-11- Fervida immaginazione

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Akaashi aprì gli occhi, si sentì le palpebre pesanti e tirò su il viso, che fino a quel momento era sprofondato nelle braccia incrociate. Si guardò intorno, era nel bar, il solito locale, stesso posto, stesso tavolo, il computer aperto davanti con lo schermo che mostrava una pagina bianca con delle parole scritte a caso.

[tavolo banana sedia letto cuscino piumino]

Si stropicciò gli occhi e si guardò di nuovo intorno, freneticamente, quasi con lo sguardo impaurito. Lanciò un'occhiata alla cameriera dietro il banco, teneva i capelli tirati su in uno chignon disordinato, sorrideva e lavava dei bicchieri. Guardò il posto davanti a sé, si presentava vuoto, non c'era nemmeno una tazza, nulla.

Si alzò di scatto, scansando con forza la panchetta alle sue spalle e facendo voltare diverse persone, incuriosite dal suo improvviso gesto. Alzandosi ampliò il proprio campo visivo, tutto così uguale al solito, ma c'era qualcosa che però non lo convinceva. Si sentiva vuoto, come se avesse appena perso la cosa più importate della sua vita.

Prese il cellulare e guardò la data, aveva ancora quattro mesi per consegnare la copia del romanzo. Quattro mesi, non era passato un giorno da quando aveva mandato le e-mail per pregare l'editore di posticipare la data. Si lasciò cadere sulla panchetta, si portò le mani al viso, accaldato e probabilmente rosso, e cominciò a ricacciare indietro delle lacrime improvvise.

-solo un sogno, è stato tutto un sogno-

Chiuse con forza il computer, lo buttò nella borsa a tracolla e tornò di corsa a casa. Una volta rientrato nel suo appartamento, caldo e ordinato come sempre, adocchiò Inchiostro, il gatto nero dal pelo lucido, e lo prese in braccio, stringendoselo contro il petto e sprofondando il naso nel suo pelo morbido.

-possibile che fosse così reale? Era solo un sogno-

Si mise la tuta blu, quella che indossava sempre in casa quando non doveva preoccuparsi di come apparire, riprese gli occhiali, che portava solo per scrivere e leggere, e riaprì il computer.

[tavolo banana sedia letto cuscino piumino]

Quelle stupide parole sembravano stare lì per giudicarlo. Sbuffò, si asciugò una lacrima che era sfuggita dal suo controllo e cominciò a scrivere senza un freno.

-scriverò di noi-

Si era deciso, era ciò che voleva fare. Stava soffrendo per aver perso qualcosa che in realtà non aveva mai avuto. Quella follia, a cui nel sogno aveva dedicato il libro, era sparita dalla sua vita. Chiuse la mano a pugno e iniziò a darsi piccoli colpi alla fronte, strizzò gli occhi e strinse i denti.

-come è possibile stare male per una fantasia?-

Riprese a scrivere con la vista offuscata dalle lacrime e le guance bagnate. In quel momento, nonostante avesse superato il blocco dello scrittore, si stava odiando, o meglio, stava odiando la sua fervida immaginazione.

Dopo diverse ore, lanciò il computer sul cuscino del divano accanto a lui e mandò indietro la testa. Chiuse gli occhi, che bruciavano per il troppo tempo passato a fissare lo schermo, e si tolse gli occhiali, poggiandoli sul computer. Si portò il pollice e l'indice sul ponte del naso e se lo strinse piano, come per attenuare il mal di testa appena scoppiato.

Il giorno dopo si alzò tardi, non andò al solito bar, era come se avesse perso una persona importante e quel luogo fosse stato l'ultimo visitato in compagnia di quella persona.

Passeggiava con le mani sprofondate nelle tasche della giacca con gli alamari e gli occhi bassi, fissi sui suoi piedi che segnavano la neve lasciando profonde impronte.

Arrivò all'entrata del parco dei cristalli di ghiaccio, lanciò un'occhiata all'imbocco del piccolo sentiero che nel sogno aveva percorso più volte in compagnia di Bokuto, e decise di proseguire sulla strada centrale, quella affollata. Di fronte alla fontana di ghiaccio si fermò, la fissò, attese un qualsiasi sentore dell'emozione che di solito percepiva nell'osservare quell'arte seminaturale, ma dopo aver constatato di non sentire nulla, né a livello di stomaco né a livello di cuore, si girò e ripercorse i propri passi uscendo dal parco.

Passò davanti al bar, scrutò il locale oltre la vetrata, il suo tavolo era vuoto, esatto, nemmeno l'ombra di un ragazzo dal sorriso mozzafiato.

Proseguì tornando a casa, ancora una volta sprofondò il viso nel folto pelo del gatto e poi, una volta indossata la comoda tuta, riprese a scrivere il romanzo che avrebbe tanto voluto fosse la sua reale vita.

Ogni tanto si preparava una tazza di tea caldo, ci si scaldava le dita stanche per il troppo scrivere e poi riprendeva a picchiettare i polpastrelli sulla tastiera, come se, scrivere di loro, lenisse un pochino il dolore che stava provando.

Il file word si faceva sempre più lungo, le parole si susseguivano come se non dovesse davvero pensare a cosa stesse scrivendo. La storia era già impressa nel suo cuore in frantumi, ciò che doveva fare era semplicemente riportarla per iscritto. Non ci si doveva impegnare, semplicemente le sue dita scorrevano rapide sui tasti, accarezzava le lettere con i polpastrelli e le imprimeva sul foglio bianco. Rileggere, quella era la parte più dolorosa, rivivere delle emozioni che aveva provato, ma in realtà non aveva mai vissuto, non aveva nemmeno idea di che profumo avesse la calendula.

Ogni giorno, passeggiava, arrivava davanti alla fontana di ghiaccio nella speranza di provare qualcosa, una qualsiasi emozione, e ogni giorno tornava a casa ancora più vuoto, privato di un qualsiasi sentimento. Nemmeno più rabbia e disperazione riusciva a provare, solo vuoto. Non sentiva nulla. Vuoto. Un fantoccio senza dei sentimenti o delle espressioni, ecco cosa era diventato Akaashi Keiji il famoso scrittore.

Tutte le sue emozioni, i suoi sentimenti nei confronti di una persona inesistente, erano lì, trascritti su carta bianca, ma non nel suo cuore. Era come se, scrivendo quel romanzo, si stesse svuotando di qualsiasi cosa, come se avesse preso il cuore e lo avesse messo fisicamente all'interno del libro e ora non provasse più nulla.

Arrivò la scadenza tanto temuta e lui consegnò quel romanzo sofferto. Attese un giudizio, un parere e, una volta avuto il consenso per pubblicarlo, non si informò più sulla classifica o su quante copie stesse vendendo. Sembrava se ne volesse dimenticare, come se avesse svuotato il cuore in quelle pagine solo per distanziarsi dal dolore, per rilegarlo e spedirlo lontano. 

Come neveDove le storie prendono vita. Scoprilo ora