Capitolo 2 - Metropolitana

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Jimin chiuse il libro con un gesto secco, lo sguardo puntato sull'orologio da parete con la facciona di Hello Kitty che segnava le quattro e mezza.

C'era un motivo per cui odiava quell'oggetto e nulla centrava con il brand.

Per quella che doveva essere la decima volta solo quel mese, si ripromise di buttarlo. Non ricordava nemmeno se fosse stato un vecchio regalo ricevuto per scherzo, e poi finito a essere davvero utile, o se, in una delle tante fasi che avevano caratterizzato la sua infanzia e adolescenza, un oggetto ardentemente desiderato.

Una parte di lui tendeva a puntare sulla seconda ipotesi visto che, nemmeno la settimana prima, aveva riesumato un discutibile crop-top della stessa tonalità di rosa, con la stessa facciona del gatto bianco – che era chiaramente sotto effetto di allucinogeni – dall'angolo più remoto del cassettone della biancheria, tra delle mutande fluo e dei vecchi calzini bucati.

Che ci facesse lì quella canotta, sarebbe rimasto per sempre un mistero, anche se qualche sospetto lo aveva.

Concentrato sul capire come funzionasse quel rebus del ciclo di Krebs – dubitava che agli esseri umani fosse dato saperlo – non si era accorto di essere in ritardo sulla sua tabella di marcia ben collaudata.

Lasciando tutta la sua amata cancelleria sparsa sul tavolo, si alzò dalla sedia per recuperare il paio di jeans chiari che aveva lasciato asciugare sul davanzale della finestra.

Nel farlo però qualcosa cadde dalle sue ginocchia e un movimento fulmineo catturò il suo sguardo verso il basso, dove un gatto gli stava soffiando contro, la mezza coda mozzata ritta verso il soffitto.

«Scusami Erri, giuro che non l'ho fatto apposta» si scusò, perfettamente consapevole di star spendendo parole vane.

L'animale non poteva di certo capirlo. Eppure quello lo guardò per un istante sospettoso prima di rivolgergli senza tante cerimonie il sedere e andare a rintanarsi nel suo posto preferito in assoluto dopo le gambe di Jimin: lo stesso davanzale sopra cui stava asciugando il suo paio di jeans preferito.

Sospirò, consapevole che ormai il danno era fatto.

Infatti, sottraendo con gentilezza l'indumento da sotto le zampe dell'animale e grattandogli affettuosamente lo spazio tra le orecchie – gesto che Erri ignorò ostinatamente – il ragazzo guardò sconsolato la mole di peli neri attaccati per effetto elettrostatico sul tessuto.

Li indossò con rassegnazione e, solo nel sentire la chiappa destra più fredda del resto del corpo, si accorse che quelli erano ancora in parte bagnati.

Non poteva incolpare nessun altro se non sé stesso.

L'arte della stesura dei panni l'aveva sempre annoiato a morte, così come quella del ferro da stiro e del bucato, giusto per completare la triade. Per quelle mansioni c'era sempre stata sua madre.

Il tempo per pensare di cambiarsi non c'era, come era sicuro che non ci fossero nemmeno altri pantaloni puliti nell'armadio. Aveva già detto che odiava fare il bucato?

Lanciò un'occhiata all'ambiente e l'ennesimo sospiro gli uscì dalle labbra.

La sua stanza era sì più caotica del caos stesso – e no, il buon proposito che si fissava ogni primo gennaio di diventare ordinato non era mai arrivato a durare oltre il Seollal – ma era sicuro che quel dannato cellulare si nascondesse di proposito alla sua vista proprio quando più gli serviva.

Buttò a repentaglio i fogli con i suoi appunti, sicuro che fosse sotto quella tonnellata di carta colorata, ma dopo aver sprecato un buon minuto per nulla, si arrese.

Hideaway || VminDove le storie prendono vita. Scoprilo ora