Delusione

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«Posso sapere cosa pensavi di fare?»
La voce di Edmund mi rimbombava nelle orecchie facendomi sentire dolore alle gengive e alla mascella. Un martello pneumatico di paranoie e stress: si era ridotto ad essere questo. Ed io non ero meglio di lui a pensare queste cose dell'unico che provasse a starmi vicino.

Stava scuotendo le mani nervosamente perchè non sopportava la vista del sangue. Notai come gli occhi passassero da una parte all'altra senza mai fermarsi veramente sul mio viso. I pantaloni chiari e la camicia appena stirata emanavano un odore di pulito che riuscii a sentire nonostante si mischiasse con quello ferreo del sangue. Feci una smorfia di dolore che gli fece abbassare il tono. «Perchè ti sei messo a provocarlo?»

«Quindi ora il problema sarei io, non è vero?»
Gettai il ghiaccio sul tavolo con più forza di quanto intendessi. «Ti sei fermato un solo istante a pensare che forse la colpa non è mia?» Indice e pollice stavano tenendo stretto il naso all'altezza degli occhi. Bruciava, ma non quanto il mio orgoglio in quel momento.

Edmund mi guardò con un cipiglio sul volto. Le sopracciglia aggrottate non fecero altro che mettermi sotto pressione. Finalmente si voltò verso di me, scrutò il sangue depositato sotto al labbro inferiore e poi, all'improvviso, il volto si rilassò in un'espressione rammaricata. Scossi impercettibilmente il capo mentre si apprestava a sedersi di fianco a me.

Non volevo la sua compassione, non faceva che farmi sentire peggio.

«Ha detto qualcosa su di lei, vero?»
«Bravo, ci sei arrivato» Mi abbandonai sul divanetto del locale. Poi lo guardai mentre si tirava su le maniche della camicia prima di passarsi una mano tra i capelli corvini. Erano più lunghi di come mi ricordavo. Mi fece un po' pena. Le lentiggini erano ancora lì, il suo naso era ancora quello di un tempo e tutto nell'insieme non sembrava avere più di quindici anni, quando invece ne aveva uno in più di me. Non ci vedevamo da tantissimo, ma la colpa non era sua.

Lo si capiva dal modo in cui mi stava seduto a fianco, aspettando che dicessi qualcosa senza volersene andare. Era fatto così. Non se ne sarebbe mai andato, da quella volta alle medie mi era sempre stato vicino anche quando io avevo iniziato a trascurarlo per stare con lei. Lui mi aveva capito.

Sapeva che tutto sarebbe tornato come prima perchè si beava di quegli attimi in cui c'eravamo solo noi due, la playstation e il pollo al curry di sua madre.

Mi sfiorai il petto, all'altezza del cuore continuando a chiedermi se tutto quel senso di colpa mi avrebbe mai lasciato vivere. Le parole che sentii dopo non fecero che rincarare la dose.
Maledetto tempismo.

«Non respingermi, Joe.» Non riuscii a dire niente. Per quanto possibile, quella combinazione di parole fecero più male dei pugni di James.
«So quanto contasse per te, ma lei non vorrebbe vederti così.» Esitò un attimo. "Gin ti vorrebbe felice» Esitò ancora ed iniziò a darmi sui nervi. «Dovremmo provare ad andare a Londra a vedere di che cosa trattano quei corsi. Potrebbe farti bene, potresti cambiare aria e-»

Aveva colpito ed affondato e nell'istante esatto in cui aveva pronunciato quelle parole l'immagine del sorriso di Ginevra mi si palesò nella mente. Un sorriso che svanì a poco a poco,a causa della lite avuta la sera dell'incidente. L'incidente che le fece perdere il controllo dell'auto.

Tornai con lo sguardo su Edmund. Avrei voluto dirgli che aveva ragione, che un giorno di quelli potevamo organizzarci per mangiare una pizza ma non me lo meritavo. Quindi feci quello che mi riusciva meglio.

«No.» Avevo l'indice alzato mentre lo guardavo con uno sguardo carico di rabbia e rancore. «Tu non la conoscevi. Solo io la chiamavo in quel modo. A te lei non piaceva nemmeno.» Sentii il pianto spingere per uscire. «Forse sì, mi vorrebbe felice. Ma lei se n'è andata e nessuno può farci niente.» Mi alzai di scatto lasciando il ghiaccio sul tavolo, allungai la mano verso il portafoglio per lasciare sul tavolo i soldi del caffè. «Stammi bene, Ed.»
«Io sono tuo amico!» Lo sentii alzare la voce. «Io sono qui.»
Lei non c'è più.
«Devo andare.»

E me andai di nuovo, deludendo anche lui.
Lasciandolo indietro una volta ancora.

Chissà per quanto tempo avrebbe continuato a definirsi ancora mio amico. Chissà se qualcuno ancora pensava a me con quell'appellativo, a parte Ed. Allontanai quei pensieri e mi diressi verso casa mia dove avrei trovato Federico a dondolarsi sull'altalena nel buio dei suoi pensieri.

Mi avvicinai cauto.
«Tutto bene?»
«Dovrei chiederlo io a te» Federico mi stava guardando con la mascella serrata. Aveva il cellulare tra le mani.

Che la rissa al flower fosse già di dominio pubblico?

«Sto bene» Mi sfiorai il sopracciglio ingoiando il dolore. «Non è niente»  Mi sforzai di fare un sorriso nel vedere sul suo volto il cipiglio così simile a quello di sua sorella. «E comunque l'altro sta molto peggio.»
Federico arricciò il naso nascondendo un sorriso e si alzò dall'altalena, seguendomi fin dentro casa.

Nonostante me la fossi cavata, sapevo che una volta dentro sotto le luci, si sarebbe fermato ad osservare quanto fossi messo male in realtà. E, da grande empatico, si sarebbe reso conto che gli occhi erano scuri, ma non per le botte.

Ero pronto a deludere la terza persona di quel giorno.

Another Ghost RomanceDove le storie prendono vita. Scoprilo ora