Mi sono iscritto alla facoltà di filosofia, perché volevo fare il comico, inizialmente.
Pensavo: "Se possono farlo gli altri, perché non posso farlo anche io?" e gli altri sarebbero semplicemente gli altri comici che stanno su YouTube, su Netflix etc.
Avevo questa immagine di me in cui io volevo essere quello simpatico, quello carismatico del gruppo, con la battuta pronta, scottante, quello che faceva ridere, ma anche riflettere.
Però non ero così nella realtà, anzi; qualche anno fa, provai a dire una battuta, tutti risero, ma non perché facesse ridere la battuta, ma perché: "A me fa ridere che tu non fai ridere".
Nonostante (o grazie a) ciò, continuai su questa strada, fino ad, appunto, la scelta di iniziare l'università per quel motivo. Durante il tragitto, questa immagine iniziava a costruirsi, ad avere aspetti e comportamenti adeguati alla mia persona, e ad un certo punto, l'immagine era completa, andava solo mostrata; mostrarmi per come pensavo di essere.
Ci sono stati solo due momenti in cui io ho provato a fare il comico, davanti ai miei amici, ed in ambedue le occasioni, ho fatto ridere.
Quindi, obiettivo raggiunto? Si potrebbe dire "Si", perché ho avuto l'effetto che desideravo, anche se era successo esattamente la stessa cosa di qualche anno fa.
Ma qualcosa non andava, avevo una strana sensazione, cioè, ero così concentrato e determinato a far ridere, che, mentre loro ridevano della mia goffaggine, io ero serio, teso.
Tornando a casa, quella sensazione di disagio, di sfasamento, aumenta, come se in quel momento, qualcosa dentro di me si fosse staccato, come se avessi recitato una parte, senza avere i risultati sperati; hanno riso, ma di me, non per le mie "battute" (sinceramente, erano penose).
Ora, chi mi conosce un po', sa che ho un carattere almeno strano, o comunque non comune, sono abituato (grazie ad un'esperienza decennale di bullismo e successiva psicoterapia) a ciò, anzi, sono arrivato al punto di farmi spesso autoironia, ma non è questo il punto; avevo scoperto di essermi comportato in maniera diversa da ciò che sono. Pensavo che arrivato a quell'ideale, avrei trovato quasi magicamente me stesso, ma così non è stato.
Il giorno dopo mi isolo completamente dagli altri, non prendo il cellulare neanche una volta. Non volevo avere a che fare con nessuno, perché non mi sentivo autentico, o peggio, sentivo di esser diventato qualcosa di diverso da me e sono stato così male da avere un mental breakdown.
Ne parlo qualche giorno dopo con la psicologa, e lei mi domanda del perché avessi creato dei modelli, degli ideali, tanto distanti da come sono fatto, ed io rispondo, dopo averci pensato un bel po': "Perché così vengo accettato dagli altri, anche se so che è solo una parte incompleta di me". Lei fa l'esempio delle formine che i bambini usano sulla spiaggia, che, per fare la stella, viene esclusa molta altra sabbia; quindi, questa immagine di me, non era altro che l'ennesima immagine che mi ero fissato di raggiungere.
Non è stata l'unica infatti.
A 17 anni, quando ho iniziato ad ascoltare metal, mi vestivo di nero quando possibile, iniziavo ad essere una specie di ribelle per il solo fatto di ascoltare un genere diverso, ad indossare polsini dei Cannibal Corpse (anche se io ancora oggi non riesco ad ascoltare il Death metal puro e crudo), e guai a chi ascoltava musica pop; insomma, un poser a tutti gli effetti.
Ciò si rifletteva sui miei comportamenti, ma nulla era cambiato alla fine, magari ho acquisito solo un po' di autostima, ma abbandonato l'outfit, abbandonato anche il resto. Più in avanti, mi immaginavo come esperto di musica (ho parlato per 10 minuti sulla Dark Polo Gang; non penso ci vogliano ulteriori spiegazioni).
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EIia II: "Slam Dunk"
No FicciónSe in "Elia I" ho fatto i conti con un espierenza amorosa, qui è diverso. Per parlare del futuro, del periodo che sto attraversando, sono andato a scavare nel mio passato, per trovare il luogo da dove tutto è nato. Se nella prima "opera" sono stato...