22. Usque ad Finem

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Gli scantinati del Colosseo erano tetri, bui; erano celle realizzate al solo scopo di fungere da contenitori per gli strumenti da divertimento che vi venivano chiusi dentro, fossero essi parlanti o meno.

Era lì che lo avevano condotto - o gettato sarebbe stato più corretto dire, visto che le guardie pretoriane accorse in tempi brevissimi lo avevano trascinato lì sotto e poi scaraventato di peso nella prima stanza disponibile - e sempre lì lui attendeva, sporco e sanguinante in attesa di sapere cosa ne sarebbe stato di lui dopo ciò che aveva fatto.

Era stata una questione di attimi, non aveva riflettuto un attimo su quello che faceva o su come lo avrebbero potuto interpretare coloro che vi avevano assistito. Aveva semplicemente preso bene la mira e scagliato la sua arma luccicante come fosse uno degli strali di Apollo, non desiderando altro che andasse a segno ed impedisse l'orrore a cui stava assistendo.

A mente fredda - se ne rese conto mentre compiva i 9 passi che gli era concesso fare date le dimensioni ridotte della gabbia - avrebbe dovuto scegliere un altro metodo, optare per una scelta più logica come gridare un segnale d'allarme piuttosto che fermare lui stesso il pericolo con la sua solita mossa avventata, eppure non riusciva a togliersi dalla mente l'idea di aver preso la decisione più corretta, come se privilegiare la rapidità d'intervento alla saggezza e all'autoconservazione fosse per davvero la migliore delle decisioni.

Certo, adesso avrebbe dovuto affrontarne le conseguenze, questo lo sapeva bene e, se non avessero capito le sue ragioni, quelle stesse conseguenze sarebbero state terribili. Il suo cuore, però, era in pace: per la prima volta dopo anni, aveva cessato di inseguire la vita e l'aveva domata, obbligando la sua corsa folle a frenarsi per lui e permettergli di costruire il mondo che voleva, non a vivere quello che qualcuno aveva eretto per lui. Gli dispiaceva solo che ora quella stessa vita lo stava abbandonando, e non solo per il sangue che continuava a sgorgare dalle sue ferite.

Preso com'era dalle sue riflessioni, non si rese conto che la serratura scattava e che la porta si apriva, almeno non fino a quando si trovò di fronte una figura nota che recava con sé una sorta di cassetta dentro alla quale tintinnavano e sciabordavano barattoli e ciotole.

«Tu sei Settimio» gli uscì dalle labbra mentre storceva il naso. «Sei il medico della corte, ti riconosco. Perché sei qui?»

«Mi manda il principe Simone» fu la risposta dell'uomo, pronunciata in tono asciutto, limitato solo a rispondere all'interrogativo e nulla di più, come se non volesse avere niente a che spartire con lui. «È suo desiderio che io curi le tue ferite al meglio delle mie capacità.»

«Simone ti ha mandato a prenderti cura di me?» chiese speranzoso, ché se Simone aveva fatto questo e gli era stato concesso, allora forse le sue ragioni erano state capite.

«Sì» replicò l'uomo, prendendo i ferri del suo mestiere e ordinandogli di sdraiarsi sul tavolaccio di legno della stanza con un eloquente gesto della mano. «Ma è un ordine personale che non è noto all'imperatore o al Cesare e deve rimanere tale. Sbrighiamocela in fretta.»

Obbediente, il reziario fece quanto gli era stato ordinato di fare, sdraiandosi supino sopra a quelle assi sgangherate per dar modo al medico e alle sue mani esperte di compiere la loro magia. Con tocchi rapidi, l'uomo rimosse ogni copertura che avesse indosso, fosse essa di stoffa o di metallo, e svelto prese ad osservarlo nella sua interezza, appuntandosi mentalmente i punti dove sarebbe stato necessario intervenire.

Nel silenzio più totale, indifferente al peso del suo sguardo su di lui, Settimio lavò con l'acqua la polvere e la sabbia dal suo corpo, prendendo poi a concentrarsi sulle ferite aperte coi suoi cataplasmi e i suoi intrugli, passando roba viscida e puzzolente sui tagli così come sui lividi che il suo braccio e il suo addome già incominciavano a mostrare dopo lo scontro con il duro ferro di Carrax. Fu solo quando giunse all'ultima delle ferite significative che si era guadagnato quel giorno che si fermò a fissarlo, tornando a rivolgergli la parola mentre afferrava un ago e lo arroventava sulla fiamma di una candela.

Usque ad finemDove le storie prendono vita. Scoprilo ora