della memoria dei
secoli venturi, se non stimolati dalla fiducia di appartenere per mezzo dell'anima alla
posterità.
O pensi tu forse (per dire qualche cosa in mia lode, all'uso de' vecchi) che mi sarei
addossate tante fatiche e di notte e di giorno, e in città ed al campo, se avessi
creduto che la gloria mia dovesse passare assieme alla vita?
Non era egli assai miglior partito, senza disagi e opposizione, questa brevissima età
trascorrere nella tranquilla pace d'un ozio beato?
Ma, ignoro in qual modo, l'anima sublimandosi, miri sempre alla posterità:
quasi che discostandosi dalla terrena vita fosse per arrivare all'immortalità, la
quale se non fosse essenza dell'anima, non sarebbero massimamente gli sforzi
dell'uomo al conseguimento d'immortale gloria rivolti.
E perché credete voi che i sapienti incontrino la morte con pacata anima,
mentre viene ricevuta con ribrezzo dagli idioti? Perché i primi vedendo di più e di
lontano, sentono di approssimarsi ad un più lieto soggiorno, e gli altri all'incontro,
ottusi come sono, nulla sanno prevedere.
E per verità me accende vivissimo desiderio di trovarmi in compagnia dei vostri
maggiori, in vita tanto da me rispettati ed amati; e non solo con i miei coetanei,
ma altresì con quei savi, delle cui azioni io medesimo ho udito, e dissi e scrissi ne'
miei diari. Lieto dunque vado inoltrandomi alla volta dell'altra vita, né soffrirei
certamente per parte di chicchessia un tentativo di ritardarmene il passaggio,
siccome avveniva di Pelia.
Sono preparato a ricusare la mano d'un Dio ove fosse meco tanto liberale di
farmi retrocedere all'infanzia: perché non ama ritornare alle riprese chi, già
percorso lo stadio, ha quasi toccato il pallio.
Parliamo schiettamente: l'uomo nella sua vita non ha piaceri disgiunti da incomodi;
e seppure ne ha, o presto se ne sazia, o presto ne trova il fine. Io però di essa non mi
lagno siccome ciò fanno molti ed anche dotti; e non voglio pentirmi d'avere vissuto,
poiché vissi in sì fatta guisa da non credermi inutilmente nato: e parto da queste
mortali spoglie come da asilo ospitale, prestatomi dalla natura nel mio
pellegrinaggio, e non per stabile soggiorno.
Oh felicissimo giorno quando entrerò in quel consesso di spiriti divini e partirò da
questa umana moltitudine e da questo mondo corrotto! Non solamente mi recherò
incontro a quei sommi che dianzi vi accennai, ma al mio figliuolo Catone,
incomparabile per ingegno e per affetto. Io stesso ne raccolsi le preziose ceneri
quando a lui incumbeva di prestarmi quest'estremo uffizio! Ma quell'animo
gentile di certo non si allontanò da me, né ha cessato d'amarmi, e salì in quella
dimora dove aspetta la mia venuta. E se è sembrato a voi che venisse da me
sopportata con fermezza la mia sciagura, fu perché trassi conforto dal pensiero di
doverlo raggiungere in breve.
Per queste ragioni tutte che meco, o Lelio, o Scipione, avete passato a rassegna, non
è grave la vecchiezza, bensì lieve e gioconda.
Se per credere che l'anima degli uomini sia immortale, io m'inganno, ciò faccio di
piena mia volontà, né finché vivo mi distoglierò da un'illusione che tanto mi piace.
Se poi con la morte, giusta l'opinione di superficiali filosofi, si spegnerà ogni mio
senso, allora non mi avverrà certamente di udire le loro derisioni, e quando pure
giudicassero rettamente coloro che non prestano fede all'immortalità dell'anima,
non avvi di che rammaricarsi che l'uomo finisca a tempo opportuno. Come
avviene d'ogni terrena cosa, l'umana vita trova il suo compimento, che appunto
nella vecchiezza è riposto. Quest'ultimo atto (così avviene anche nella commedia)
non debbe recitarsi con stanchezza, e meno ancora lasciarne scorgere la sazietà.
Io queste cose vi dissi sulla vecchiezza, la quale voi pure per la Dio grazia
raggiungerete, affinché, dalla stessa vostra esperienza ammaestrati, questi miei
precetti possiate utilmente praticare.

de senectute, ciceroneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora