Capitolo Sette - Cintura Nera di Karate

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Neel

📍San Francisco, California

«Neels, che cazzo hai fatto?!» Fu la voce squillante di quella ragazza a svegliarmi dallo stato di trance più vorticoso in cui fossi mai piombato. Le nocche della mia mano destra pulsavano all'impazzata, mentre sentivo dozzine di occhi divorarmi da tutte le angolazioni.

«Io ti denuncio!» Quell'uomo era eretto di fronte a me. Urlava, gesticolava, sembrava un folle. Sui suoi abiti spiccavano alcune macchie di sangue, mentre teneva un telefono in mano a scopo intimidatorio.

«Vai, denunciami, gran pezzo di merda», tuonai prima di voltare le spalle. Giurai di non aver mai vissuto nei miei trentotto anni una tale quantità di rabbia come in quel giorno.

Dopo la notte della scoperta del tradimento, avevo viaggiato e trascorso ore ai gate aeroportuali, ma non incontrai più quella ragazza. E mi mancava. Non avrei mai pensato di dirlo, dato i nostri trascorsi. Ma la verità pura e cruda era che mi mancavano le coincidenze che ci vedevano protagonisti, e che mi sollevavano l'umore. Perché quella ragazza era viva, piena di luce. E aveva il potere di irradiare il mondo con un solo sorriso.

Attendevo il mio volo seduto su una panchina, quando vidi Haylee lasciare la pista e fare il suo ingresso nell'edificio. Non ebbi il tempo di chiudere il portatile su cui stavo lavorando che quell'infame le si avvicinò.

Non conoscevo quella donna, non conoscevo il suo carattere, quasi non conoscevo neppure il suo nome. Ma bastò quel piccolissimo dettaglio che fosse sposata per farmi perdere battiti, neuroni e nottate di sonno.

Vederla lottare di nuovo contro le sue grinfie mi fece arroventare l'anima. Dopo quello che suo marito le aveva fatto, non mi capacitavo di come pensasse di pretendere il suo perdono. Era patetico. Nonostante l'istinto di prenderlo a cazzotti si manifestò già quando lo vidi avvicinare a lei, trattenni la rabbia. Almeno fin quando non le afferrò il braccio con veemenza, strattonandola. E fu in quel preciso momento che mandai a puttane ogni briciolo di senno.

Non ci vidi più dagli occhi. La mia mente era annebbiata dalla furia, e lo colpii forte, molto forte. Lui si dimenava, combattendo con le unghie e con i denti, fin quando quella ragazza ebbe il coraggio di lanciarsi in mezzo a noi, dividendoci dalla rabbia che avevamo sfogato l'uno sulla faccia dell'altro.

Non vantavo di avere un perfetto curriculum di scelte di vita. Ero sempre stato un cazzone e in un cinquanta e cinquanta di probabilità, sceglievo sempre il cinquanta sbagliato. E, anche quella sera, l'avevo fatto alla grande con la decisione di lottare a pugni con quell'uomo.

La sua mezza statura mi aveva orribilmente ingannato fosse facile da stendere. Ma la verità era che fosse un fottuto professionista con le botte, ed era riuscito a tramortire il mio metro e ottantacinque di muscoli e testosterone con quattro cazzotti, calibrati e assestati nei punti giusti.

I miei piedi battevano veloci sulle piastrelle chiare di marmo dell'aeroporto di San Francisco. Conoscevo a memoria ogni suo buco, ma quel giorno la mia mente era talmente annebbiata da non riuscire a captare la via da percorrere per uscire da quel luogo sempre più caldo e ristretto. Boccheggiavo alla ricerca di ossigeno, così come si tenta di riemergere dopo essere stati per troppo tempo sott'acqua.

Le luci tormentavano i miei occhi, e il brusio di voci si mescolava ai martellanti suoni acustici degli altoparlanti. Mi sforzavo di mantenere duro, così come ero sempre stato abituato a fare. L'ultima cosa che avrei voluto era continuare a dare spettacolo alle decine di figure in transito nei dintorni. Ma in quel momento desideravo solo sdraiarmi a terra e chiudere le palpebre. Ogni cellula del mio corpo mi impose di farlo, fin quando gli stimoli provenienti dall'ambiente esterno cessarono.

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