96. È tutta una moda

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Qui la situazione si complica.

E non sono forte abbastanza.

Lo riconosco.

Vivo due vite.

Ed è diventata inconcepibile questa cosa.

In una, mento. Metto una maschera, cambio volto, cambio nome.

Nell'altra sono Zac, quello che conoscete, quello che scrive qui da un anno, quasi ogni giorno, e si ostina a trovare le soluzioni lì dove in realtà di soluzioni non ce ne sono.

Annuisco. Osservo. Soffro. Racconto di me quanto basta per non compromettermi. Per non rompere gli equilibri. Doso le parole. Parlo poco e al plurale. Non racconto mai di me come persona, come individuo, il mio è sempre un dire generico: "stiamo facendo, siamo andati, siamo stati". D'altronde io non esisto.

Non ho una casa.

Non ho una casella di posta.

Non ho documenti.

E non ho un futuro.

La gente come me non vive mai così a lungo.

Sono un sopravvissuto.

E mi sento in colpa, non per me, ma per gli altri.

Perché con tutti i problemi che ci sono nel mondo, con tutti i problemi della mia famiglia il mio sembra solo un capriccio, di chi avrebbe potuto avere tutto e ha preferito non avere nulla.

Una scelta, un'alternativa.

Peggio.

Una moda.

E non riesco ad andare avanti, non riesco a fare più di così, perché fare più di così significherebbe perderli, metterli contro, creare nuove fratture di cui non voglio essere responsabile.

Non ho alleati.

Nel mio paesino di merda sono solo.

Dove sono tutti? Dov'è la moda? Ditemi! Dov'è la moda?

La gente come me o scappa, o si nasconde, o si ammazza, altrimenti non capisco.

E se oggi sono qui è solo perché non riesco a fargliene una colpa.

Ho perso diversi familiari negli ultimi anni. E quando ieri mio padre mi ha chiamato (non ci sentivamo da mesi) e ha iniziato con "il nonno è..." ho subito pensato al peggio. Mi sono sentito in colpa non potete immaginare quanto.

Mio nonno sta bene, o meglio, sta bene quanto un qualsiasi anziano può definirsi tale il giorno di Natale lontano dalla propria famiglia in un reparto di ospedale dopo un'operazione di urgenza. Solo. Solo perché per le restrizioni nemmeno mio padre può entrare.

Ed io sono qui. Con la mia famiglia che gioca a essere felice, ma la sofferenza è viva e presente molto più dello spirito del Natale.

Ho dei genitori.

Ho dei fratelli.

Ho del cibo.

Una casa calda.

Nulla di questo è scontato.

Ne sono grato.

Grato per ogni singolo istante.

Ma questa vita non mi appartiene, non la sento mia.

Quanto sono stupido?

Sono stato troppo bravo a mentire, pensando di non riuscire mai a trovare una soluzione ai miei problemi, pensando di doverli risolvere occultandoli. E ora? E ora non posso più uscirne. E nessuno mi può aiutare.

Sono un traditore che mangia alla loro stessa tavola.

Un alieno, non un figlio.

Mio padre non capirà mai come mi sento.

Ha avuto una vita troppo triste e troppo pratica per capire che i miei problemi sono reali e risolvibili.

Che potrei risolverli. Che potrei essere libero e sentirmi persona.

Vorrei dirgli che c'è altra gente come me.

Vorrei farmi conoscere per come mi vedo io, cosa c'è di male in questo?

Eppure, per lui io sono ciò che ha creato e ciò che ha creato non doveva essere ciò che oggi sono.

I fantasmi del passato tornano a perseguitarmi impedendomi di guardare verso un possibile futuro.

E gli psicologi servono per i pazzi e lui figli pazzi non ne ha creati, dunque è tutto un capriccio, un continuo voler attirare l'attenzione.

E io non ne posso più di combattere battaglie perse.

Perché non vorrei farli stare male. Vorrei non essere una preoccupazione per loro.

La soluzione sarebbe così semplice.

E invece no, creiamoci problemi, rimaniamo assolutistici.

No, non prendetemi come esempio, non sono abbastanza forte.

Riesco a perdonarli, ma non riesco ad allontanarli.

Faccio un danno a loro, perché non sono ciò che credono io sia.

E faccio un danno a me, che faccio un passo avanti e venti indietro.

E inizio a credere che in questo io non sarò mai felice.

Sì, è proprio vero.

È tutta una moda.

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