Se mi guardi con quegli occhi
io poi torno bambino14 agosto 2014
È nel dolore che spesso due cuori si incontrano. È in esso che imparano l'empatia, che si legano su piani emotivi che non apparterranno mai ai cuori sani. È grazie a esso che apprendono l'arte dell'amore rinnovato, che solo un cuore logorato può ricostruire.
Un amore diverso, a tratti più forte.
Sentito in quei tessuti che ancora sanno respirare.
È nel dolore che due anime si capiscono. Così imparano a crescere insieme, e a condividere tutto ciò che gli appartiene. A sopportare, ad aiutare.
Nei casi più rari, così imparano anche ad insegnare.
A un figlio ad amare, a un altro a dimenticare.
E allora, due bambini dalle mancanze diverse di ritrovano a giocare insieme al parco.
Sono i genitori ad averli uniti, ad aver annodato i loro dolori. Lo hanno fatto nella promessa di colmare i loro vuoti—quello troppo profondo di un padre, e quello dimenticato di un fratello.
E forse, lo hanno fatto anche per riempire un po' i propri.
Dante Balestra e Anita Ferro si sono conosciuti nel giorno più buio dell'anno; e non c'è sole da biasimare per quelle tenebre infernali.
Solo le circostanze.
Si sono incontrati in ospedale per la prima volta, seminando la vita attorno alla morte. Hanno condiviso forza, coraggio, instabilità.
Quella notte, così, un fiore è sbocciato, un'amicizia nata da un terreno ormai morto. Un'amicizia dilatata poi, estesa anche ai figli, due anime troppo pure per conoscere l'inseparabilità.
E allora sono loro che riempiono di risate quel parchetto ogni giorno, mentre i genitori conversano amabilmente. Sono loro a scomparire per ore tra le ombre degli alberi, regolarmente, tanto da non scatenare nemmeno più il panico nel cuore ansioso di una mamma tanto attenta come Anita. Sono loro ad amarsi tanto quanto i genitori, forse anche di più.
Solo che ancora non lo sanno.
Una mattina di quelle più estive dell'anno, Dante e Anita portano i loro figli a giocare insieme al parco.
Come d'abitudine.
Sempre come d'abitudine, poi, i bambini scompaiono in un angolino, lontani dall'indiscreta vista dell'occhio adulto. Si infilano tra le frasche, sorridenti entrambi, e dopo essersi graffiati persino le fronti—su cui, a loro insaputa, rimarranno impresse delle leggere cicatrici—sbucano nel luogo da loro tanto ambito.
Un rifugio.
Il rifugio.
Il rifugio—così denominato fieramente dal piccolo Manuel—è una semplice grotta. Un buco nella roccia, coperto dal verde e illuminato abbastanza dalla luce. Un posto nascosto, l'accesso al mondo dei sogni, la chiave per la porta del cuore di ogni bambino curioso. Un luogo riempito dall'immaginazione, dai racconti vissuti a voce alta, dalla segretezza e dalla passione impressa nei toni di chi parla.
Una sezione del mondo adibita solo a loro due, i piccoli Manuel e Simone.
Il loro posto sulla terra.
"Oh—annamoce a sede la', dai. Oggi tocca a me racconta'."
Quello, poi, è sempre qualcosa di loro. Un loro rito, una loro abitudine. Quella di raccontarsi storie inventate da loro, verosimili o fantastiche, da condividere insieme per il resto delle loro vite. Quella di insegnarsi qualcosa tramite quelle storie, di comunicare emozioni, descrivere loro stessi.
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L'attimo che non fugge mai
Hayran KurguA quegli attimi nascosti tra le pieghe del tempo.