Prologo

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Il re abbassò lo sguardo sulla bambina che teneva in mano. Sua moglie aveva partorito il suo unico erede, e non era un maschio. Schioccò la lingua deluso e infastidito. Margaret non avrebbe prodotto altri eredi, era troppo vecchia e lui non poteva permettersi una nuova moglie, non una che mettesse le mani tra i suoi affari.

Edmund aveva amato Margaret alla follia. Per lei aveva rinunciato alla dote che una principessa avrebbe potuto offrirgli per finanziare la guerra e distruggere le nazioni ribelli. Per lei aveva messo da parte la cultura della sua terra d'origine e aveva adottato le pratiche degli dèi di Margaret. Per lei aveva costruito tenute di campagna e musei d'arte. Per lei aveva rinunciato a campagne di conquista e aveva stipulato trattati di pace.

La creaturina lo guardava con occhi grandi e dello stesso colore dell'oro fuso, sembrava sfidarlo con le sue smorfie. Greysen non era come lei, lui pianse dal primo giorno. Quel pensiero lo ferì nel profondo dell'anima e valutò l'opzione di lasciare la bambina nel bosco e sperare che una creatura la uccidesse. Gli serviva un erede e avrebbe fatto qualunque cosa per assicurarsi che la bambina crescesse come una guerriera. La odiava, ma voleva diventasse forte. Non poteva guardarla, così simile a sua madre e così diversa dal suo unico figlio, il suo Greysen. Il ragazzo gli mancava come l'aria e sapere che non l'avrebbe più rivisto lo stava uccidendo.

Si fece largo tra le fronde basse del Labirinto e si spinse nel fitto della selva, dove l'aria sapeva di foglie appena nate e ghiande mature. Ciò che più lo colpì era il silenzio assoluto che regnava in quel luogo. Era innaturale. Edmund rabbrividì al pensiero. Continuò a camminare finché non trovò uno spiazzo di terra libera dalle radici, appoggiò la bambina sul terreno e fece qualche passo indietro.

La gente di Brimery Hill odiava il Labirinto. Giravano storie raccapriccianti di belve dai mille denti e dagli occhi iniettati di sangue, di cervi a due teste capaci di divorare l'anima. Edmund sapeva che il Labirinto aveva i suoi segreti, e uno di questi era una diretta connessione con gli dèi.

Il re non credeva negli stessi dei di sua moglie -nata e cresciuta ad Askos-, lui credeva in un solo dio, in colui che vegliava sulle grandi praterie delle Isole Gemelle. Ma il suo dio non avrebbe salvato la sua bambina dall'essere debole e fragile, solo una dea poteva farlo.

"Artemide!" parlò con voce decisa, lasciando che le sue preghiere venissero trasportate dalla leggera brezza notturna. Invocò la dea della caccia, della luna, degli animali, dei boschi e della foresta e del tiro con l'arco. La chiamò a sé, le chiese aiuto, consiglio. Le chiese di proteggere la bambina, di farla sua, di renderla forte. La terra tremò sotto i suoi piedi mentre una luce eterea e azzurrognola illuminava le tenebre e scacciava le ombre.

La bambina non emise fiato. Continuò a guardare in alto, verso le fronde degli alberi, come se potesse accarezzare la luna con gli occhi.

C'è qualcosa di sbagliato in lei. Perché non piange? pensò il re con una punta di terrore. Non ebbe il tempo di pensare ad altro, perché un piccolo cervo spuntò dalla luce. Il pelo maculato sembrava fatto d'argento colato sotto la flebile luce lunare. Si avvicinò titubante all'infante, lo guardò e il re udì il cervo bramire. L'aria aveva sempre un buon odore la notte -sapeva di erba fresca e fiori appena sbocciati- ma quella sera si caricò di uno strano profumo. Sembrava zucchero bruciato, caramello, qualcosa che fece venire l'acquolina al re. Poteva sentire la magia macchiare lo zefiro primaverile e il tanfo lo soffocò con violenza.

La bambina rise per la prima volta. Era nata da pochi giorni e non aveva mai pianto, ma rise davanti alla sofferenza del re.

"Lei sarà il destino. Sei sicuro di volerlo, mortale?" il cervo parlò con voce severa ma dolce. Gli scivolò addosso come una carezza, la voce di una madre apprensiva. Il re non sapeva cosa rispondere, non capiva cosa la dea stesse dicendo, ma non avrebbe chiesto. Sapeva ciò che aveva fatto a sua moglie era sbagliato e temeva la punizione di Artemide.

"Sì, signora." sussurrò a testa bassa, capo chino sul terreno. La luce si spense con un boato, delle foglie gli graffiarono il volto e gli punsero le braccia mentre gli alberi intonarono una melodia lenta e lugubre. La dea se n'era andata e la bambina adesso risplendeva di luce diafana e argentea. Un miracolo, disse una voce nella sua testa. Il re scosse quel pensiero, lo rinchiuse in un angolo della su mente e riprese la bambina tra le braccia. Forse avrebbe potuto amare sua figlia, la sua unica erede, ma quel vuoto lasciato da Greysen si sarebbe lacerato sempre di più. La morte di suo figlio aveva fagocitato ogni briciolo di umanità nel re. Edmund non era che un guscio contenente odio, rabbia e avarizia. Nemmeno quella bambina innocente l'avrebbe potuto salvare dalla sua stessa mente. La principessa non avrebbe conosciuto pietà o amore, salvezza e perdono. Era destinata a essere vendetta, un'altra arma nelle mani del re.

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