Quando era bambina, Annabeth leggeva tante storie, gran parte delle quali antiche che celavano tra le loro pagine fondi di verità.
Non era mai stata una bambina da favole. Aveva imparato troppo presto che il "Vissero Per Sempre Felici e Contenti" non esisteva.
L'intento delle storie che leggeva era un po' diverso ma sempre il medesimo: insegnare a distinguere il bene dal male.
Crescendo Annabeth si era fatta una sua idea di bene e male.
Gli dei erano il male, con i loro caratteri intrattabili e gli istinti omicida, mentre i semidei erano gli eroi che pur di compiacere i loro genitori rischiavano la loro vita e nella maggior parte dei casi facevano una brutta fine. Ma lo facevano per un bene superiore e per questo erano eroi.
Annabeth era la perfetta figlia di Atena: razionale, responsabile, intelligente. Lei faceva parte dei buoni.
O almeno, così le avevano detto.
Le era stato insegnato a essere ubbidente, attenta, capace.
Ma nessuno le aveva mai insegnato a cambiare idea.
Annabeth odiava poche cose con l'ardore con cui aveva imparato ad odiare gli dei, e una di quelle cose erano le bugie.
Per esempio aveva imparato ad odiare Luke, nonostante continuasse a considerarlo un fratello.
Crono era il male che aveva convinto il suo amico a passare dalla parte dei cattivi, facendogli promesse che sapeva non avrebbe mai potuto mantenere.
Anche a Annabeth avevano raccontato tante bugie, fino a quando aveva iniziato a pensare che non erano le bugie il problema ma lei stessa.
Ad un tratto aveva cominciato a mettere in discussione il fatto che fosse una perfetta figlia di Atena, di aver costruito quella figura sopra il castello di menzogne che le avevano raccontato.
Aveva cominciato a pensare di non fare parte in realtà dei buoni, ma di essere sempre stata parte dei cattivi e delle loro ombre.Annabeth aveva smesso di leggere le storie e di credere nella sua idea di bene.
Dopo tutte le bugie che le avevano detto e dopo tutto ciò in cui l'avevano fatto credere, diventare realistica risultava arduo come compito e non era sicura che ci sarebbe riuscita.
Ma per adesso l'unica cosa che voleva era stare da sola, per evitare di fare del male a qualcuno.
Dopo tutto ciò a cui aveva creduto, la verità era la cosa più difficile da accettare.Una sera, da sola con i suoi pensieri, Annabeth faceva fatica a dormire. E non solo quella notte. Tutte le altre sei notti precedenti. Quelle parole ancora le rimbombavano nella testa, a caratteri cubitali, come volessero essere un promemoria.
Un promemoria per ricordarle che non avevano fatto altro che raccontarle bugie.
Le avevano detto di essere speciale, ma lei odiava essere "speciale", e odiava far paura alla gente.
E se poi crollava, non aveva nessuno con cui piangere. Nessuno perché non si faceva avvicinare da nessuno.
Eppure la sua testa continuava a ripeterle che non era colpa sua se era ciò che era, non era colpa sua se le avevano mentito.
A volte stringere le lenzuola del suo letto era l'unica cosa che sembrava essere reale.
Annabeth sentiva una morsa stringerle la gola e bloccarle il respiro.
Voleva convincersi che fosse tutto un sogno, tutta una menzogna, tutto un bruttissimo scherzo. Ma di menzogne gliene avevano raccontate fin troppe.
Era reale. Reale almeno quanto il suo mal di testa.
Falle uscire. Opporsi non servirà a niente.
Annabeth sapeva che era solo un sogno, uno dei tanti, ma la sua coscienza non sembrava mai dello stesso parere. E il dolore pulsava forte, ogni secondo sempre di più, per far cedere il suo muro.
Ma lei non voleva crollare.
Era una figlia di Atena.
O forse no...
Chissà quante altre bugie le avevano raccontato.
Allora Annabeth si rigirava su un fianco. Opporsi faceva male. Si stava lacerando la pelle, si stava lacerando l'anima.
Il sudore che le imperlava le tempie; i capelli biondi appiccicati alla fronte. Stava per succedere ancora.
Lasciami andare.
Io non sto facendo niente. La colpa è solo tua.
Dalla gola le uscì un grido smorzato. Si mise a sedere mentre ansimava per riprendere aria, che finalmente riuscì a sentire al contatto con le vie di respirazione.
Con la luce della luna che le inondava la schiena la sua pelle sembrava ancora più pallida di quanto già non fosse.Le luci delle lampade dei suoi fratelli si accesero, una per una. Una ragazza le venne vicino.
Si inginocchió ai piedi del suo letto e attese.
Aveva i capelli scuri e gli occhi grigi come i suoi ma non le assomigliava neanche un po' - va tutto bene, Annabeth, era solo un'altro incubo -
La semidea bionda guardò il muro dietro di sé. Una crepa. Un'altra.
Adesso erano due, come le settimane che aveva passato insonne.
"Era solo un'incubo" si disse.
Peccato che non sognasse più il Tartaro. Quel posto orrendo l'avrebbe distratta dai suoi nuovi e terrificanti incubi. In confronto a quelli, l'Abisso Eterno della Dannazione sembrava insignificante.
Marabelle le prese una mano.
Annabeth la ritrasse, guardandola come se fosse una sconosciuta.
La sorella la osservò preoccupata con i suoi occhi ancora offuscati dal sonno, prima di rivolgersi a Malcom, sussurrando - vai a chiamare Percy, lui è l'unico che... -
- no! - scattò Annabeth, come se avesse visto in quella frase un pericolo imminente - no, non fatelo -
Percy riusciva a calmarla, riusciva a farla sentire bene, il suo profumo di brezza d'oceano faceva miracoli. Sapeva che lui non le avrebbe mai mentito. Ma se gli avesse fatto del male non se lo sarebbe mai perdonato.
- perché no, Annabeth? - le chiese ancora Marabelle.
- non capirebbe, non potrebbe. Nessuno può -
Lei e Malcom si guardarono - allora andiamo ad avvertire Chirone... -
- non chiamate nessuno - Annabeth alzò la voce - sto bene -
- noi non possiamo aiutarti se non ci dici cosa ti succede - continuò Marabelle.
- ho detto che non ho bisogno di essere aiutata - la foto attaccata alla parete dietro di lei inizió a vibrare.
Malcom affiancò la sorella - se andassimo a chiamare Chirone, lui potrebbe aiutarti -
Annabeth strizzò gli occhi per fermare le lacrime
- No. Per favore - fece una lunga pausa - Se volete davvero aiutarmi, non dite nulla a nessuno di stanotte -
- ma siamo preoccupati per te, Annabeth - disse la figlia di Atena dai capelli scuri - sei cambiata. Quasi non ti riconosciamo più. Non sappiamo cosa ti sta succedendo e non sappiamo neanche come aiutarti - non sapere le cose era la tortura peggiore per un figlio di Atena.
In tutta risposta, Annabeth si lasciò ricadere sul letto, dando le spalle ai suoi fratelli.
Chiuse gli occhi per non guardare la foto appesa alla parete - neanche io - rispose con acidità.
Dopo qualche minuto, anche gli altri semidei tornarono a dormire. Spensero le luci e la cabina piombò nel silenzio e nell'oscurità
Ma Annabeth non dormiva.
L'occhio le ricadde nuovamente su quella foto.
Lì sembrava felice.
Lì era felice. Quel tipo di felicità che si provava solo poche volte nella vita. Era da un po' di tempo che pensava di strapparla e gettarla nel fondo del cassetto, ma non ci era riuscita.
Quella era una foto a cui teneva molto. Era con i suoi amici sull'Argo II, seduti sul parapetto, sorridenti, come normali adolescenti con vite e genitori normali, senza preoccuparsi di profezie o mostri ogni volta che svoltavano l'angolo di una strada. Quell'immagine le piaceva perché era con i suoi amici, con la sua famiglia.
Amici che da due settimane sembrava aver dimenticato.
Li aveva tagliati fuori dalla sua vita così brutalmente che non meritava tutto il bene che loro provavano per lei. Quella era una foto scattata senza preavviso. Era stato Leo Valdez, che con il suo piccolo drone aveva scattato una foto prendendo tutti di sorpresa. Se lo ricordava ancora il modo in cui aveva attaccato la foto alla parete la prima volta.
Erano tutti così sorridenti, come se fossero davvero una famiglia.
Una famiglia che aveva scartato a causa di un'enorme e mostruosa bugia.
Desiderò di scomparire, lentamente e silenziosamente.
Così nessuno lo avrebbe notato. Annabeth non dormì per il resto della notte.La sveglia suonò all'ora esatta. Annabeth si rigiró nella coperte, coprendosi le orecchie da quel fastidioso rumore.
Un tempo le piaceva quel suono. Era il suono della puntualità e le piaceva svegliarsi prima di tutti, quando ancora il Campo era immerso nella quiete.
Adesso le faceva schifo. Come il resto delle cose che la circondava.
Si guardò attorno. Il resto dei suoi fratelli erano già usciti. Si alzó e si chiuse in bagno.
Come ogni mattina guardò il proprio riflesso nella specchio, sperando che qualcosa fosse cambiato, ma non succedeva mai.
Quella Annabeth non era la vera Annabeth, era solo una copia sbiadita di sé stessa. La ragazza forte e indipendente che tutti conoscevano era svanita.
Vide, invece, una ragazza con la pelle pallida, le occhiaie scure per la mancanza di sonno, e la braccia ossute.
Spinta da un moto di rabbia improvvisa, tirò un pugno allo specchio. Quello si incrinó, ma non si ruppe. Come la sua intera vita, lei era come uno specchio. Era fragile. Le tiravano pugni e si incrinava. Era servito un attimo a romperla definitivamente. Quando crollava cercava di rimettere insieme i pezzi di sé stessa e a volte l'aiutavano a farlo.
Adesso non cercava più di rimettere insieme i pezzi e aveva allontanato chiunque avesse cercato di porgerle una mano per farlo.
Dopo essersi vestita, prese un respiro profondo e uscì dalla cabina 6 e invece di sentirsi bene, si sentiva in pericolo. Ma perché poi?
Una domanda rimasta senza risposte da giorni ormai.
Si aggrappó al corrimano con un gesto disperato, nel tentativo di trovare qualcosa che la convincesse a rientrare. Una qualunque ragione che giustificasse la sua assenza ancora una volta.
Ma il problema è che non aveva niente che non andasse, tranne per il problema della respirazione. Lei stava bene e Will aveva detto che se seguiva le sue indicazioni sarebbe tornata a stare bene come una volta.
Allora perché si ostinava a volersi sentire male? Per non dover uscire, per non dover mostrare alla gente quella che era diventata?
Non poteva restare nascosta nell'ombra per sempre. Per sempre era un tempo molto lungo. Se solo potesse andare in letargo come gli orsi o gli scoiattoli. Annabeth alzò lo sguardo e tutto il suo corpo di irrigidì.
Jason Grace le metteva soggezione, ma non si era mai sentita così imbarazzata. Per fortuna era a più di venti metri di distanza, così non poteva riuscire a decifrare la sua espressione. Stava evitando Jason così come stava evitando gli altri.
Era una cosa crudele. Jason l'aveva aiutata in molte situazioni complicate, mentre adesso lei rifiutava categoricamente aiuto da qualsiasi essere umano fosse disposto a tenderle una mano.
Stando fermo, con gli occhi celesti puntati su di lei, Jason non sembrò accennare a nessun movimento.
La guardava. Annabeth faticava a sostenere lo sguardo rigido di Jason. Loro erano amici, erano simili e per certi versi si scontravano ogni qualvolta che non la pensavano allo stesso modo.
Ma adesso in lui non ci vide più un amico ma quasi uno sconosciuto. Annabeth credeva che Jason sarebbe venuto verso di lei.
Invece fece qualcosa che la colse di sorpresa.
Le sorrise. Un bel sorriso, e dopo alzò una mano accennando a un saluto.
Annabeth sapeva sempre cosa fare, ma in quel momento la sua memoria precipitò in un buco nero. Non ricordava più come sorridere né cosa si provasse a farlo. Doveva essere una bella sensazione perché, pur non riuscendo a vederlo bene in faccia, Jason sembrava sereno.
Come se fossero amici. Come se niente fosse cambiato.
Le assi degli scalini di legno sotto di lei scricchiolarono. Brutto, bruttissimo segno.
Annabeth non sorrise nè ricambiò il saluto di Jason.
Poi lui se ne andò per la sua strada verso la mensa, tranquillamente, così come era arrivato.
Jason poteva anche aver preso botte in testa un numero considerevole di volte, ma non era un idiota.
Non si era fermato a parlarle e lei ringraziò che non si fosse avvicinato. Mentre camminava con le mani nelle tasche dei jeans, Jason non si voltò nemmeno una volta verso di lei.
Il pavimento aveva smesso di scricchiolare.
Adesso doveva muoversi, poteva farlo, non c'era più nessuno in giro. Con un balzo scese i tre gradini della cabina sei.
Adesso iniziava la vera sfida.
Con il cappuccio della felpa tirato fin sopra le sopracciglia e le mani nelle tasche, Annabeth procedette spedita verso il padiglione della mensa.
Ecco che iniziava un'altra terribile giornata.
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Tʜᴇ ᴏᴛʜᴇʀ sɪᴅᴇ |Percy Jackson|
FanfictionL'oscurità. L'oscurità è ovunque, si diffonde dappertutto come inchiostro rovesciato su pagina bianca e, se non hai niente per cui vivere, ti afferra nelle sue grinfie e non ti lascia andare facilmente. Questo è esattamente quello che è successo a...