Capitolo Venti - Non era quello che volevo

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Ero appena atterrata all'aeroporto di Vancouver, dopo un interminabile viaggio di diciannove ore, con addosso ancora lo stress che quella giornata assieme ai miei genitori mi aveva regalato.

Mia madre e mio padre si erano fermati a casa mia, appropriandosi della camera degli ospiti e sostenendo di voler passare del tempo assieme a me.

Ma sapevamo tutti che non era quello il motivo per cui erano venuti lì.

Loro erano consapevoli del fatto che avrei dovuto lavorare e io ero consapevole del fatto che l'interesse principale che li aveva portati a Vancouver era la festa della comunità dei Nativi.

Quel poco tempo che avevamo trascorso assieme, mi era bastato e avanzato per farmi arrivare molto vicina all'esaurimento nervoso.

E nonostante fossero passati ormai due giorni, non mi ero ancora ripresa del tutto. Complice anche la stanchezza per essere stata sballottolata da una parte all'altra del globo e il fatto che Brandi non fosse stata di turno con me quella settimana.

Credetemi se vi dico che ho dovuto fare appello a tutto il mio buon senso per non lanciare Lacy fuori dall'aereo. Passare diciannove ore in sua compagnia, rinchiuse su una scatola volante -come la definiva mio padre- senza via d'uscita, costretta a sentire la sua voce stridula, era stata una tortura bella e buona.

Ma fortunatamente quella giornata era finita.

Diedi un occhio al mio cellulare, controllando che ore fossero e rendendomi conto che il volo era atterrato con mezz'ora di anticipo. Decisi di non avvisare Ashton, non volendo mettergli fretta.

Perciò mi sedetti su una delle tante sedie che si trovavano davanti ad alcuni banchi del check-in. Tolsi quel cappellino e sfilai il velo color crema dalla mia testa. Riposi il tutto in valigia, accomodandomi poi meglio su quella sedia e poggiando la testa al muro dietro di me.

La stanchezza stava iniziando a farsi sentire, ma non era nulla che un caffè doppio non avesse potuto sconfiggere. Ormai ero abituata a quella vita fatta di orari totalmente sballati.

E mentre riflettevo sui vari modi in cui io e Ashton avremmo passato quella serata, tra tanta gente che entrava e si muoveva nell'aeroporto, il mio occhio cadde su una figura in particolare.

Harold aveva appena fatto il suo ingresso, con indosso quella divisa da pilota, che lo faceva sempre sembrare ancora più sexy di quello che già era normalmente.

Si fermò davanti all'enorme tabellone delle partenze, controllando minuziosamente ogni volo e poi alzò gli occhi al cielo.

Era la prima volta che lo vedevo dopo New York, anche se quello non si poteva considerare un incontro vero e proprio. Quindi, se vogliamo dirla tutta, era la prima volta che lo vedevo dopo quella cena alla villa.

In quel momento non sarei potuta scappare, non ne avrei avuto nemmeno il tempo o le forze per farlo. E quando i nostri sguardi si incrociarono, sapevo che ormai mi sarebbe toccato affrontarlo.

Ma pensai che fosse un bene, dopotutto, prima o poi, sarebbe dovuto capitare. Tanto valeva strappare il cerotto velocemente e senza tentennare troppo.

«Willow» disse semplicemente, fermandosi proprio davanti a me.

«Harold» risposi, prendendo un profondo respiro. Non credevo che sarebbe stato così difficile parlargli. Mai avrei pensato di sentirmi così in imbarazzo e a disagio nel ritrovarmelo lì, a pochi metri di distanza.

Quei suoi occhi azzurri mi fissavano in modo enigmatico e il fatto che il suo viso non esprimesse alcuna emozione, mi impediva di capire a cosa stesse pensando.

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