Capitolo Sette - Harry

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Louis.

Louis Louis Louis Louis Louis.

Harry se lo rigira sulla lingua, lo pensa e lo pronuncia a bassa voce, ne studia inflessione e accento finché non sorride come uno stupido contro il cuscino. Nella settimana successiva a quella sera passata nella sala da ballo (la sera in cui aveva sentito Louis contro di lui, tranquillo e rilassato, e con cui si era svegliato insieme, la maschera ancora incastrata contro la sua pelle) l'aveva usato davanti al ragazzo poche volte, con timore, spesso con tono arrabbiato o, ancora peggio, a voce bassa, mentre una mano gli passava tra i riccioli indisciplinati e la sua testa era poggiata su un grembo in particolare.

Perché se davvero si era imposto di rendere l'ultimo mese di quel ragazzo il migliore possibile, non potendo in alternativa rompere la maledizione per lui, e quindi limitandosi a vivere la giornata così come veniva, non credeva che in cambio avrebbe avuto notti popolate da voci nell'orecchio, lunghe ciglia e occhi azzurri. E un nome, adesso.

(Adora persino litigarci, con Louis. È la parte migliore, dato che non gliela dà mai vinta. Finalmente Harry sbatte contro una testa dura quanto la sua.)

(Una testa di cui vorrebbe baciare zigomi e punta del naso e palpebre e arco di cupido e lobo e labbra.)

(Non è importante.)

"Suona così bene" dice per l'ennesima volta, il guanciale stretto al petto come una ragazzina di dodici anni. Gemma, poggiata a una colonna del suo letto a baldacchino, sospira, ma lo lascia parlare.

"Louis. Poteva chiamarsi solo così, con quegli occhi."

''Ho capito, Harry. Ti piace Louis, credo che ormai sia evidente.''

''Io-'' Harry sospira, guarda il baldacchino e si impone di non sorridere. Resiste per cinque secondi. ''Mi ha aperto la biblioteca.''

''E ti ha raccontato di suo padre.''

''Non tutto.''

Gli occhi di Gemma si piegano in quella che può essere solo tristezza. ''Non vuoi sapere tutto, Harry.''

Quello era il problema: Harry voleva assolutamente, completamente, totalmente sapere tutto di Louis. Era iniziata come una cosa per non annoiarsi, passare la colazione in sua compagnia e infastidirlo, rendendo i suoi ultimi mesi meno mogi, solo che poi era finita come lui che si poggiava alle sue ginocchia, Louis che cercava l'incavo del suo collo, lo stomaco legato ai polmoni e il cuore da qualche parte intorno alle ginocchia. Harry aveva sospirato a lungo, lasciando calci alle colonne del suo baldacchino. Non doveva andare così.

Ma poi aveva visto Louis parlare di sua madre con occhi brillanti, come se avesse staccato le stelle dal cielo e le avesse ingoiate, per farsele scivolare nella testa, e aveva sentito i toni sommessi con cui, dopo la notte nella sala da ballo, aveva raccontato piccoli episodi della vita con suo padre, da quando aveva bruciato un ritratto di famiglia fino a quando lo aveva chiuso una notte nella stalla per aver accolto una delle sue amanti al nono mese di gravidanza.

(Quando lo sentiva parlare con quel tono spento, quasi accusatorio verso sé stesso, Harry aveva voglia di baciare ogni singolo segno lasciato da quell'uomo, dal primo all'ultimo, per tutta la vita.)

Soprattutto, era arrivata Costance, la sua balia. Costance che gli raccontava di un bambino con i più splendidi occhi azzurri, il sorriso dolcissimo e la risata pronta, che raccontava storie alle rane e suonava troppo pianoforte, quando non era impegnato a leggere o a mappare la sua enorme casa. Quella breve, affrettata parentesi finita intorno ai suoi dieci anni, quando suo padre aveva amato sua madre, prima di vedere in lei solo una malattia poco attraente e molto costosa.

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