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Avviso ai naviganti: questo capitolo contiene spoiler del film "Full Metal Jacket" di Stanley Kubrick.

«Signorina, ha freddo? Aspetti, le porto una coperta!»

Un uomo sulla quarantina, con pochi capelli che gli erano rimasti in testa e un'aria preoccupata, si era messo a correre verso la sua macchina, intento ad aprire il portabagagli per tirare fuori un piumone vecchio e sporco. Poco dopo, era tornato nel punto in cui aveva visto quella ragazzina debole e infreddolita, poggiandole sulle spalle quella coperta sudicia, ma calda.

«Dovevo buttarlo, ma credo che a te serva di più. Non dovresti dormire in strada a gennaio, tra una settimana verrà a nevicare. Quanti anni hai?», le aveva chiesto lui, ancora sinceramente allarmato per la situazione che si era ritrovato davanti.

«Ne ho 16, sto cercando un lavoro e no, non offro prestazioni sessuali.», aveva accennato lei, avvolgendosi completamente in quel piumone e aprendo la zip della sua tenda, pronta a rientrarci dentro.

«Aspetta, mi hai frainteso. Non voglio niente da te, semplicemente è la prima volta che vedo una ragazza così giovane da sola in mezzo alla strada... sei malata o ferita, per caso? Io sono un medico.»

«Non ho bisogno di nulla, dottore. L'opera buona della giornata l'ha fatta, adesso può pure andar via da Skid Row e tornare nella sua villa.», aveva tagliato corto lei, visibilmente disturbata da quell'uomo così invadente. Non sapeva se fosse lì perché le stava mentendo e voleva approfittarsi di lei, o se fosse uno di quei ricchi magnanimi che vanno a regalare cose ai senzatetto come lei per lavarsi la coscienza. L'unica cosa che le era certa era proprio il fatto di avere ancora la sua dignità e, con o senza una casa, non esisteva per suscitare pena in nessuno. Dopo quella risposta scorbutica, quel signore l'aveva finalmente lasciata in pace e Riley, distrutta dall'ennesima giornata passata al freddo, si era rintanata all'interno della sua tenda, cercando un briciolo di conforto. Erano due mesi, ormai, che si trovava stesa in quella strada, e aveva iniziato ad abituarsi alla puzza di piscio, al rumore degli spari e delle sirene della polizia, alle urla della gente, agli spacciatori, ai molestatori. Quel quartiere, volente o nolente, era diventato casa sua, almeno finché non fosse riuscita a guadagnare a sufficienza da potersi permettere un affitto. La neve, però, rendeva le cose piuttosto complicate e la paura di ammalarsi era sempre dietro l'angolo, anche perché Riley, ovviamente, non possedeva un'assicurazione sanitaria e non poteva di certo farsi curare. A volte, le passavano davanti ragazzi della sua età intenti ad andare al liceo, e una fitta al cuore la trapassava, facendole scendere involontariamente delle lacrime dagli occhi. Perché tutti gli altri avevano potuto continuare a studiare e lei no? Che cosa aveva fatto di male per meritarsi una sfortuna simile? Perché mai nessuno si preoccupava dei ragazzi poveri come lei e, soprattutto, perché le sembrava di essere invisibile agli occhi delle persone? La sua identità di senzatetto l'aveva ormai spogliata e denudata del suo orgoglio, costringendola a sentirsi umiliata e violentata da occhi che la scrutavano e la biasimavano con quell'aria ipocrita e compassionevole. Forse era questa la cosa che odiava di più del vivere in strada, non il freddo, la mancanza di cibi caldi o la doccia, ma quel sudiciume morale che si sentiva cucito addosso da chi stava meglio di lei, da chi poteva permettersi di dire a sé stesso "c'è chi sta peggio", mentre il peggio era lei.

Ogni tanto, persa nell'angoscia, si ritrovava a ripensare al motivo per cui era finita lì, che poi era lo stesso per cui la sua vita era sempre stata un inferno: sua madre. Circa due mesi prima, Riley era stata licenziata perché, stremata dalla stanchezza e dalle responsabilità oberanti che le venivano messe addosso sia a casa che lì, si era addormentata nel magazzino. Tutto quello stress non era adatto alle sue spalle piccole e fragili da sedicenne, ma non aveva avuto scelta, i soldi non le sarebbero piovuti dal cielo. Tuttavia, quell'errore le era costato quei 4 dollari l'ora che riusciva con tanta fatica a racimolare e, purtroppo, non era finita lì. Quella sera, tornata a casa con le mani vuote, non aveva neppure avuto il coraggio di andare in cucina a cenare e aveva cercato di evitare sua madre, ma invano. Non appena aveva raggiunto la porta di camera sua, aveva sentito una voce pronunciare il suo nome, dietro di lei.

Low Man's Lyric // James HetfieldDove le storie prendono vita. Scoprilo ora