Capitolo 5 - Ciao

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Taehyung cominciava davvero a odiare sé stesso. O meglio, a odiare il suo corpo, e in particolare quello stupido orologio biologico che sembrava essere intrinseco nel suo cervello.

Fin da bambino aveva avuto quella sorta di benedizione-maledizione che lo portava a svegliarsi con una regolarità quasi imbarazzante. Bastava veramente poco perché il suo corpo si abituasse a certi orari. Il che poteva essere comodo durante i giorni feriali – soprattutto per persone simili a suo fratello, che avrebbero preferito passare il resto dei loro giorni nel letto.

Per lui, invece, era un vero e proprio fardello, soprattutto quando si trovava il sabato mattina a fissare il soffitto della sua camera mentre fuori nemmeno il sole era sorto.

Vero, era ormai quasi dicembre e le giornate si stavano accorciando a vista d'occhio, ma per esserci ancora le tenebre doveva essere davvero molto presto. Almeno, molto presto per essere la prima giornata in cui non doveva alzarsi per infilarsi una scomoda cravatta e andare in ufficio.

Quella appena passata era stata la settimana più stancante e avvilente della sua vita.

Ed era tutto dire.

L'unica cosa che aveva concluso era che la sua vita, da quel momento in poi, sarebbe stata di una monotonia mortale. Se avesse dovuto associare un colore agli ultimi giorni, non avrebbe esitato a nominare il grigio. Un grigio scuro, tetro, noioso e assolutamente anonimo.

Perché era esattamente così che ci si sentiva ad entrare in quell'ufficio la mattina presto, stare seduti dietro a una scrivania di vetro, compilare scartofie, rispondere a telefonate di gente assolutamente noiosa – ma che si credeva d'importanza vitale per l'umanità – e tornare poi a casa nello stesso modo e a un orario tale da non aver la possibilità di vedere nemmeno uno spiraglio di luce prima del sorgere della luna.

Un grande e noiosissimo strazio.

E non poteva nemmeno prendersela con qualcuno per sfogare la frustrazione che sentiva accumularsi dentro di sé: l'unico cretino da incolpare era sé stesso e medesimo. Per l'ennesima volta, avrebbe aggiunto.

Aveva mai combinato qualcosa di buono nella sua vita?

La risposta a quella domanda lo spaventava, per cui per la maggior parte del tempo cercava di non pensarci. Si limitava a trascinarsi in giro, fare quello che le persone si aspettavano da lui, e a vedere nello specchio sé stesso diventare una brutta copia di ciò che era.

Ma, più di tutte, erano le responsabilità che gli avevano caricato sulle spalle ad annichilirlo. Perché, se c'era una cosa che aveva imparato negli ultimi ventiquattro anni di vita, era che voleva tranquillità. Una tranquillità che quel lavoro non avrebbe mai potuto dargli.

Avrebbe fatto a meno di tutti i soldi del mondo e il prestigio sociale pur di acquistare quel minimo di serenità che agognava disperatamente.

Sdraiato sul letto, le gambe allargate sulle lenzuola sfatte e un braccio piegato sotto la testa, spostò lo sguardo fuori dalla finestra dove, finalmente, il sole stava cominciando a sorgere. O almeno, una parvenza di luce tingeva di un azzurro più chiaro l'esterno, di cui Tae riusciva a scorgere solo un albero spoglio e palazzi in lontananza.

Gli era sempre piaciuta quella vista, un po' forse perché era uno dei pochi angoli dell'intera Seoul in cui si sentiva tranquillo, in cui riconosceva una familiarità che sapeva di casa. Un po' perché aveva passato tanto di quel tempo in quel posto da averci costruito la sua vita intera praticamente.

Sospirò prima di scalciare via le coperte e sedersi sul materasso, le gambe scivolate a toccare terra. Si alzò e guardò il cielo, rimanendo qualche istante immobile.

Hideaway || VminDove le storie prendono vita. Scoprilo ora