Capitolo 10 - And they lived imperfectly forever

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Era ancora nel sogno.

Sapeva di esserlo, perché casa sua non era un palazzo. Né un castello. Nemmeno una grotta ad essere sinceri, nonostante l'errata e completamente priva di senno convinzione di Osamu di riuscire a trovare nuove specie di funghi nel cassetto del suo armadio. Come se poi potesse parlare, lui con le sue piante aromatiche che avevano preso possesso di quello sputo di balcone che si ritrovava.

Atsumu aveva un bilocale, a voler essere generosi: un soggiorno coraggioso, una camera da letto con le finestre sempre aperte e una macchia marrone sbiadita sul muro della cucina, perché Osamu si era sporcato le mani di salsa di soia e si era poggiato all'intonaco bianco con una pesantezza che nemmeno gli orsi che si grattavano la schiena contro la corteccia degli alberi. Senza contare le macchie d'umidità sopra la doccia, ma quello era perché si scordava sempre di far arieggiare dopo essersi lavato.

Di conseguenza, era logico pensare fosse ancora nel sogno. Lo sperava, almeno.

C'era marmo bianco e liscio ovunque riuscisse a poggiare gli occhi: dalle pareti alte, altissime, alle colonne colossali, che partivano da terra e scattavano come querce secolari coperte di rivestimenti bilionari. Il pavimento, inoltre, era così chiaro da fargli male gli occhi, leggermente venato in un intricato disegno dorato con fili attorcigliati e delicati. I corridoi erano ampi, guardie dalle divise precise armate di sciabole francamente inquietanti in ogni angolo e aperture che davano su un paesaggio d'incanto.

Notti arabe tinte di viola e nero, stelle luminose e giardini proibiti.

No, pensò, non era casa sua quella. Nel modo più assoluto.

Il suo appartamento affacciava sul parco pubblico, bello e rigoglioso ma ben lontano dalla meraviglia che riusciva a scorgere in quel momento senza nemmeno muoversi da dove aveva preso coscienza, che si stendeva per chilometri fino ad un muro alto e delimitante a schermare l'interno dalla città esterna. O, forse, il contrario.

Arricciò il naso, accorgendosi improvvisamente di due pesi ben diversi sul capo e sulla spalla sinistra, la mano stretta attorno ad un bastone con la testa di cobra con occhi di rubino e un mantello a decorargli la schiena, scomodo e pacchiano.

"Perfetto." Bofonchiò deluso, girando il bastone per trovarsi faccia a faccia con il serpente. "Stavolta sono il cattivo."

"Idiota." Gracchiò la voce di Osamu sulla sua spalla, un fruscio di ali arruffate e lo schiocco secco di un becco pericoloso. Atsumu si girò con il viso e se ne pentì all'istante, trovandosi faccia a faccia con un pappagallo dalle piume rosse e lo sguardo anche troppo consapevole.

"Giusto il pennuto potevi essere." Ridacchiò però sotto lo sguardo acuto del volatile, sperando non gli mordesse il naso. "Lo vuoi un biscottino?"

Osamu, per tutta risposta, lo beccò forte in fronte. "Stronzo!" Lo insultò ruotando la spalla per cercare di farlo cadere, strofinandosi la pelle arrossata con le lacrime agli occhi. "Mi hai fatto male, bastardo!"

"Smettila di dire stronzate." Rispose Osamu svolacchiando fin sopra la testa del bastone. Si pulì il fianco con tutta la tranquillità del mondo mentre Atsumu continuava a contorcersi dal dolore acuto. "Non ti è servito a niente l'ultimo sogno?"

"Cosa ne puoi sapere, non c'eri." Bofonchiò guardandosi le dita per cercare tracce di sangue. Il mantello che indossava si impigliò con il gomito e, appena se ne accorse, sospirò, cercando di liberarlo. "Dio, come sono vestito?"

"Sarei più preoccupato di quello che ti dice il cervello." Osamu era odioso anche come uccello, si rese conto per niente sorpreso. Umano, topo, specchio, era da incastrare in qualche mobile e lasciarlo a marcire in ogni formato.

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