Capitolo Due - Vancouver - Shanghai

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«Sono incinta»

Strabuzzai gli occhi e quasi mi strozzai con l'acqua che stavo bevendo.

«Cosa?!» domandai esterrefatta, tra un colpo di tosse e l'altro.

«Oh, finalmente sei tornata tra noi» commentò Brandi. «Mi spieghi cos'hai oggi? È tutto il giorno che sei assente» aggiunse poi.

Richiusi la bottiglietta d'acqua, mettendoci decisamente più del dovuto. In effetti, la mia amica ci aveva visto lungo, avevo un sacco di pensieri in testa e il mio dannato cervello mi impediva di essere presente nella vita reale.

Insomma, tra il lavoro, che era diventato più stressante del solito, e la mia vita sentimentale che continuava a perdere pezzi, era dura riuscire a non farsi trascinare dalle preoccupazioni.

Non so se fosse peggio dover vedere quasi tutti i giorni quella strega di Lacy, che cercava sempre di appiopparmi turni assurdi. O quel deficiente di Ashton, che mi costringeva a incrociare il suo sguardo ogni qual volta uscissi o entrassi da quell'aeroporto.

E poi c'era Harold, che con il suo regalo non aveva fatto altro se non incasinare ancora di più tutte le mie certezze.

Proprio quando pensavo di averla ormai superata, di aver ormai dimenticato e sotterrato tutto ciò che c'era stato tra noi, ecco che lui se ne usciva lasciandomi quella piccola scatola sull'isola della cucina.

Un grazioso pacchettino regalo, adornato da un fiocco giallo -il mio colore preferito, lo sapeva bene- contenente una collanina di perle dal tono vintage.

Non era qualcosa di nuovo, era semplicemente qualcosa che mi apparteneva e che quando avevamo deciso di chiudere la nostra storia io gli avevo restituito.

Una semplice collana, ma con un enorme valore affettivo. Me l'aveva comprata durante un viaggio che aveva fatto in Francia, a Parigi, la città dell'amore. E io non me l'ero mai tolta per tutta la durata della nostra storia.

Ritrovarmela tra le mani, quella sera, era stato strano. Come se Harold volesse dirmi qualcosa, come se volesse chiedermi di riprovarci.

Ma le cose tra noi non potevano funzionare. Era così e basta. Illudersi del contrario, solo perché avevamo avuto un weekend da sogno, era da stupidi.

No, non ero decisamente una di quelle persone che ascoltava il cuore per prendere le proprie decisioni.

«Uhm... ma niente, sono solo stanca» risposi. Volevo sviare la conversazione, ma prima che potessi dire altro, una voce si sovrappose alla mia.

«Bugiarda» l'affermazione di Cara, che aveva appena preso posto al nostro tavolo, mi fece arricciare le labbra e maledire il suo essere così perspicace.

Cara Mitchell lavorava ai banchi dei check-in della Emirates e passava gran parte delle sue giornate a relazionarsi con clienti svampiti e arroganti. Cercare biglietti o passaporti smarriti e convincere le persone che, arrabbiarsi perché i loro bagagli andassero oltre il limite di peso concesso, non gli avrebbe evitato di pagare la tassa di sovrapprezzo.

Era una donna dall'immensa pazienza e gentilezza. Nonché, alta, formosa, con gli occhi azzurri dal taglio perfetto e i capelli lucenti. E aveva un senso dello stile e dell'eleganza davvero unico.

Sposata da tre anni con il suo fantastico marito, Simon -un medico chirurgo rinomato in tutta l'America del Nord- e mamma di una graziosa bambina modello e dall'intelligenza sopra la media.

Praticamente una santa e al contempo una delle donne più fortunate che avessi mai conosciuto.

«Oddio... e va bene!» esclamai frustrata, sentendomi ormai messa alle strette dallo sguardo di quelle due ragazze. «Ho passato un fantastico weekend con Harold. Siamo stati a casa mia, abbiamo dormito assieme, preparato i pancakes, visto un sacco di film e fatto del sesso stratosferico» confessai.

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