Gli era sembrato fino a quel momento di annaspare, quasi affogare. Non che tra i due ci fosse stato un vero e proprio rapporto d' odio ma semplicemente avevano limitato il loro convivere al mal sopportarsi. Probabilmente per Simòn quello fu il momento più difficile di tutta una vita ma se voleva mettere in piedi la sua Accademia, doveva necessariamente scontrarsi ed avere il placido benestare di suo padre.
Quando rientrò in casa senz'altro erano già passate le 9.00. Varcò la porta con estremo entusiamo e a quattro a quattro, fece le scale del vecchio scalone di marmo. Tirò un profondo respiro di sollievo non trovandolo in giro. Poi, tirando dritto, tirò giù le maniche della sua camiciola di lino bianco e piazzandosi sul volto un leggero sorriso attraversò l'intero corriodoio.<Che sia un buon giorno, Mariè!> era radioso. Lo capì anche la vecchia Governante che mostrando i denti, esibì un sorriso dolcissimo nel suo paffuto viso ed inclinato il capo, gli suggerì in quale stanza si trovasse il padre. Era prevedibile. Annuì e sebbene quel sorriso avesse lasciato il posto ad una sensazione di ansia, provò trascinato dall' onda dell'entusiasmo a cavalcare il momento. Scosse il capo, come per cacciare l'ultimo avanzo di paura e stese la mano sulla porta. Colpì con le nocche la lastra dell'ufficio ed attese.
<Avanti > Disse questi
<permesso> Rispose il figlio che entrando lasciò la porta aperta. Lo studio lo aveva visto centinaia di volte ma mai come in quell'esatto momento gli sembrò così grande o semplicemente era lui che si sentiva troppo piccolo di fronte a quegli occhi di ghiaccio di suo padre.
<Padre debbo parlarvi> Disse con tono deciso. Quello non si scompose ma anzi intrecciando le dita una nell'altra portò le braccia a mezz'aria e con schiena dritta si limitò ad annuire.
<Prego>.
<Al mio arrivo so che non sono state molte le occasioni di confrontarci ma Vorrei parlarvi di un progetto che mi sta assai a cuore. > con le dita il vecchio Duca gli fece segno di procedere e continuare. Così Simòn si sedette fronte a lui e prendendo quasi fiato riprese.
<Qualche giorno fa mi avete chiesto di occuparmi di una sala d'armi. Ebbene sarò lieto di rendere omaggio ai miei Avi.>
<Molto bene, comincerai nei prossimi giorni. > Disse con tono pieno di soddisfazione stirandosi con le dita un baffo ingiallito dal fumo. Ma quello lo fermò all'istante.
<Vedete è tutta la vita che il mio cuore mi suggerisce di intraprendere una strada diversa. Ho sempre voluto diventare un maestro e.. > a quella parola il Duca s'innervosì immediatanente ed alzandosi di scatto, alzò il tono della voce di un terzo <Un maestro ?? Un maestro! > cosa debbono udire le mie povere orecchie! E di grazia, cosa vorreste insegnare, la danza ? O perché no la poesia ?>
Simòn strinse le mani in pugni. Socchiuse gli occhi poi facendosi forza lo fermò cercando di non mandarlo al diavolo.
<Scrivere.. io voglio scrivere! > non urlò ma anzi il suo tono di voce era deciso, chiaro, moderato. <Io non possono fare a meno di farlo! Dannazione..ho fatto tutto quello che mi avete chiesto ed ora vi sto chiedendo una sola cosa.. ascoltatemi!>
Rabbonito il vecchio gli diede le spalle portando le braccia lungo la schiena. Gli sembrava di rivedere sua moglie in quegli occhi era per questo che non riusicva a guardarlo mai in volto ma più di ogni altra cosa vedeva lei, quando guardava ogni dipinto,colore, tela. Ed era per questo che non sopportava più l'arte. L'aveva relegata nel fondo della sua anima. Messa in disparte, intrappolata in un angolo di cuore assieme a tutto ciò che essa poteva rappresentare. Che fosse un testo scritto, un dipinto, un pianoforte tutto era stato chiuso in una stanza del terzo piano a cui nessuno poteva accedere.
Con la mano scostò di poco la tenda e rimase in silenzio. <Padre potremmo creare una nostra Accademia. Artisti,scrittori,filosofi,medici accorrerebbero nella nostra Scuola e grande sarebbe il nome dei De bourienne!> Al vecchio Duca sembrò tutta una follia e voltandosi verso il figlio scoppiò in una grossa risata.
<Simòn hai perduto il senno della ragione?> Simòn scosse il capo amareggiato.
<Ma pensateci!> Disse ancora sbattendo un pugno sulla coscia <Maledizione, in questo Paese sta andando tutto a rotoli, nulla di quanto è stato fatto ha avuto futuro. Tutto è andato perduto!>
<Basta! > la mano del vecchio De bourienne andò a battere sulla scrivania e ne provocò un rumore così assordante che lo stesso trasalì <Sei uno sciagurato Simón. Indegno della divisa che porti.>
Fu allora che mesto fece una cosa che mai si era permesso di fare. <Forse avete ragione, sarò un uomo ingrato ma almeno io vivo. Mia madre vive in me, attraverso le mie parole, i miei disegni. Io..> Si fermò un solo istante. Lo guardò con gli occhi più lucidi. <Non mi sono rintanato nel ricordo, crogiolato nel dolore.> era stato duro, lo aveva ferito. Ma non nè fu pentito. <Porterò avanti le mie idee che vi piacciano o meno. Con o senza i vostri sigilli lo farò.>
Detto questo, sbattendo la porta, andò via furente.
<Accidenti a lui.> si ripetè correndo lungo il corridoio e quelle pareti che avevano visto poco prima un sorriso puro, sincero ora potevano solo riflettere un strambo ghigno. Come un animale in gabbia, furioso, fece nuovamente le scale, risalendole verso la mansarda. A differenza di quelli inferiori, i piani superiori tendevano a restringersi, ecco perché diversamente dal primo, il secondo, contava una stanza in meno. Ad ogni modo tra tutte, l'unica a cui Simòn faceva spesso visita era quella chiusa. Aveva avuto poco più di dieci anni quando l'aveva scoperta in uno dei suoi rari ritorni a casa dal Collegio. Era un pomeriggio. Un pomeriggio estivo, caldo, proprio come questo. Suo padre lo aveva lasciato alle vecchie cure della balia e della Governante per recarsi in quel di Vesoul, un piccolo centro al nord del Paese per affari. Sfuggito agli occhi della balia, subito dopo il pranzo si addentrò nel cuore della casa. Fu forse un istinto incontrollabile fatto sta che il sibilo del vento lo condusse di fronte a questa enorme porta. Provò ad aprila ma dopo vari tentativi non ci fu verso. Poi l'ingegno gli suggerì di provare con qualcosa di appuntito. Corse le scale nuovamente e rovistando nelle stanze trovò un vecchio grimaldello. Lo afferrò con due mani e nascondendolo nel manico della camiciola ritornò nello stesso punto.
In religioso silenzio tirò fuori l'arnese. Questo era semplice nell'uso. Non era molto grande ma era dotato di una parte lunga e piatta che terminava con un piccolo uncino. Senza arrecare danni alla serratura, una volta allineati i pistoni, questi facilmente poteva raggiungere la parte posteriore della serratura stessa. A questo punto punto spingendo il gancio dell'attrezzo nella zona superiore del blocco e girandolo allo stesso modo con cui si utilizza una comune chiave si sarebbe aperta. E ciò avvenne.
Di soppiatto entrò in punta di piedi. Non c'era molta luce per cui per prima cosa, cercò di scostare la tenda almeno di poco e subito il fascio di luce irradiò l'intera stanza. La bocca si dischiuse, gli occhi si spalancarono emozionati e nulla gli parve più bello. Fece pochi passi e con le sue piccole dita, sfiorò i tasti d'avorio di un vecchio pianoforte. Gli sembrò di voler morire dalla felicità ma Simòn era un bambino sveglio per cui non fece alcun rumore. Si girò poco dopo intorno osservando meglio il contenuto della stanza. Non era molto grande, in compenso, molte erano le cose accatastate e proprio quelle nella zona più ad est lo incuriosirono. Forse perché erano ricoperte da grossi teli ormai ingrigiti, forse per la mole.
Si fece coraggio e nonostante le ragnatele, la puzza di polvere e muffa tentò di scoprirli. Non fu difficile poiché queste enormi lenzuola, a dispetto di quanto immaginava, erano leggere e subito vennero via. Si affrettò a depositarle sul pavimento e senza battere ciglio ne osservò incuriosito i segreti che celavano. Non ebbe alcun dubbio: era sua madre quella donna ritratta. Ne riconobbe immediatamente i lineamenti delicati, le gote rosate e i suoi lunghi capelli.Osservò gli occhi e subito una lacrima bagnó la sua guancia paffuta. Era la prima volta da quando era morta che piangeva. Non aveva avuto il tempo di capire e metabolizzare il lutto. Suo padre non gliene aveva data ragione, il tempo o semplicemente era troppo piccolo per capire cosa fosse la morte.
Si strofinó gli occhietti poi incuriosito da un vecchio cofanetto gettato nell'ombra lo tirò verso i suoi piedini. Era un piccolo forziere in legno di olmo. Non era chiuso a chiave, sebbene vi fosse il buco della serratura, quindi fu semplice scoperchiarlo. Poggiò il tappo sul pavimento poi guardando meglio al suo interno afferrò tra le mani due oggetti: una pennapiuma ed un vecchio medaglione. Da quel giorno non se ne separò mai più.
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Anemos ( Fiore del Vento)
ChickLitSi era alzato il vento quella mattina. Si era alzato indomito e sulla sua scia aveva incontrato le anime di due giovani così tanto diversi ma decisamente uguali. Li aveva sfiorati, accarezzati e condotti l'uno tra le braccia dell'altro.. Dal capito...