Jimin non era un credente.
Proprio per niente.
Non avrebbe potuto riporre la sua fiducia e la sua fede in qualcosa o in qualcuno che aveva portato solo tanto dolore nella sua vita senza che, tirando le somme, lo meritasse per qualche brutta azione o comportamento tenuto in passato.
Tendeva per la maggior parte del tempo, quando proprio non trovava altre spiegazioni, attribuire al destino – o al fato, comunque lo si volesse chiamare – parte delle proprie sventure, anche se poi finiva solo con l'incolpare sé stesso perché non poteva trovare altre scuse.
Eppure, quel giorno, il destino non poteva davvero compiersi in quel modo, così come non poteva dare alcuna colpa alla propria persona. Uno scherzo del genere poteva essere opera solo di una persona, o di qualcosa, con uno spiccato senso dell'umorismo che quella mattina si era svegliato e aveva deciso che toccava proprio a lui, Park Jimin, esserne il protagonista e vittima.
Non fosse rimasto congelato in quella posizione per il tempo di un battito di ciglia e non si fosse premurato con la stessa velocità di porre una distanza paragonabile solo a quella tra la Terra e la Luna – azione impedita però dalla sua posizione attuale – avrebbe alzato gli occhi al cielo, chiedendo a gran voce se quel qualcuno lassù potesse smetterla di prenderlo di mira.
La voce di Jungkook, interrottasi a metà della frase, arrivò alle sue orecchie troppo tardi, forse perché era perso in un mondo completamente diverso dalla realtà, forse perché la sua mente era fissa su ben altri pensieri.
Pensieri pericolosi. Pensieri proibiti. Pensieri che non si poteva permettere di formulare.
Pensieri che, in quel momento – e per sempre – dovevano essere riposti nell'angolo più remoto e oscuro del suo stupidissimo cervello impazzito.
Il tentativo di allontanarsi il più possibile da Taehyung si rivelò essere relativamente vano quando, essendosi sbilanciato all'indietro con il corpo – e non potendo muovere più di tanto la gamba – finì solo per rimbalzare sul materasso, l'equilibrio perso da qualche parte e gli occhi spalancati ora fissi al soffitto.
Se voleva maledire quel qualcuno, quella era la sua unica occasione.
Si diede la spinta con le braccia per alzarsi l'istante successivo, riuscendo in qualche modo a voltarsi verso Jungkook, che prima stava alle sue spalle, e a porre quella distanza tanto agognata seppur limitata dal ristretto spazio del letto.
«Jungkook! Che ci fai-» esclamò, inorridendo l'istante successivo quando si accorse che la frase gli era uscita quasi come uno stridulo molto simile a un pigolio. Si schiarì la gola e riprovò: «Che ci fai qui?»
Il suo migliore amico si prese del tempo per rispondere. Era ancora fermo sull'uscio della porta che Jimin ricordò di aver lasciato consapevolmente aperta perché non si aspettava di certo di finire nell'ennesima situazione imbarazzante della giornata – non che Jungkook si fosse mai fermato davanti a un uscio chiuso, almeno non in quella casa.
Stava esattamente a metà, le braccia a penzoloni lungo il suo corpo e il capo piegato verso destra in un'espressione insieme perplessa e incuriosita. I capelli, divisi quasi perfettamente a metà in due tendine dalle estremità blu notte – la novità di quella settimana – gli cadevano sulla fronte in modo da coprirne le piccole rughe di perplessità che probabilmente si erano create.
«Nulla, mi stavo annoiando,» disse anche se la sua mente sembrava molto lontana dall'essere annoiata.
Jimin rabbrividì.
Conosceva quel tono, ne avrebbe riconosciuto qualsiasi sfumatura anche se fosse diventato sordo perché era sempre stato il preludio di qualche idea malsana – che solitamente lo vedeva come co-protagonista – ideata da Jungkook.
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Hideaway || Vmin
FanficSeoul, estate. Taehyung, rampollo di buona famiglia, deve consegnare un progetto di fotografia per uno stupido corso a cui lo ha iscritto la madre. Si trova sulla banchina della metropolitana, la macchina fotografica in mano. Basta uno scatto e si t...