Capitolo 9

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Cosa ne era della razza umana? Cosa avrei potuto fare adesso? C'era veramente qualcosa che potessi fare? Non sapevo da dove iniziare.

Forse era stata una pandemia, o delle radiazioni causate dalle bombe atomiche, stava di fatto che ormai quegli esseri non erano più umani. Oppure ero io a non essere più un umano... In ogni caso, non avrei mai potuto pensare che chiamare il servizio clienti sarebbe potuto risultare utile contro una catastrofe di tale portata.

Decisi di passare dal supermercato, sperando di poter trovare del cibo non ancora scaduto, ma come avevo previsto, era ormai tutto andato a male. < Chissà di cosa si nutrono questi esseri... > pensai.

Ad un tratto mi venne alla mente Darcey, e per un attimo temetti che il cuore mi si potesse fermare. Come mai mi ricordavo di lei solo ora?

Mi diressi da lei, sfondai la porta del suo appartamento. Ero esausto. Dovetti aprire le finestre in ogni stanza in cui entravo per far entrare la luce, altrimenti non avrei visto nulla e il fetore mi avrebbe steso.

All'entrata mi diede il benvenuto Walter, o almeno ciò che ne rimaneva. Era stato scuoiato e divorato.

Entrai nella sala da pranzo, in cucina e nel bagno senza risultato. Notai come in tutte le stanze, il tetto presentava numerose crepe, come se qualcosa di pesante lo avesse colpito ripetutamente. Mancava da controllare soltanto la camera da letto. Aprii la porta.

Le mura della stanza erano di un blu profondo, e, accanto al letto, la finestra spalancata permetteva l'entrata della rossa luce del sole.

Tra il letto e il comodino, un raggio purpureo rivelava una di quelle creature, ma alta molto più delle altre, mentre si cibava di un suo simile.

Compresi che nella loro società, si viveva grazie al cannibalismo.

La creatura staccò uno dei bracci e lo spolpò come fosse una coscia di pollo. A ogni morso il sangue macchiava una nuova zona del muro, e devo ammettere che il blu della parete non era affine al rosso della carne putrescente.

Dopo aver masticato una mano intera, sputò un unghio. Lo scricchiolio delle ossa frantumate mi diedero i brividi. A quanto pare le unghie non erano appetibili neanche a bestie del genere.

Poi si voltò verso di me, i piccoli denti stavano ancora strappando la carne dal braccio. Gli occhi spalancati e iniettati di sangue mi fissavano, era evidentemente terrorizzato dalla mia presenza. Si gettò contro di me, facendomi cadere rovinosamente a terra. Era sopra di me e tentò di mordermi la faccia. I suoi denti penetrarono i miei zigomi, lacerandone la carne. Alcuni suoi denti si staccarono, e rimasero affondati nella mia pelle. Dalle violacee, tumide gengive spurgavano secrezioni di vario genere, urlai, riuscii a spingerlo via e l'essere fuggì rapidamente.

Toccare la sua carne pastosa fu orribile.

Presi una lampada dall'asta particolarmente lunga e mi affacciai dalla stanza nell'intento di accertarmi che il nemico si fosse allontanato.

L'essere però era più stupido del previsto: lo vidi mentre si guardava intorno, non sapendo quale strada intraprendere per fuggire. Aveva forse troppe opportunità che non sapeva quale cogliere; andare verso la finestra sulla destra, uscire dalla finestra in cucina o fuggire dalla porta principale. Impanicato com'era, alla fine mi venne incontro, beccandosi un colpo di lampada sul volto, le schegge della lampadina vitrea lo colpirono negli occhi, ormai divenuti inutili.

La bestia ceca si portò le mani al viso, gridando come un forsennato, ed ebbi pena per lui.

Nelle sue grida non c'era nient'altro che dolore e terrore, che lo rendevano impietrito dinanzi alla minaccia dell'uomo di fronte a lui. La paura rende immobili, o al contrario fuggevoli, ma quella cosa ora era in ginocchio, come spinto da un istinto primordiale che lo inducesse a sottomettersi alla paura, al più forte. Quell'essere supplichevole mi faceva pena, e non riuscii ad attaccarlo nuovamente.

Quella "cosa" dunque, notando la mia esitazione, si rese conto della mia debolezza, e allora la sua paura era diminuita, e il suo petto ossuto si gonfiò di almeno 2 centimetri.

Poi con convinzione uscì dalla finestra della cucina. Probabilmente però non si era accorto che Darcey abitava al quarto piano, e dunque quella caduta gli sarebbe risultata fatale.

Ancora sbalordito dalle azioni insane di quell'essere, mi diressi nella stanza da letto.

Mi avvicinai al corpo smembrato accanto al materasso.

Era Darcey.

Era stata divorata quasi del tutto, ma la riconobbi perché portava ancora l'anello della madre sul collo.

Non riuscii a trattenere le lacrime.

Era rimasta con un braccio solo, ed entrambi gli arti inferiori erano stati divorati. Guardai il suo volto completamente sfigurato, i bellissimi capelli castani di un tempo ora sembravano dei peli incarniti. I suoi occhi sembravano uscire fuori dalle orbite, e notai che si stavano muovendo, e ora mi guardavano. Era ancora viva.

Con tutta la forza che aveva in corpo, provò a fuggire strisciando, utilizzando l'unico arto che le rimaneva. A causa dell'attrito, l'unghia del medio e dell'anulare si staccarono dalle dita, mentre quella dell'indice si stava lentamente sfilando, spruzzando sangue e pus ovunque. Nonostante il dolore atroce, continuava a muoversi per un disperato tentativo di fuggire.

Guardai per l'ultima volta ciò che rimaneva del suo viso. I tratti somatici erano irriconoscibili, scombinati, eppure le piaghe indefinite del volto trasmettevano il suo stato d'animo, e quegli occhi, Dio, quegli occhi mi fissavano e scavarono nel profondo del mio animo, dove nulla vi era mai arrivato. Quegli occhi riuscirono a toccare il mio cuore, trapassandolo, facendolo scoppiare come una camera d'aria, in un tripudio di sofferenza e sensi di colpa.

Caddi a terra, in ginocchio, guardando "Darcey" mentre si allontanava. Il dolore che evidentemente stava provando era nullo in confronto all'astio che nutriva per l'uomo davanti a lei. Le corde nella sua gola vibravano, e come se vibravano... Dalla sua gola veniva emesso liquido scarlatto in grande quantità, e a quanto pare non bastava ad occludere quel latrato tagliente.

Ripensai al dolce bacio che io e lei ci eravamo dati ormai 10 anni prima, ma adesso mi veniva un rigetto soltanto a pensarci, conciata com'era.

Quella carogna non avrebbe attratto l'attenzione neanche del peggiore dei necrofili.

Stetti lì fermo per un tempo immateriale, inquantificabile, a guardare quella povera creatura strisciare.

Trovai la giusta forza in me, e con il calcagno le spiaccicai la testa contro il parquet.

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