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[...]

Armin si sentì stringere il polso, abbassò lo sguardo e vide il moro aggrapparsi disperatamente a lui. Inevitabilmente notò il quaderno ancora stretto al suo petto e si ricordò che quella frase era ancora scritta lì, che rappresentava ancora il vero e che non era mai stata letta dal moro, come da lui previsto.

Sentì Eren deglutire a fatica e dovette distogliere l'attenzione da quel blocco note che significava vita per lui. Si inclinò cercando di cogliere una qualche parola sfuggita dalle labbra screpolate del moro e ciò che udì lo lasciò di stucco.

"s-salvami" quella singola parola sapeva da dove l'avesse presa. Non a caso nove anni prima lui stesso l'aveva scritta su un biglietto chiedendo aiuto a uno sconosciuto. Prese la mano di Eren, quella che il moro stava disperatamente allungando verso di lui, e intrecciò le dita, quel gesto che non faceva da diversi anni, ma che gli causò scosse lungo l'avambraccio come se non fossero passati nemmeno dei minuti dall'ultima volta che si erano presi per mano.

"hai allungato la mano e non hai afferrato fumo, mi hai preso, mi hai salvato, cercatore di emozioni mi hai salvato e ora ti salverò io" cercò di fare un mezzo sorriso, piegò l'angolo della bocca, ma subito dovette tornare serio perché ciò che era successo diversi anni prima era stato forse uno degli eventi che più l'avevano portato sull'orlo della disperazione, ma, proprio grazie a un biglietto di quel moro, era tornato in sé ed era stato tratto in salvo, da uno sconosciuto.

[...]

"Tu mi piaci" che stupido che era stato a confessare quel suo sentimento al compagno di classe. Per di più quello aveva riso e se n'era andato scuotendo la mano e dicendogli che non c'era nulla che potesse fare, che lui non avrebbe mai ricambiato quei suoi stupidi sentimenti.

Stupido ecco come aveva definito il suo amore per lui. Quella parola, quel singolo vocabolo composto da tre misere sillabe, era stato come una pugnalata dritta nell'organo pulsante del biondo.

Una stilettata senza pietà.

Quel genere di colpo che si infligge per eliminare il nemico, non per un motivo valido, non per vendetta o una ragione che lì per lì, anche se inutile e senza senso, sarebbe potuta sembrare legittima, ma per puro divertimento, per il gusto di veder soffrire e soffocare nel proprio sangue l'avversario.

Così si sentiva Armin mentre continuava a muovere rapidamente un piede dopo l'altro. Gli sembrava di soffocare nel proprio sangue denso e scarlatto. I piedi, pur scontrandosi con l'asfalto, non gli restituivano alcun dolore o sensazione, come se di lui, sulla terra, non fosse rimasta che l'idea, l'ombra di ciò che era stato.

Lui, un ragazzo fragile, dai sentimenti concisi, i sorrisi sinceri e le lacrime facili, lui, Armin Arlert, stava scomparendo, o forse era già sparito, all'interno della sua stessa ombra, ed ora vagava senza poter più percepire l'aria intorno a sé, le voci o i profumi.

Lui aveva smesso di esistere come persona vera e propria. O almeno così si sentiva lui.

Armin corse a casa, nonostante la vista offuscata riuscì a giungere davanti alla porta dipinta di rosso, forse solo grazie ad una memoria inconsapevole del percorso che lo riportava in quel posto tra le mura di casa sua.

Stringeva al petto la felpa, che non aveva indossato per sbrigarsi a uscire da scuola, le dita contratte quasi in modo innaturale per reggere quel tessuto felpato, lasciò cadere con un tonfo lo zaino all'ingresso, non gli importava di metterlo di lato così da non dare fastidio a chi sarebbe entrato dopo di lui, in quel momento non poteva ragionare in modo lucido, e salì in camera, dove si chiuse girando un paio di volte la chiave, giusto per esser sicuro che nessuno sarebbe potuto entrare. Rimase lì, tra quelle quattro pareti dipinte di giallo limone, per ore intere senza dare segni di vita a nessuno, sperava che in qualche modo il resto del mondo potesse dimenticarsi di lui.

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