Capitolo 10.

268 16 2
                                    

«La miglior prova dell'amore
è la fiducia».
Dott.sa Joyce Brothers

Scarlett

Entro in casa canticchiando. Non mi capita mai, ma sono così felice che potrei mettermi a cantare ogni secondo. Dato che sono stonata come una campana, mi limito a mormorare una canzone che ho sentito alla radio mentre Justin mi riaccompagnava a casa.
Sento che mi spunta un sorriso e mi passo un dito sulle labbra, come se potessi cancellarlo. Non funziona. Toccarmi mi ricorda il bacio che lui mi ha dato quando sono scesa dal suo pick-up. Come mi guardava mentre mi chiedeva se potevamo vederci stasera. Ho la giornata libera, ma lui deve andare all'università. Era pronto a saltare le lezioni per passare la giornata insieme, ma io ho insistito perché andasse.
Sono così severa con lui!
L'appartamento è immerso nell'oscurità, le tende chiuse nonostante fuori sia una bellissima giornata, e io le apro a ogni finestra. Il lavandino della cucina è pieno di piatti sporchi. Colpa di Owen, e mi riprometto di obbligarlo a lavarli quando tornerà da scuola.
Poi vado in corridoio e noto che la porta della mia camera è socchiusa. Una sensazione inquietante mi fa rabbrividire. Non lascio mai la porta aperta. Anzi, se potessi chiuderla a chiave lo farei. Non è che non mi fidi di Owen o di mia madre. È che mamma porta sempre in casa tutti quegli imbecilli, anche se ultimamente si tratta di uno in particolare.
E nemmeno gli amici di mio fratello sono dei campioni di onestà.
Mi ricordo dei miei compagni di classe delle superiori. Ragazzi e ragazze. E io ero pessima, proprio come loro. Rubavamo come pazzi, trucchi e caramelle dai supermercatini locali. Che stupidi.
Quindi mi sorprendo quando mi fermo alla porta e trovo mia mamma nella camera, che fruga fra le cianfrusaglie sopra il comò. Mani ai fianchi, mi schiarisco la voce e lei fa un salto, voltandosi di colpo.
«Scarlett! Quando sei tornata?». Si fa aria sventolandosi una mano davanti alla faccia come se fosse una bellezza del Sud in procinto di svenire per il caldo impietoso. «Mi hai spaventata a morte».
«Bene». Faccio un cenno con il mento a indicare il comò. «Che ci fai qui?».
Sogghigna, e la performance da bellezza del Sud si dissolve come fumo. «Niente "Ciao mamma come stai?" Da quando sei diventata così scortese?»
«Da quando hai iniziato a ignorarci». Entro, già sfinita per la discussione. La mia gioia è svanita, ora davanti a me c'è la realtà del mio pessimo rapporto con la mia pessima madre. «Perché ficchi il naso nella mia roba?»
«Ho perso una cosa». Tira su col naso, chiaro segnale che sta mentendo. «Non trovò più un anello».
Come se io avessi rubato la sua bigiotteria da quattro soldi. «Cosa stai insinuando?»
«L'hai preso tu?»
«Perché dovrei prendere i tuoi schifosi gioielli?». Probabilmente ha impegnato o venduto quasi tutto comunque. Non ha più niente di valore. Nemmeno io ho niente.
Però ho una riserva segreta di soldi delle mance nascosta in camera, nella tasca di una maglia nell'armadio.
«Cristo, sei una viziata», borbotta, scuotendo la testa mentre raggiunge la porta. «Non riesci neanche ad avere una conversazione normale con me».
«Non puoi irrompere nella mia stanza e spiare tra le mie cose», le grido. Deve sapere quali sono i limiti. Più che altro deve sapere che qui non è la benvenuta.
«Certo che posso». Si volta, l'espressione indignata, gli occhi blu così simili ai miei anche se un po' appannati e parecchio stanchi, che sputano fuoco. «Questa casa è mia. L'affitto è a mio nome. La tua roba è mia, sono io che te l'ho comprata. Ho il diritto di guardare, se mi va di farlo».
«Ma smettila. I mobili ce li hanno passati i parenti e gli amici. E la roba che vedi qui dentro? I vestiti e la bigiotteria?», grido indicando la stanza con un dito. «Me la sono comprata con i soldi che ho guadagnato. E il tuo nome può anche essere sul contratto, ma sono io quella che paga ogni mese. Quindi non comportarti da stronza prepotente che può prendere la mia roba solo perché è mia madre. Sono un'adulta. Non ti appartengo».
Lascio andare un sospiro tremante, sorpresa per la mia scenata. Non posso credere a quello che ho detto. Sono mesi che mi trattengo. Anni, maledizione. E ora sono così arrabbiata che mi tremano le mani.
Dov'è la strizzacervelli miracolosa di Justin?
«Come ti permetti di parlarmi così!», sussurra mia madre, la voce roca, la mascella tesa. «Sei la figlia più ingrata di sempre. Bene, se sei una tale principessina arrogante che può mantenersi senza di me, allora trovati un posto per vivere».
«Penso che sia tu a dovertene andare. Non puoi permetterti di vivere qui da sola e lo sai. Non hai un lavoro. Almeno io pago l'affitto e mi prendo cura di Owen». La odio. Non mi sono resa conto della profondità di questo sentimento fino a ora, ma tutto quello che sta dicendo e il suo comportamento chiudono la questione, per me.
È una persona orribile. Una donna piena di veleno che se n'è sempre fregata dei figli. Le interessa soltanto di se stessa.
«Non puoi sbattermi fuori da casa mia». Alza le spalle e si toglie i capelli troppi schiariti dalla faccia. Sembra stanca. Vecchia. Piccola e cattiva. Ha lo sguardo offuscato e mi domando se non sia ubriaca. O fatta.
Mi disgusta. Non sopporto nemmeno di averla davanti. Eppure... un po' mi dispiace per lei. È pur sempre mia madre. Ha solo quarantadue anni e guardala lì, con una vita merdosa e un ragazzo merdoso, senza sogni. Sono anni che temo di diventare come lei.
Ma in fondo non sono come lei. Ho ambizioni, sogni. Sto solo aspettando che Owen sia abbastanza grande da prendersi cura di se stesso.
«Torna da Larry, mamma. Vai a vivere con lui e lascia me e Owen in pace, okay? Hai bisogno di soldi? È per quello che frugavi nella mia stanza? Te lo darò. Solo... lasciaci stare». Vado in cucina dove ho lasciato la borsa, tiro fuori il portafoglio e prendo un mucchio di banconote dalle mance di ieri sera. «Cercavi questi?», le chiedo quando mi segue in cucina, sventolandole i soldi in faccia.
Li agguanta e se li ficca nella tasca dei jeans. «Non li rifiuterò».
Fantastico. Non si disturba neanche a ringraziarmi. È davvero una gran persona.
«Forse dovrei stare qui finché Owen non torna a casa». Si appoggia al bancone della cucina cercando di fare l'indifferente. So che sta cercando di infastidirmi. Ancora. «Devo davvero passare più tempo col mio piccolino».
Mi trattengo dall'alzare gli occhi al cielo. «Va a casa del suo amico dopo la scuola».
«Che vuoi dire?»
«Voglio dire che dopo la scuola lavorerà a un progetto con un compagno. Non sarà qui prima di qualche ora». Sto mentendo. Hanno finito il progetto ieri sera. Ma non voglio che si trattenga qui ad aspettarlo. Lui non si sente a suo agio in sua presenza.
Abbastanza triste che a un ragazzino non piaccia passare il tempo con sua madre perché lei è completamente fuori dalla sua vita.
«Fantastico. Quindi io non ci sono, tu nemmeno... In che casini si infilerà se siamo troppo impegnate per lui? Stupido ragazzino», borbotta.
Ora basta. Come si permette di criticare Owen? «È solo un bambino. Cosa credi che faccia se nessuno lo controlla?»
«Be', tu dove sei?», mi accusa.
«Io lavoro!». Le parole mi esplodono dal petto. «Dove diavolo sei tu? Oh, lo so, sei fuori a bere e a drogarti con il tuo stupido fidanzato. E magari dormi tutto il giorno anziché essere fuori a cercarti un lavoro? Quando invece dovresti stare a casa a prenderti cura di tuo figlio? Non biasimare me per le tue mancanze di madre. Non è colpa mia se hai di meglio da fare».
Sono di nuovo alterata. Nessuno mi fa questo effetto. Di solito sono quella che rimane calma durante le tempeste. Difendo subito un innocente, ma non mi infurio facilmente. Porto rispetto.
Ma il rispetto nei confronti di mia madre è scomparso anni fa. Non posso contare su di lei. Nessuno può. Si comporta sempre da vittima e accusa sempre il prossimo per i suoi stessi errori. Non riesce ad ammettere che come madre fa schifo ed è pigra.
Quindi non mi dispiace ricordarglielo.
«Non tollererò oltre la tua mancanza di rispetto. Sono tua madre», sottolinea.
«Allora comportati da tale», dico, calma. Paurosamente calma. Incrocio le braccia al petto, sfidandola ad entrare nel ruolo che dovrebbe recitare ogni giorno della sua vita. Sapendo benissimo che non lo farà.
«Non ho bisogno di questo trattamento». Afferra la borsa dal tavolino su cui l'ha lasciata e se la mette a tracolla, dirigendosi alla porta senza mai voltarsi. «Vai al diavolo, Scarlett».
Sbatte la porta dietro le spalle e io crollo. Piango come una bambina. Mi raggomitolo sul divano con le mani in faccia, le lacrime che mi bagnano i palmi. Sto tremando, sono così arrabbiata, frustrata...
Sono passata dalla calma alla tempesta nel giro di pochi minuti e non ce la faccio più.
Nonostante la rabbia, piangere mi fa bene. Mi solleva dal risentimento e dalle emozioni tumultuose che mi mulinano nel cuore. Non so da quanto tempo sono seduta qui, a piangere finché non mi fa male il petto e non mi bruciano gli occhi, quando finalmente alzo la testa al soffitto, esausta.
Mia madre mi odia e io odio lei. Devo accettarlo. E devo proteggere Owen. Forse sarebbe ora di iniziare seriamente a cercare un altro appartamento, perché non mi stupirei se mia madre escogitasse qualche trovata per crearci problemi.
Ci sono un sacco di cose da fare, ma del resto non è una novità. Mi occupo sempre di tutto e di tutino. E non mi è mai venuto in mente che potevo chiedere aiuto a Justin. Un messaggio, una semplice parola, e lascerebbe tutto per venire da me.
Giusto?
Odio dubitarne anche solo un po'.

Dammi un'altra possibilità » jdb.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora