Capitolo 2

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  «Uscire, quanti significati si possono dare a questa parola miei cari studenti, quanti stati d'animo differenti sono compresi in un solo termine che confonde e che cambia a seconda della prospettiva, dell'intenzione, della porta. Se si desidera uscire, se si sente il bisogno di andar fuori spalancando le porte di un infinito che spiazza e che confonde e che distoglie a suo modo l'attenzione dal dolore pur senza guarirlo è necessario che almeno si sappia dove questa uscita si trovi. È dunque essa dentro o fuori? È questo bisogno un'uscita da sé o dal mondo? Io e Maya eravamo in grado di scegliere di volta in volta verso quale porta incamminarci, ma la scelta inevitabilmente, comportava la possibilità, oppure no, di restare insieme. Varcare la soglia del mondo lasciando che gli occhi si perdano nel non-senso, nell'indefinitamente uguale, nell'errore perenne, comporta il soffocamento di una parte di sé, una parte che se pure non può essere rinnegata viene comunque relegata in fondo allo stomaco, proprio nel luogo in cui un tempo si generava il suo irraggiamento. In nome dell'intelletto razionale io rinunciavo al mio istinto vitale, mentre, al contrario, la mia Maya aveva disintegrato il razionale ed era estasiata tra le braccia del dionisiaco. Tra di noi era l'inverno e fuori un'ancor fredda primavera lasciava presagire il peggio: in lei le forze, i desideri, gli istinti vitali erano oramai troppo maturi per attendere sospesi a un gracile ramo di vite; gli acini avevano da tempo raggiunto la più alta concentrazione di zucchero e il tempo per la raccolta era trascorso, allora il grappolo d'uva una volta giovane e acerbo, poi maturo e dolce, rischiava di marcire e di schiantarsi silenziosamente al suolo divorato da insetti che ne avrebbero succhiato via l'ultima goccia di vita. Era giunto il suo momento, il momento del grande salto e lei lo sentiva.

    Ho sempre creduto che il dolore si generi laddove la consapevolezza lascia che si guardi il compromesso negli occhi. Non tutti accettano il compromesso che hanno fatto con la società rinunciando a se stessi, non tutti lo percepiscono, anzi nella maggior parte dei casi si vive ignorandolo o al massimo nella remissiva e superficiale accettazione. Io poi faccio parte di un'altra schiera di esseri umani, quella di chi ha accettato razionalmente il compromesso, ha rinunciato alla parte più ancestrale di sé e ha dato vita al patto sociale consapevolmente. La Verità, una volta che la si guarda dritta negli occhi, non lascia più in pace. Non abbandona più. Soltanto se la confusione è tale da lasciarci storditamente trascinare via da un'onda omogenea che abbraccia, alletta e confonde, allora sì, è possibile rivivere oltre quella porta, dentro il mondo, fuori di noi. Senza esserne consapevoli. Ma lei, la mia Maya, non era confusa, mai. Era ben consapevole del suo percorso e sapeva di dover sfidare tutto e tutti, ma per nulla al mondo avrebbe rinunciato alla verità. Io invece, io... non avevo il suo stesso coraggio di sapere e lasciavo che le convenzioni, la società, l'etica, l'ambizione mi cullassero.

    Quanti dubbi su quale fosse la porta più giusta per la mia Maya! La testa, il cuore, lo stomaco? Tre colonne sulle quali si ergeva possente e fiero il tempio della fuga, il luogo sacro a chi nel mondo non trova che specchi maligni posti ovunque, in circolo, in alto, in basso costringendo a guardare ciò da cui si cerca di fuggire: se stessi. Ma lì, nel petto, nel tempio del silenzio e della solitudine, i tormenti non abbandonano chi li fugge, chi da sempre instilla nelle proprie fondamenta l'essenza di una natura unica, irripetibile e inconciliabile col resto. Una solitudine cercata e fuggita al medesimo tempo. Queste nature si nutrono di momenti raffinati e violenti e passionali e agonizzanti che danno e tolgono la vita, che tendono e ritirano la mano, che amano e che sono indifferenti. Momenti sublimi e travolgenti di vita e di morte, momenti per i quali non c'è vita senza desiderio di morte.  La porta che Maya varcava era uno squarcio nel petto che si richiudeva non appena lei stessa vi era entrata, lasciando fuori tutto. Lasciando fuori il mondo. Lasciando fuori me. Non potevo seguirla, non potevo spingermi fin dove lei riusciva ad arrivare indebolita e violentata, lacerata dall'attesa troppo lunga che aveva dovuto sopportare prima del grande meriggio. La speranza che viaggiava con lei le lasciava intravedere un sorgere nuovo, albe nuove, una rigenerazione profonda che sarebbe però avvenuta soltanto dopo l'ultimo tramonto.
    Quel giorno, uscimmo insieme, non era ancora tempo di rinunciare al mio amore e alle mie promesse, ai progetti che avevo per entrambi e a cui lei non era ancora divenuta sorda. Non era ancora tempo di fughe, Maya era ancora mia e la voce del demone non era altro che un leggero bisbiglio. Il giorno in cui le avrebbe urlato in pieno viso la propria forza, mostrandole terre lontane e meravigliose al cui confronto il nostro mondo non è altro che compassionevole rinuncia, quel giorno Maya non avrebbe avuto più alcun dubbio ne ero consapevole, mi avrebbe abbandonato per sempre, come il vascello che, ansioso di salpare, abbandona al gelo degli abissi l'ancora incastrata tra le scogliere di una terra nemica.  Potevo ancora seguirla, sicuro di volerle restare accanto fino a quando me lo avrebbe permesso, fino al giorno in cui per me non ci sarebbe stato più modo di essere parte di lei, fino a quando le nostre nature avrebbero scavalcato, seppur con affannosi sbalzi, l'incompatibilità che le teneva disgiunte.  Mentre si allontanava le guardavo la schiena ossuta ed elegante muoversi negli abiti come un serpente sensuale che consapevole della propria bellezza e forza si destreggia fiero tra sentieri sconosciuti, la chioma castana sparsa sulle spalle, sorretta da un solo lato con il fermaglio blu donatole dalla madre prima di andar via per sempre, ondeggiava sinuosa e il suo movimento appariva come una danza magica che invita lo straniero a partecipare all'evento, i passi decisi ricordavano la pantera regina solitaria della notte. Tutto lasciava intendere che volesse vagare da sola, in cerca forse, del suo Dioniso, del suo momento, della sua ebbrezza e invece, contrariamente a ciò che mi sarei aspettato da lei, si voltò lasciandomi intravedere il suo profilo e senza guardarmi tese il braccio sinistro all'indietro. Mi cercò con la mano e mi invitò, in questo strano modo, a seguirla. Che cos'altro avrei potuto fare se non accettare e correre verso di lei per stringerle la mano che, ancora tesa, mi afferrò e mi portò via.   

Maya e Apollineo. Storia di un amore tragicoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora