Buona giornata

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Un anno dopo

La sveglia non suonò più, non ce n'era il bisogno. Era il sole di mezzogiorno, bollente e fastidioso, ad aprirmi gli occhi ogni mattina con la forza.

Occhi che non avrei mai più voluto aprire per cercare di mettere a tacere il senso di colpa che mi divorava da dentro.

Li aprii comunque, ma non prima di aver affondato la testa nel cuscino bianco tenendo lontana la luce ancora un po'.

Mi trascinai in bagno passando distrattamente di fronte allo specchio che mostrava qualcuno che mi somigliava, ma che non ero io. I capelli erano cresciuti, così come la barba e i profondi solchi violacei sotto agli occhi indurivano il mio sguardo, rendendo le labbra ancora più sottili.

È strano perché gli occhi me li ricordavo nocciola, ma forse mi piaceva il colore che avevano quando riflettevano nei suoi. E le labbra più piene grazie a lei che riusciva a riempire gli spazi.

Tornai in camera ed indossai una camicia a quadri logora, una delle sue preferite, un paio di jeans e le nike cercando di rendermi presentabile per andare a lavoro al supermercato dei miei.

«Cazzo» mormorai passandomi una mano sul viso. Non riuscivo a trovare mai niente in quella stanza, nemmeno me stesso. Avrei dovuto metterla in ordine, dare un senso alle cose rimaste ma non me la sentivo ancora. Il subbuglio riusciva a darmi l'illusione di tranquillità. Mi aiutava a non essere l'unico fuori posto.

Cercai il portafogli da una parte all'altra passandomi una mano sulla bocca prima di dare un'ultima occhiata in giro.

«Penelope, accidenti.» il cane mi guardava con gli occhi in basso ed era quasi impossibile sgridarla. Mi avvicinai sfilandole il portafoglio dalla bocca, ma le accarezzai le orecchie. «È ora della pappa.» Mi guardava con aria interrogativa e non aveva intenzione di spostarsi dall'angolo in cui era stesa con lo sguardo triste. Feci per andare verso le scale che mi avrebbero portato in cucina lentamente ripetendo la parola pappa ma non voleva proprio saperne quella mattina.

Alzai lo sguardo dal cane al comodino sotto cui si trovava e i miei occhi rimasero incollati ad un vecchio ricordo. Una fotografia che ritraeva me e Ginevra ad una festa. I miei capelli perfettamente in ordine e gli occhiali da sole scuri incorniciavano una risata onesta, sincera. Gin indossava una camicia con il colletto e una vecchia gonna di sua nonna.

Aveva sempre amato il vintage, credeva di appartenere ad un'altra epoca e questo la vestiva di particolari che non potevi dimenticare. Come le cuffie ingombranti e con i fili sempre aggrovigliati, il giradischi logoro di suo padre e la musica anni '80 che aveva imparato ad apprezzare di più grazie a me.

Nella foto, avevo un braccio intorno a lei mentre nascondeva il volto nell'incavo del mio collo.
Non appena la foto iniziò a farsi sfuocata capii di dovermi allontanare prima che il dolore mi afferrasse pronto a gettarmi nei suoi abissi, come una sirena con il suo canto malinconico.

Riguardai Penelope e tirai le labbra in un mezzo sorriso, sbuffando aria dalle narici.

Quando Ginevra morì sua madre iniziò a disfarsi di tutte le sue cose. Diceva che sarebbe stato più semplice se la casa non fosse piena delle sue cianfrusaglie. L'istinto di urlarle contro per aver definito pezzi di vita della figlia in quel modo mi logorava da dentro ogni volta. Il primo mese iniziò a liberarsi dei suoi libri, poi dei vecchi giocattoli e infine dei suoi abiti ancora impregnati con il profumo della sua pelle. Nel giro di pochi mesi gli unici ricordi di Gin che riuscivi a trovare, erano in camera di Federico.

Suo fratello non era d'accordo con sua madre, non voleva che la memoria di sua sorella venisse spazzata via come polvere quindi decise di tenere alcune delle sue cose, raccogliendole in uno scatolone da trascinarsi dietro nei momenti in cui le mancava o aveva bisogno di conforto. Fede non riuscì a tenersi tutto, però. Il cane era rimasto a me perché sua madre non sopportava di sentirla zampettare per casa nel silenzio. Non quando lo zampettio era solito essere seguito dal rumore dei passi disattenti di Ginevra.

Era una grande imbranata ed io, più di lei quando la vedevo venirmi incontro per aprire la portiera dell'auto.

Penelope era diventata un ostacolo. Era il continuo promemoria che lei non fosse più insieme a loro, quindi decisi di prenderla con me. Meritavano un po' di pace, ero io a non meritarla. Sarebbe stata l'espiazione al mio senso di colpa.
Quindi ogni volta che Penelope zampettava mi illudevo di vedere anche lei, ma era soltanto il continuo promemoria che lei non fosse più con noi.

Lei non c'era, e non lo meritava.
Io sì, ma non lo meritavo.

«Manca tanto anche a me.» Sussurrai prima di uscire dalla camera da letto per andarmene a lavoro. «A stasera, Penny»

Almeno tu resta con me.

-

«Sono dieci euro e cinquanta, buona giornata.»
«Diciassette e trenta, buona giornata.»
«Tre euro e ventinove, torni a trovarci.»

Quando nessuno rispondeva al mio «Buona giornata» iniziai a non dirlo più. Era un augurio troppo intimo da dire ad un estraneo.

Se quella persona meritasse di passare una buona giornata, io proprio non potevo saperlo. Ecco perché nessuno me lo diceva.

Continuavo a passare i prodotti sul nastro in modo meccanico senza nemmeno più guardare i clienti. Quella mattina mi sentivo terribilmente egoista, non mi andava di vederli sorridere. Più sorridevano allo schermo del telefono o alla persona accanto a loro, più io mi ricordavo che non avevo assolutamente niente per cui sorridere.

Continuavo ad ignorare i messaggi di Ed, tanto da esser diventati meno frequenti. Dalle storie su Instagram vidi che si era fatto un altro giro dopo mesi senza risposta.
Aveva fatto bene. Lo avrei fatto anche io.
Ma che importa cosa avrei fatto?

Federico passava a trovarmi una volta ogni tanto. Mangiavamo pasta al formaggio e provavamo a guardare quella serie tv che piaceva a tutti, ma che a noi proprio non andava giù. I suoi capelli ricci erano cresciuti, un po' come lui. Erano diventati anche più scuri proprio come i suoi occhi. Era uno spilungone e questo era un bene perché l'altezza è l'unica cosa che i bulli temono.

Lo so bene perché ero uno di loro.

Ero diventato amico di Ed alle medie quando quelli del mio gruppo lo avevano preso di mira per via delle lentiggini. Edmund si era trasferito da Londra e non aveva nessuno con cui parlare. Lo chiamavano "Macchia" e gli abbaiavano contro cose tanto cattive da farlo stare a casa per giorni. Volevo arrabbiarmi quando non reagiva, ma certe persone sono così. Nascono e subiscono, non importa quanto la vita diventi dura, non reagiscono. Mai avrei pensato di diventare uno di loro.

Una volta rientrato, ricominciarono ed iniziarono gli spintoni, poi un giorno un calcio negli stinchi così, senza dire niente, mi interposi tra Ed e loro. Quel giorno le presi, ma le presero anche James e i suoi.

«Te ne pentirai, stanne certo.» Il biondo si pulí il naso con il dorso della mano.
«Non lo saprai mai, stanne certo.» Risposi con la testa alta guardando il biondo indurire lo sguardo prima di abbassarlo e togliersi di mezzo.

«Sono Joe.» Dissi allungando una mano verso Edmund. «Meglio andare a ripulirsi un po'»
«Edmund» Rispose afferrando la mia mano per mettersi in piedi. I pantaloni erano sporchi di polvere. «Se la prenderanno anche con te, adesso?»
Feci un mezzo sorriso.

«Che ci provino.»

Ed era diventato il mio migliore amico. Ed io il suo.

-

La giornata passò così. Inesorabilmente piano e segnata dallo scandire dell'orologio e dei pezzi scannerizzati da mettere nelle buste. L'ultimo cliente di quel turno me lo ricordo bene.

«Joseph Osborn?» Sentii chiamare il mio nome ed alzai lo sguardo sulla ragazza dai capelli rossi.
«Mh?» Aggrottai le sopracciglia.
«Oh, scusa. È passato tanto tempo.» Sorrise prendendo la busta tra le mani. «Sono Emma Thompson, una tua ex  compagna di classe.»
«Oh, sì. Mi ricordo.» non è vero. Annuii debolmente.
«Sarebbe bello prendere un caffè insieme, un giorno.» Si affrettò ad aggiungere. «Se ti va.»
Non riuscii a rispondere. Anche solo l'idea di uscire con qualcun altro mi disgustava.
«Scusa, sono molto impegnato. Ho del lavoro da sbrigare.» La voce deve esser uscita più dura di quanto intendessi perché con un cipiglio deluso sul volto, uscì senza dire niente.

Non meritavo un «Buona Giornata.»

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