Capitolo 2

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Al mio risveglio, una fitta di odio verso il genere umano mi trafigge la tempia sinistra per un motivo tanto semplice quanto terribile: devo andare a scuola.

Questa notte ho ripreso conoscenza che eravamo già arrivati a casa e mi sono trascinato fino in camera, e lì sono svenuto di nuovo. Non dormo abbastanza per i miei ritmi fisiologici e le conseguenze di ciò si riversano sul mio malumore perenne, ne sono certo. Allungo la mano verso il cellulare e poi fisso l'orario qualche secondo di troppo prima di rendermi conto che, sì, dovrei proprio muovere il culo.

Mi lancio in piedi, quasi sbatto a terra al movimento brusco e acciuffo la mia felpa rossa preferita che ho buttato via a caso prima di crollare dal sonno. Tanto non ci ho dormito e non puzza, ho controllato, quindi secondo round approvato. Come al solito, saluto distrattamente i miei e salto la colazione per fiondarmi in strada, cuffie nelle orecchie a isolarmi.

La camminata fino a scuola è la parte fondamentale del mio risveglio: è solo quando ho già i piedi che battono il marciapiede che prendo coscienza della giornata che mi si para davanti e abbandono del tutto il dormiveglia. La meta del mio peregrinare mi si staglia infine davanti in tutta la sua maestosa fatiscenza decadente e mi piazzo fuori il cortile, mani nelle tasche mentre aspetto. Me ne sto per conto mio, da solo, ma è sempre stato così e sono abituato. Il 90% della gente mi provoca il nervoso, motivo per il quale non ho fatto amicizia con nessuno e la cosa mi sta più che bene.

Anche se noto i miei compagni di classe, allontano lo sguardo per far finta di non averli visti e non doverli salutare. Sono circondati da una folla di gente preda di chiacchiericci esagitati. Purtroppo per me, condivido l'aula con i più popolari della scuola. Che cosa cringe e da filmetto americano, ma non saprei come altro definirli. C'è Alessandro, il teppista che viene sospeso un giorno sì e l'altro pure. Al suo fianco c'è Giorgio, una delle persone con meno QI che abbia avuto il dispiacere di conoscere. E infine, creme de la creme, Francesco che ride come uno scemo, il belloccio della classe, anzi, della scuola, al solito con intorno uno stormo di ragazzine cinguettanti. Lui è senza dubbio l'individuo che più irrita il mio sistema nervoso, col suo gridare tutto il tempo, ridere e fare coglionaggini solo per attirare l'attenzione su di sé. Non lo sopporto, ma tengo questo astio nel mio. Non ho bisogno di diventare l'oggetto d'odio dei suoi fan, grazie tante.

Quando vedo la bidella aprire le porte, inizio ad avviarmi verso l'entrata. Nel farlo, passo controvoglia accanto ai miei compagni di classe e ormai sarebbe ridicolo ignorarli, quindi decido di quanto meno guardarli e rivolgere loro un cenno di saluto.

Mi ricredo quando li noto ridere tra loro, ignorando la mia presenza a un passo di distanza. Ah, alla faccia dell'educazione.

I miei occhi incontrano quelli color cioccolato di Francesco, col suo solito sorriso divertito, i capelli castani spettinati a contornare il viso.

E poi una voce risuona nella mia testa, una voce che non è la mia.

Cazzo, l'ho guardato. Non devo pensare che ha delle labbra da pompino. Non devo pensarlo.

La punta delle Vans colpisce una mattonella sporgente e inciampo.

Per poco non cado, ma mi ristabilisco giusto in tempo e una cuffietta scivola dall'orecchio, i rumori del mondo esterno in parte percepiti, ora. Rumori fatti di vociare concitato e risatine che so essere rivolte verso di me.

Fisso la faccia di Francesco, sconvolto.

"Cosa?" gli faccio. Intorno a me percepisco un borbottare derisorio.

"Eh?" risponde. Sbatte le palpebre.

Ha detto qualcosa?

"Tu hai detto qualcosa" rispondo. Francesco fa una faccia sconcertata che forse supera la mia.

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