VII

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Quando mi sveglio c'è buio, l'unica fonte di luce nella stanza è il raggio di luna che entra dalla finestra. Non vedo quelle pareti grigi della camerata e il letto è troppo comodo per essere quello dell'infermeria.  Il forte odore di disinfettante e il continuo bip che mi rimbomba nelle orecchie mi fa capire che mi trovo in ospedale, immobilizzata a letto. Ogni mio muscolo si rifiuta di muoversi come anche i miei polmoni che fanno fatica a dilatarsi nel busto compresso. Mi manca l'ossigeno, la vista mi si appanna e il panico prende il sopravvento. Vorrei urlare per chiedere aiuto ma la dispnea non mi permette nemmeno di usare il cervello.

Quel rumore che inizialmente si ripeteva ogni dieci secondi, ora è irregolare e sempre più veloce. Vedo qualcosa, infondo alla stanza, muoversi ma non riesco a mettere a fuoco. Quel qualcosa diventa un qualcuno ma il mio stato di panico non mi permettere di riconoscere quei occhi che mi guardano con preoccupazione. Solo nel momento in cui la sua mano si posa sul mio viso dolorante riesco a capire di chi si tratta e il mio panico si trasforma in terrore. Per mia fortuna quel tocco non dura a lungo perchè viene allontanato da una macchia bianca. I suoi occhi neri sono l'ultima cosa che vedo prima di venir punta sul braccio e di perdere coscienza un'altra volta.

Un forte mal di testa mi porta ad aprire gli occhi per chiedere qualcosa per avere del sollievo. La stanza che prima non avevo avuto il tempo di analizzare ora risplende grazie alla luce del sole che la riscalda. Illuminata ha un spetto più accogliente. La mia vista è ancora un po' appannata ma riesco a riconoscere una figura maschile di spalle mentre è in piedi davanti alla finestra.

"Ares?" domando con un filo di voce.

La gola è talmente tanto secca da farmi male. Mi sento come se non bevessi da giorni, come se mille api mi stessero pungendo nello stesso momento, come se avessi perso la voce.

Tra tutti i ragazzi che conosco è l'unico che ha un valido motivo per trovarsi qua: è lui che mi ha portato in infermeria priva di sensi, è lui che si è preoccupato quando mi ha vista in quello stato. Leo non fa più parte della mia vita e non sa nemmeno dove io mi trovi e Elijah, se avesse un po' di buon senso, non si farebbe mai più vedere da me. 

Appena pronuncio quel nome, la persona alla finestra si gira rivelando il volto di qualcun altro.

"Mi dispiace deluderti " Controbatte Elijah venendo verso di me.

Il suo volto, come ogni dannata volta, è impassibile. I suoi occhi non mi comunicano niente, sono spenti, vuoti, senza anima. Quel colore unico per me è sinonimo di inferno.  Quella cicatrice sopra il sopracciglio l'associo alla mascolinità tossica e quelle labbra irresistibili al male puro. Trovo ironico come un volto così bello, perfetto e unico nasconda qualcosa peggio del diavolo. Verga mi ha mentito: non devo avere paura dei capelli rossi ma dei occhi neri.

"Come ti senti? - mi domanda incoraggiato dal mio silenzio. - Hai subito due interventi in meno di ventiquattro ore - continua non ricevendo nessuna risposta da parte mia - Per questo abbiamo deciso che è meglio se tu torni a casa tua, almeno fino a quando non guarisci del tutto. - mi spiega ma io non ho il coraggio di alzare lo sguardo dalle fasce che ho sulle mani - Mal, per favore, di qualcosa" mi prega toccandomi il braccio.

La sua azione mi provoca i brividi e lui se ne accorge, per questo motivo  ritrae immediatamente la mano e la ripone in tasca. Non ho la forza di dire niente, non ho la forza di muovermi, non ho la forza nemmeno di piangere.

Improvvisamente quel nero diventa verde, diventa casa. Papà! Il suo viso è deluso e mi guarda scuotendo la testa.

"Sei così debole" dice.

"Scusa" controbatto con gli occhi lucidi.

"Io non ho cresciuto una figlia che si fa mettere i piedi in testa dal primo che passa" continua con le braccia incociate al petto.

Tale padre, tale figliaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora