Capitolo 2

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Guardai l'orologio, erano le due del pomeriggio. Indossai degli auricolari di dubbia qualità e ascoltai il preludio del Die Meistersinger von Nürnberg di Wagner. Tutto sembrava fermo, i movimenti erano lenti, come se il mondo fosse stato sommerso dall'oceano, i piccioni nuotavano come orate e i fiori accanto alle tombe ondeggiavano come alghe. Non ascoltavo spesso musica classica, ma quell'opera mi dava sempre le stesse sensazioni.

Dopo una breve passeggiata, entrai in un locale, ordinai un panino e una birra. Il locale era pieno, e trovai posto a fatica.

Dopo un paio di minuti una donna sulla trentina mi chiese se poteva sedersi, dato che non c'era più posto. Aveva dei lunghi capelli castani raccolti, che si abbinavano agli occhi color mandorla. Mentre attendevamo il pasto, iniziammo a chiacchierare.

< Come mai tutto solo in un posto del genere? > mi chiese lei.
< Non avevo molta voglia di cucinare. Tu piuttosto? >.
< Ero in questa zona della città per alcune commissioni, ma sono entrata in una libreria che ho incontrato sulla strada di ritorno > disse mentre mi guardava, per poi fissare un punto indefinito sul soffitto < Quando inizio a viaggiare tra gli scaffali, mi dimentico completamente che fuori il mondo continua a muoversi. Alla fine ho perso l'autobus > dichiarò con tono rassegnato. < Avrei dovuto aspettare quello dell'ora dopo, quindi ho deciso di fermarmi qui >.

Mise i gomiti sul tavolo e poggiò il mento sulle fredde mani, le dita sottili calcavano le sue guance, i bruni occhi erano rivolti verso la finestra, probabilmente pensando ancora a quanto aveva appena detto. Mentre parlava faceva spesso delle lunghe pause, esprimendosi in modo mai sbrigativo, gustandosi ogni singolo tratto che la sua lingua, le sue labbra, dovevano compiere per terminare un enunciato. Ciò doveva presumibilmente rappresentare il riflesso della mia parlata lesta, non riuscivo quasi mai a controllare il celere flusso delle mie idee, che procedevano in un torrente in piena. Poi i suoi occhi all’insù si rivolsero a me, dunque continuammo a parlare fino alla fine del pranzo di romanzi e autori preferiti.

Si chiamava Darcey. Prima di lasciarci ci scambiammo i numeri.

< Mi chiami tu, vero? > mi disse lei mentre avvolgeva le sue spalle con lo spolverino nero che aveva riposto sulla sedia.
< Non ci conterei se fossi in te > ero sincero. Avevo una catasta di relazioni terminate per causa mia, per il mio egocentrismo, e lo ammetto, anche orgoglio. Probabilmente però stava alla base anche un'insicurezza che, sommata alla mia superbia, non mi permettevano di mantenere stabile una relazione di qualsiasi tipo.

Lauren era una donna gelosa, e mi chiesi cosa avrebbe pensato se avesse saputo della mia chiacchierata con Darcey.

Ogni notte era la stessa storia; indossavo delle cuffie e ascoltavo musica sperando che i fantasmi sotto il letto si sarebbero addormentati. Ascoltare musica, in qualche modo, riusciva ad attenuare quello stridente violino che perseverante risuonava nelle mie orecchie, riuscendo a plasmare le corde di quello strumento e renderlo quasi sopportabile. Ma a volte quel dannato suono era talmente prorompente, e mettere il volume delle cuffie al massimo non aiutava. I fantasmi sotto il letto, per quanto potessi aspettare, non si addormentavano mai, e a volte riuscivo a vederli muoversi, come dei cerbiatti, dal letto all'armadio, dall'armadio al comodino, dal comodino al letto.

Quella notte sognai ancora l'incidente, e il giorno dopo andai in ufficio che non sentivo nulla. Lavoravo per una multinazionale, e non c'era dialogo tra dipendenti e superiori, anche se tra colleghi cera una fitta rete di conversazioni, nella quale io non mi invischiavo. Evitavo di chiacchierare anche con i colleghi più calorosi, in quanto le consideravo relazioni superflue. Il mondo è sempre stato caratterizzato da questo tipo di relazioni, fanno stare bene le persone, ma io non le sopportavo.

Durante la pausa pranzo si sedeva spesso con me un ragazzo appena sopra i vent'anni. Era entrato nell'azienda da poco più di un mese. Spesso mi raccontava dei suoi problemi con le ragazze della sua età, con le quali non riusciva a costruire un discorso, ma rispondeva appena con dei cenni nel caso in cui loro gli porgessero delle domande. Insomma, classici drammi di cui non mi importava niente. Talvolta assentivo con dei cenni o qualche sillaba, ma senza mai entrare realmente nella conversazione, ascoltando passivamente, limitando il mio cervello nella prigione del mio cranio, senza lasciarlo esprimere all'infuori di me. Mi ricordo che durante uno dei suoi primi giorni di lavoro iniziò a parlare di qualcosa, che al momento non ricordo, e mentre blaterava con quel suo modo cagnesco, salivando ed emettendo pezzi di cibo della sera prima ancora incastrati tra i denti, si morse la lingua con una tale violenza da tranciarsela. Me la ritrovai d'innanzi, sull'unto tavolo della sala.

Così tra lavoro e incubi ricorrenti, era di nuovo domenica.

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