Prologo: erat olim Romae

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Ci fu un tempo in cui Roma si ergeva gloriosa
sul mondo e l'ombra di quello stesso mondo
si scansava dinanzi alla sua luce.

In quegli anni di splendore e di porpora, corone imperiali cingevano i capi di uomini destinati
– dalla storia e dagli dèi –
alla grandezza per diritto di sangue.
Per altri, invece, era sulle sabbie irrorate di sangue
che tale diritto si conquistava,
sotto scrosci di folle adoranti e
col viso nascosto sotto elmi d'ottone
scintillante.

Là, nelle grandi arene,
si combatteva e si moriva per la gloria della vittoria
a colpi di lame affilate.
Ma neppure la lama più dura taglia e uccide
quanto uno sguardo d'amore


C'era stato un tempo – molti anni prima per la vita di un uomo ma non troppo nell'arco della storia di quella città – in cui quel giorno sarebbe stato un dì glorioso: il penultimo giorno del primo mese dell'anno, destinato ad ospitare un primissimo bilancio del tempo appena sbocciato assieme ai fiori che avevano ripreso a crescere nei campi.

C'era stato un tempo, quando Roma era stata fondata dal suo illustrissimo fondatore, in cui quel mese aveva ospitato grandiosi festeggiamenti dedicati al padre del capostipite di tutti loro: il supremo dio della guerra da cui il mese di Martius traeva il suo nome.

C'era stato un tempo, in buona sostanza, in cui feste ben più importanti avrebbero catturato l'attenzione del popolo e del Senato, permettendogli di vivere in pace quella giornata senza dover fingere per forza di trovarla più speciale di altre.

Ma questa situazione, al tempo in cui lui calcava i suoi passi sul mondo, non esisteva più. Molti anni prima, quando era all'apogeo del suo potere, Giulio Cesare aveva posto fine al vecchio ordinamento romano che esisteva dai tempi di re Romolo e, nella sua smania di riplasmare la morente Repubblica a sua immagine e somiglianza, aveva imposto l'impiego di un nuovo calendario – quello giuliano che loro stessi impiegavano – un calendario che aveva arretrato l'avvento del nuovo anno al mese di Ianuarius, per giunta regalandogli 3 giorni in più rispetto a quei 29 che già possedeva, spedendo giù dal podio Marte e i suoi 31 giorni di gloria.

Certo, questo non aveva alterato lo spirito festivo del mese, del resto chiedere ai romani – plebe o aristocratici che fossero – di rinunciare alla loro storia e al dio di quella guerra che aveva fatto grande il loro retaggio era pura follia, ma aveva anche creato la precondizione necessaria a fare in modo che il giorno della sua nascita potesse essere festeggiato in pompa magna senza offendere alcun dio, cosa di cui suo zio aveva ampiamente approfittato nei suoi 16 anni di vita. Del resto, però, quando lo zio in questione è l'imperatore della capitale del mondo c'è poco che gli puoi dire e contraddirlo non è esattamente la migliore delle idee, specialmente quando sei un ostaggio e la tua sopravvivenza dipende dalla sua benevolenza.

Perché lui, questo lo sapeva benissimo, era un ostaggio.

Certo, magari era un ostaggio che viveva in un mondo di argento e cristallo e cresceva dietro a sbarre dorate e stucchi incantevoli senza patire alcunché nella vita, ma era comunque un ostaggio – il prigioniero di un complicato gioco politico che non aveva risparmiato neppure i legami familiari. Quando sua madre Floriana era morta, infatti, la prima cosa che suo zio aveva fatto era stata inviare suo padre in Oriente, nelle lontane regioni della Siria e della Palestina, affinché si occupasse di salvaguardare il confine orientale dove i parti premevano con costanza mettendo a rischio l'unità dell'impero.
Consapevole, però, del fatto che quelle in cui lo stava inviando erano anche le province più ricche del suo sconfinato dominio, Tito Aurelio Fulvo Bonino Arrio Antonino – noto a tutti col più semplice nome di Antonino Pio – aveva anche preso le sue adeguate precauzioni e così aveva trattenuto presso la corte imperiale i figli del cognato affinché fungessero come assicurazione di fronte ad un probabile colpo di mano, dacché l'Augusto era sì un uomo prudente, ma anche estremamente scaltro e, benché non ritenesse possibile che quel filosofo di suo padre potesse rappresentare una minaccia reale e credibile per la stabilità del suo trono, aveva comunque deciso di andare sul sicuro, arrogando a sé la cura e l'educazione dei nipoti affinché potessero crescere nelle sane tradizioni di Roma come il loro nonno, che lo aveva preceduto sul trono dei Cesari, avrebbe sempre desiderato avvenisse, dando loro un'educazione latina e non greca come, invece, sapeva sarebbe avvenuto se li avesse lasciati partire tutti per l'Oriente lontano con la costante minaccia che soldi e potere potessero generare una condizione pericolosa e fomentato ribellioni, visto che la difesa della frontiera orientale prevedeva un afflusso di uomini e mezzi in quelle regioni con tutto quello che ne poteva conseguire – e troppo fresco era il ricordo di cosa poteva accadere quando a un solo uomo veniva dato troppo potere militare nei delicati equilibri del potere del grande impero romano.
Senza poi protestare granché, suo padre aveva accettato le condizioni imposte, di fatto abbandonandoli alla tenera età di tre anni per vivere la sua vita lontano da loro, facendosi sentire saltuariamente e vedere ancor meno, al punto che Simone ricordava il suo volto solamente perché aveva nella mente che fosse stato lì con loro quattro anni prima.

Usque ad finemDove le storie prendono vita. Scoprilo ora