Terza spina. Pace apparente, paure confermate.

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I faggi fumavano ancora e pezzi di legno bruciato giacevano a terra, caduti dalle case costruite tra i rami. Thranduil posò la mano su una corteccia e il dolore della foresta lo percorse, come una scossa.

La pace non dura mai abbastanza, amore mio.

Il fumo gli stordiva l’olfatto, ma la vista non smise un attimo di mostrargli l’orrore di quell’attacco. Nessun sopravvissuto. E se qualcuno fosse stato in vita, di sicuro era stato portato via dagli orchi. Un fato peggiore della morte, un fato a cui nessuno doveva essere sottoposto, non in tempi di pace.

Non ci dovrebbero essere orchi da queste parti. Con l’ultima spedizione, Thranduil aveva avuto la conferma che il monte Gundabad era ormai disabitato. Gli orchi avevano lasciato l’Ovest dopo la morte di Isildur; non avevano ragione di vivere in terre dove erano cacciati e uccisi a vista, non quando avevano avuto la dimostrazione che il loro padrone era stato sconfitto.

Allora come spiegare quell’attacco?

Thranduil rivolse lo sguardo verso Sud e premette le dita contro la corteccia con più forza. Non poteva essere già tornato, non dopo appena un secolo. Dopo tutto il dolore e le perdite che avevano subito, si erano davvero meritati una pace così breve? I suoi Elfi Silvani erano ben lontani dal tornare ai numeri della Seconda Era, non potevano combattere ora.

«Sire».

Thranduil si girò a guardare la guardia, la cui mano era posata sulla spalla di una bambina. Era Silvana, aveva circa la stessa età del suo Legolas, capelli rossi e disordinati, lo sguardo duro e la pelle sporca. Una guancia era segnata da un taglio.

«Questa bambina è l’unica sopravvissuta che abbiamo trovato, sire».

«Dov’era?»

«Nascosta in cima a un albero. Ha cercato di attaccarci, prima di accorgersi che non eravamo orchi».

Thranduil rivolse lo sguardo alla bambina. «I tuoi genitori ti hanno dato un nome?»

La bambina scosse la testa, senza distogliere lo sguardo dal suo.

Thranduil inarcò un sopracciglio. «No?»

«Sire, abbiamo provato a farla parlare, ma come vedete, non abbiamo avuto alcun risultato».

La bambina continuò a fissare Thranduil negli occhi, le sopracciglia corrugate e sul viso un’espressione minacciosa.

«Però mi capisci?» le disse.

La bambina annuì, piano.

«Vuoi imparare a combattere gli orchi? A far loro quel che hanno fatto alla tua famiglia e ai tuoi amici?»

Solo allora la bambina dimostrò di essere tale: una nuova luce brillò negli occhi verdi e lei annuì di nuovo, con forza, le ciocche rosse che saltellavano sulle spalle.

Thranduil le porse la mano. «Vieni con me, ti porto in un posto pieno di guerrieri che potranno insegnarti a farlo».

La bambina abbassò lo sguardo e si tormentò le mani. Thranduil si sarebbe aspettato che lei accettasse subito la proposta, magari con qualche urletto di gioia e saltello intorno a lui. Chissà se lo aveva riconosciuto, chissà se quell’improvvisa reticenza fosse dovuta alla corona che lui portava in testa. Di sicuro, non era dovuta all’attacco a cui aveva assistito. Il modo in cui lo aveva guardato fino a un attimo prima ne era la prova.

«Ho un figlio, della tua età. Si chiama Legolas e anche lui sta imparando a combattere: vuoi venire a fargli compagnia? È tutto solo, gli piacerebbe avere un’amica».

Le spine della coronaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora