Capitolo 11

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Sono ancora perso in un momento di contemplazione cosmica quando percepisco il cellulare vibrare nella tasca dei pantaloni.

Un messaggio da papà: "Passa a prendere delle melanzane prima di tornare a casa."

Lui e quelle benedette melanzane. Sospiro e mi incammino in direzione del supermercato, mani nelle tasche. C'è un bel tempo, fa caldo ma non troppo e il sole accarezza il viso e distende i nervi contratti all'estremo. Tutta colpa di Francesco, di nonno e di quello che mi stanno facendo passare. Calcio una lattina e quella rimbalza lungo il marciapiede e spaventa un gatto arancione. Schizza via e lo seguo con gli occhi mentre serpeggia tra le mattonelle, su per un muretto e poi su un albero.

Distratto, faccio per girare l'angolo ma qualcosa mi colpisce con la stessa potenza d'impatto di un investimento d'auto.

Per poco non cado e incrocio lo sguardo di chi mi ha preso in pieno. Alessandro. Fa una faccia sorpresa nel riconoscermi.

Devo scappare o questi mi fanno fuori sul serio.

"Levati!" mi supera e si lancia lontano.

"Ehi!" nuove voci attirano la mia attenzione e rimango pietrificato. Una dozzina di ragazzi spuntano inferociti all'orizzonte e sembrano intenzionati a travolgere chiunque si frapponga al loro inseguimento, me compreso. Spiaccico la schiena contro il muro per non essere travolto dalla mandria e mi superano in un vortice di imprecazioni. Capisco solo un secondo dopo chi sia il destinatario di cotanta furia: Alessandro, lo stesso che sta correndo come se ne dipendesse della sua vita con troppo poco vantaggio rispetto agli inseguitori.

Spariscono in lontananza e mi lasciano solo a elaborare cosa sia appena successo.

Alessandro starà bene? Se la sta vedendo parecchio brutta.

Scuoto la testa e mi stacco dal muro. Che mi importa? Non ho dimenticato il modo in cui mi disprezza e certo non sono affari miei se si becca qualche calcio in culo per un guaio da lui combinato. Ficco le mani in tasca e riprendo il viaggio verso il supermercato e le melanzane di mio padre.

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È la seconda ora di lezione quando Alessandro si degna di mostrare il suo brutto muso in classe. Ed è un muso in pessime condizioni.

La prof rimane sconcertata e il resto della classe non è da meno. Il ragazzo è stato pestato di brutto, ha un occhio nero e un cerotto sul naso gonfio. Fulmina tutti con uno sguardo da bullo di prima categoria prima di sedersi con foga al banco vicino quello di Giorgio e Francesco. Questi ultimi due hanno i bulbi oculari prossime a strabordare.

Riporto veloce l'attenzione sulle mani e le tamburello, nervoso. Il senso di colpa mi soffoca, ma lo scaccio come una mosca fastidiosa. Si sarà messo da solo in quella brutta situazione, e poi cosa avrei potuto fare per aiutarlo? In due contro duecento ce la saremmo vista brutta, non ho mai fatto a botte in vita mia e ci tengo a mantenere questo primato finché resto in vita. Un attimo, a ben pensarci avrei potuto chiamare la polizia. Ok, forse ho sbagliato. Ma che mi importa?!
Colpisco il banco con la fronte e poi nascondo la testa dietro le braccia incrociate.

Ho già abbastanza problemi, non posso invischiarmi anche in quelli degli altri.

Per il resto della giornata scolastica tendo l'orecchio verso i tre moschettieri, ma Alessandro sembra essersi recluso in un mutismo ostinato. Neanche Giorgio e Francesco che gli tirano i capelli e lo schiaffeggiano per sbloccarlo funziona: rimane una statua di sale.

Ormai, comunque, il danno è fatto quindi tanto vale che mi metta l'anima in pace e cestini da qualche parte il senso di colpa.

Diverse ore più tardi, esco da scuola in uno stato di noia tale che sono pronto all'ascensione extracorporea. Noia mista a fastidio per la nuova piega che ha preso la mia vita. Mi manca la solitudine, il non essere mitragliato a manetta dai problemi degli altri. Così tranquilla, così prevedibile. Sospiro e qualcuno mi colpisce con una spallata, cosa che mi fa girare d'istinto.

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