capitolo 1: partiamo da capo

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"erica viè n'attimo qui, per favore!" nic stava in piedi sul bordo della piscina, con le mani a penzoloni. mezza popolazione della villa era in acqua, io me ne stavo per i fatti miei. avevo un caldo fottuto, ero vestita piuttosto pesante, ma non era mio solito portare vestiti troppo scollati. nemmeno d'estate. e un po' l'odiavo. si, ecco, non saper essere come gli altri. mi avvicinai a nicolò con fare scocciato, ma la sua faccia da cazzo mi faceva ugualmente sorridere, ed in qualsiasi circostanza l'avrebbe fatto.
"che vuoi, testa di cocco.." non feci in tempo ad attendere una sua risposta che mi prese con forza per i fianchi e mi fiondò in acqua. che cazzo. la maglietta oversize di biggie mi si era incollata al corpo e il mascara mi era quasi interamente colato sulle guance. odiavo anche farmi vedere struccata, questione di abitudine o forse della mancata autostima che possedevo.
"stronzo!" ma era inutile invenire contro di lui, stava già ridendo come un'idiota. mi tirai su, a fatica perché non ero mai stata troppo prestante, e uscii a testa bassa. qualcuno ancora sghignazzava. ma poi lo vidi arrivare, distraendomi così da tutto il contorno e ovattando le voci qualora non fossero provenute da lui. il piccolino, così lo chiamavano charlie e manu. che poi non ne capivo il motivo, essendo io la più scarsa d'età ed essendo addirittura nic più piccolo di un anno. a proposito d'età, charlie, manu e mauri stavano al tavolo a giocare a scopa come due vecchi. mi facevano ridere. tuttavia in quel momento ero più focalizzata su altro.
"che cazzo hai fatto?" esclamò davide un po' divertito, lo vedevo.
"mi andava di fare un bagno vestita. non lo so, tu che dici?" non facevo mai troppo la stronza, anche se avrei voluto. avevo pure un sorrisino stampato in faccia, perché a far la dura non ne ero mai stata capace. nic poi prese a farmi il solletico ed io scoppiai a ridere. sui fianchi non lo reggevo proprio. ma sentivo il suo sguardo puntato su di noi, su di me, e sentivo un cazzo di allevamento di farfalle nello stomaco. davide aveva i suoi capelli mossi e disordinati raccolti, indossava una maglietta nera e dei pantaloncini da calcio tendenti al grigio. forse era un costume, in tal caso terribilmente triste. non disse più niente, ma poi si buttò anche lui in acqua, spogliandosi intelligentemente al mio contrario. faceva un caldo fottuto, ripeto, ed era quasi impossibile resistere a quella tentazione. eravamo nel bezzo di marzo, ma in sardegna c'era afa come a milano in pieno luglio. e l'estate scorsa nemmeno l'avrei immaginato. tutto questo. sembrava tutto, poi più niente. ma probabilmente si addirebbe all'ordine ricominciare daccapo. ed intendo proprio dall'inizio. tipo a quando sono nata, che la pioggia cadeva sull'asfalto, nonostante fosse stata primavera inoltrata. mio padre, musicista per diletto, mi teneva in braccio mentre io mugugnavo. mi era impossibile ricordarlo, ma mi fidavo dei racconti, perché si dava il caso che crescendo la relazione tra me e mio padre non fosse granché migliorata. chitarrista, per precisione, e fissato per il jazz. mio fratello credo avesse ereditato quel genere di gusto da lui, poiché passò la sua intera adolescenza dietro la batteria, i locali esclusivi, le donne e, per quanto mi fosse concesso di sapere, la droga. i miei nemmeno lo volevano il secondo figlio, ma poche volte durante l'infanzia mi sono sentita un errore o indesiderata. inutile negare quanto papà fosse un tipo duro, di quelli con cui fai fatica a scherzare e anche solo a captarne i sentimenti. "andrai ad un liceo di milano, studierai piano classico, poi una facoltà dignitosa..." mentre blaterava altri progetti campati per aria ed io man mano mi scocciavo di starlo a sentire. come se la mia vita fosse stata la sua, la solita storiella da film adolescenziale. ma era diverso, il nostro rapporto. credo che ognuno di noi abbia, alla fine della fiera, una collezione di rimpianti, e credo che si diventi genitori per diversi motivi, tra cui rivedere nei propri figli se stessi. e intendo in una versione migliore. una versione inverosimilmente perfetta, quando poi il subbuglio in crescita che ci portiamo appresso è solamente un fottuto disastro. è molto più dell'essere perfetti, essere incasinati fino al collo. per cui mentre i miei credevano fossi in qualche biblioteca a studiare le declinazioni latine, probabilmente ero in giro con i soliti due gatti a fare freestyle su una panchina scrostata, o spiegare randomicamente a qualcuno le basi della teoria musicale, o il circolo delle quinte. seppure le difficoltà crescevano d'anno in anno, perché con le persone non ero mai stata troppo brava, e con me stessa in primis tantomeno. non ero mai stata troppo femminile, ma nemmeno troppo poco. d'inverno camminavo per strada con i cargo e le felpe rubate dall'armadio di mio fratello,
che non era mai in casa. la mia psicologa diceva che costituiva una mancanza per il mio sviluppo cognitivo. ma poi ho smesso di andarci, e ho conosciuto nicolò. un giorno d'inverno, per l'appunto, mentre indossavo una stussy tarocca. non l'avrei mai dimenticato, quel giorno. io e nic non eravamo ancora nessuno all'epoca, ed è forse per questo che eravamo ancora amici. eravamo come, musicalmente parlando e non, cresciuti assieme. è stato il mio inizio, e intendo l'inizio di tutto, perché si sa come vanno le cose...dopo una tira l'altra. senza nemmeno accorgermene mi aveva trascinato in mezzo al mondo della discografia. a me che non era manco mai piaciuto stare al centro dell'attenzione. ma usavo la mia voce per manifestarmi, un po' come tutti là dentro, ed è per questo che mi ci ero trovata bene fin da subito. nonostante con quella mezza fama improvvisa che mi ero portata a casa i casini non fossero stati risolti...ero felice di essere dov'ero. mentre quella giornata di marzo, in sardegna, correva come fosse stata una maledetta maratona. d'un tratto era calato il buio, avevamo mangiato una pizza al volo, e ora cazzeggiavamo, come sempre. cosa ci facevo lì, sulle gambe di da', davanti a tutti, ancora me lo domandavo. ma eravamo tutti non troppo sobri, era evidente.
"okay raga adesso giochiamo a quel gioco delle carte" esordì d'un tratto manuelito. ovviamente tutti cannammo la proposta. cristo, nemmeno ai festini abusivi delle medie si giocava più ad aspira e soffia. io, nic e davide forse ne sapevamo qualcosa in più. perciò, a conti fatti, finimmo per raccontare cose imbarazzanti capitateci a vicenda. erano risate continue, rumorose e irrompenti. quella volta in cui mauri era rimasto bloccato nel bagno di un bar, o quando ignazio era inciampato per le scale del cinema. nel frattempo davide mi teneva per i fianchi, e sentivo quanto stesse cercando di farlo con discrezione. sentivo che sentiva il disagio. ma non so che mi prendeva, decisi soltanto di ignorarlo. ma forse, merda, sto correndo troppo, giusto? la verità è che quella tensione che c'era tra me e quel ragazzo, tutt'oggi faccio fatica a spiegarla. eravamo amici. ma poi restavamo soli, e tutto sembrava non aver più senso. non aveva senso chi ero stata, perché da quando mi ero allontanata da tutti i resti della mia vecchia vita, mi convincevo che fossi diventata un'altra, quando poi ero sempre io. non c'era un senso nel come mi guardava, e nel vento che soffiava piano. nemmeno nella luna che splendeva in cielo, intrinseco del buio più profondo e quasi intimidatorio. come quella notte faceva. e fissarla con davide, rendeva all'improvviso tutto un po' più sensato.

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