𝟯𝟭. 𝗣𝗮𝗻𝗶𝗰𝗸𝗶𝗻𝗴

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Quando arrivo alla mia stazione è fin troppo presto. Essendo uscito prima da scuola, per evitare di far preoccupare inutilmente mamma tornando prima del dovuto a casa, decido di allungare il solito giro in bici e di fermarmi nei pressi del solito viale alberato. Lo stesso dove ho portato Bokuto, giorni prima.

Fermo la bici, e non mi trattengo dallo sdraiarmi a terra, nello stesso punto in cui eravamo distesi quel sabato. Mi stringo nella giacca, sotterrando la testa nella sciarpa mentre gli occhi mi si offuscano.

Piango di nuovo. O, forse, non ho mai smesso di farlo.

So solo che non riesco a fare altro se non pensare a Bokuto e al suo volto distrutto dal pianto. Non avrei voluto lasciarlo solo, ma se fossi rimasto, non avrei fatto altro che peggiorare ulteriormente le cose. Non avrei fatto altro che farlo piangere, ancora.

Ha detto che non riesce ad accettarlo. Qualsiasi cosa sia, lo sta lentamente sopraffando, sempre di più. Non lascerò che ciò accada. Ma non posso nemmeno costringerlo a parlarmene.

Bokuto, in fondo, ha bisogno di tempo.

Per metabolizzare qualsiasi cosa sia successa.
Per piangere.
Per accettarlo.
Per parlarmene.

Non me ne sono reso conto, e ho voluto metterlo alle strette pensando fosse la cosa più giusta da fare.

Ma ho sbagliato.
Dovrò scusarmi con lui.
Dovrò farmi perdonare per ogni cosa.

Tiro su col naso prima di sentire altre lacrime rigarmi il volto. Vorrei porerle fermare, ma non riesco a farlo.

È ironico, da un lato.
Io, che per anni non sono riuscito più a piangere, ora non desidero altro che smettere di farlo.

Non so dopo quanto riesco a riprendermi. So solo che sono così esausto da addormentarmi.

Non faccio più caso alla neve o al freddo. Mi lascio semplicemente andare, chiudendo gli occhi.

Nel buio improvviso intravedo una sagoma. È di spalle, è scura. Non si volta quando la richiamo. Non so chi sia, ma è familiare.

Fin troppo.

Non so dove mi trovo.
Forse sì, però.

Riconosco in lontananza il ponte dal quale sono solito passare in bici ogni mattina per arrivare in stazione. Lo stesso ponte da cui ho sognato di gettarmi giù.

Lo stesso ponte sul quale ora si muove la sagoma che ancora vedo di fronte a me. È in cima al ponte ora. Si è fermata.

Percepisco un'inquietudine strana sopraffarmi.
Lo capisco subito: quella persona vuole gettarsi.

Allungo una mano per fermarla, ma è troppo tardi.
Sono troppo lontano.

Mi sveglio di soprassalto.
Il cuore mi martella con forza nel petto mentre provo a riprendere fiato, rialzandomi di scatto da terra, scostando con forza il lieve strato di neve che si era con lentezza depositato sulla mia giacca.

Inspiro a fondo, cercando di riprendermi.
È stato solo un sogno.

Solo un sogno.

Eppure, il terrore di quella vista mi fa raggelare ancora adesso, che ho ripreso coscienza. Deglutisco a vuoto.

Per quanto mi sforzi, non riesco a comprendere di chi si trattasse. Ma una consapevolezza istantanea mi smuove. È un pensiero che mi spinge all'istante a rialzarmi in piedi per rimettermi in sella alla bici.

Mamma.

Nonostante sia stato solo un sogno, non posso fare a meno di non pensarci. Non posso fare a meno di avere paura. Non riesco a fare altro che pedalare con tutta la forza che ho fino ad arrivare davanti casa. Non mi curo nemmeno di rimettere a posto la bici, la lascio in fretta e furia vicino al cancelletto prima di frugare tra le tasche per cercare le chiavi.

«Mamma?», la richiamo con un'ansia crescente nello stomaco. Eppure, nessuno risponde. Il panico inizia ad invadermi il petto. Controllo velocemente in bagno e perfino in camera mia prima di fermarmi di fronte alla porta chiusa della sua stanza. Sento le braccia formicolare mentre la spalanco, quasi tremando.

Il cuore mi sale in gola e ricade con pesantezza nella cassa toracica non appena realizzo che il suo letto è disfatto e vuoto.

Mamma non c'è.

Crollo a terra, mettendomi le mani sulla bocca per evitare di singhiozzare, prima di cercare di riprendere il controllo. Non sto più sognando, ma forse quella visione era veritiera. Forse mamma è su quel ponte.

Vuole provare a suicidarsi nuovamente?

Eppure le cose sembravano star migliorando.
Mi ha detto nuovamente che mi vuole bene.

Non può lasciarmi se mi vuole bene.

Giusto?

Ho la bocca secca e affanno, sentendo le gambe troppo molli per poter tornare in piedi. Il terrore mi impedisce di ragionare lucidamente. Lacrime continue cadono sul mio volto, ma non riesco a fermarle.

Ripenso a quel sogno e immagino la figura di mia madre al posto di quella sagoma. Il cuore ha un tonfo.

Non posso perdere anche lei.
Non posso.

Devo fermarla.
La posso ancora fermare.

Un'ondata di speranza mista ad adrenalina mi aiuta a riprendere lucidità e in pochi istanti mi rialzo in piedi; le gambe si susseguono senza che riesca a controllarle. Urto con forza la spalla destra contro lo stipite della porta d'ingresso ma non faccio nemmeno caso al dolore che il colpo mi provoca. Esco affannando senza nemmeno curarmi di richiudere la porta.

Afferro la bici e altre lacrime mi solcano le guance. Non riesco nemmeno ad impugnare il manubrio per il continuo tremore, ma mi sforzo ugualmente di stringere con tutta la forza rimastami.

Un solo istante di esitazione potrebbe essere fatale.
Lo so bene.

Digrigno i denti e lascio che sia il terrore a smuovermi, costringendomi a pedalare con sempre più forza. La neve mi sfreccia davanti mentre la spalla fa più male del previsto mentre contraggo i muscoli, eppure continuo ad avanzare.

In testa, solo l'immagine di mia madre che non si volta mentre avanza di un passo, cadendo e scomparendo dalla mia vista. Un brivido mi smuove.

Non voglio che mi lasci anche tu.
Non farlo.

Ti prego, mamma.
Hai detto di volermi ancora bene.

Non lasciarmi solo.

HEY HEY HEEY

sto scrivendo già il prossimo capitolo se non lo posto entro una settimana vi do il permesso di insultarmi lol
here again solo per dirvi che vi ringrazio per tutti i commenti e tutte le stelline che ricevo ogni volta, grazie sul serio tantissimo!!
ora sparisco giuro c:

𝗟𝗼𝘀𝗶𝗻𝗴 𝗬𝗼𝘂 | 𝗕𝗼𝗸𝘂𝗮𝗸𝗮Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora