Libro IV

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Gli dei intanto sedevano a consiglio in casa di Zeus, in una sala dal pavimento d'oro e in mezzo ad essi Ebe sovrana andava mescendo il nettare. E loro con le auree coppe brindavano gli uni agli altri e tenevano gli occhi sulla città dei Troiani. Ed ecco, il figlio di Crono mirava a stuzzicare Era con parole pungenti. Diceva maliziosamente «Due protettrici ha Menelao fra le dee, e sono Era argiva e Atena Alalcomenia. Ma loro se ne stanno là sedute in disparte, e si contentano di guardare. A quell'altro invece, Afrodite amica del sorriso sempre sta accanto, e allontana da lui le dee funeste della morte. E anche ora lo salvò, quando lui già si credeva di perire. Comunque, non c'è dubbio, la vittoria spetta al valoroso Menelao. Ma noi ora vediamo come andranno qui le cose, se dobbiamo suscitare di nuovo la guerra crudele e la lotta violenta, oppure stabilire un amichevole accordo tra le due parti. Se poi, in certo qual modo, la cosa a tutti quanti non dispiace, può bene, penso, la città del re Priamo continuare a essere abitata, e Menelao dal canto suo menarsi via Elena argiva.» Così parlava e loro si misero a brontolare, Atena ed Era. Sedevano vicine l'una all'altra e meditavano la rovina dei Troiani. Ora Atena stava in silenzio e non disse parola, imbronciata come era con Zeus padre una collera selvaggia via via la prendeva. Era invece non riuscì a trattenere l'indignazione, ma parlava «Un prepotente tu sei, o Cronide! Che razza di discorso qui hai fatto? mai possibile che tu voglia rendere vana e senza frutto la mia fatica, con tutto il sudore che ho versato nel mio affannarmi? Mi si sfiancarono i cavalli, sai, a radunare l'esercito, a danno e rovina di Priamo e dei suoi figli. Tu fa' pure! Ma non tutti certo ti approviamo, noi altri dei.» E a lei rispose fortemente irritato l'adunatore dei nembi, Zeus «Sciagurata, ma in cosa mai Priamo e i figli di Priamo ti fanno tanto del male che tu debba senza posa smaniare così dalla voglia di distruggere la città di Ilio con le sue belle costruzioni? Se tu potessi, credo, entrare da una porta delle alte mura e divorarti vivi Priamo e i figlioli di Priamo e anche tutti gli altri Troiani, allora forse placheresti la tua rabbia. Su, fa' come vuoi! Non deve la questione qui diventare in avvenire, per noi due, un grave motivo di discordia. Ma un'altra cosa intendo dirti, e tu mettitela bene in mente quando anch'io avrò voglia di devastare una città, e proprio quella dove abitano uomini a te cari, non voler intralciare il mio sdegno, ma lasciami stare! Anch'io, sappi, ti ho fatto una concessione di mia volontà, se pure a malincuore. Ci sono, è vero, sotto il sole e il cielo stellato tante città di uomini che vivono sulla terra ma più di ogni altra mi era cara la sacra Ilio, e così Priamo e il popolo di Priamo dalla forte lancia. Mai una volta, confesso, l'altare mi mancò della parte giusta del sacrificio, della libagione e del fumo di carne arrostita è questo, lo sapete, l'onore che noi avemmo in sorte.» E a lui rispondeva allora l'augusta Era dai grandi occhi bovini; «Sì, te lo dico, tre sono le città che mi sono senz'altro le più care Argo, Sparta e Micene dalle larghe strade. Queste tu distruggile, quando ti diventano proprio cordialmente odiose! Davanti ad esse io non mi pianto a difesa e non mi oppongo. D'altronde se anche cerco di impedirtelo e non te le lascio rovinare, non riesco a nulla con i miei intralci, poiché veramente tu sei molto più forte. Ma bisogna pure che la mia fatica non rimanga così senza effetto! Anch'io, sai bene, sono una divinità, ho la stessa origine tua. E augusta e degna di onore mi fece Crono dai tortuosi pensieri per due ragioni prima per la nascita e poi perché mi chiamo tua sposa e tu regni fra tutti gli immortali. Ma sì, facciamoci queste concessioni a vicenda, io a te e tu a me dietro poi ci verranno tutti gli altri dei. E ora, su, presto, tu ordina ad Atena di recarsi sul luogo dell'aspra lotta tra Troiani e Achei! E lei cerchi che i Troiani violando i patti giurati siano i primi a offendere gli Achei baldanzosi.» Così parlava e acconsentì il padre degli uomini e degli dei. Subito ad Atena rivolgeva parole «Presto, su, vai al campo in mezzo ai Troiani e agli Achei, e cerca che i Troiani violino i patti giurati e siano i primi a offendere gli Achei baldanzosi!» Così parlava e sollecitò Atena che già era ansiosa di partire. Ella venne giù dalle vette dell'Olimpo in un volo. Quale è la stella che il figlio di Crono invia o ai naviganti o a un vasto esercito di combattenti come segno di augurio - luminosa splende essa e molte scintille se ne staccano simile così volò sulla terra Pallade Atena e balzò giù, là in mezzo. A mirarla, li invase tutti lo stupore - i Troiani domatori di cavalli e gli Achei dai buoni schinieri. E qualcuno diceva volgendo lo sguardo al vicino «Forse ci sarà di nuovo la guerra funesta e la lotta violenta, o forse Zeus stabilisce un amichevole accordo tra le due parti. È lui l'arbitro, tra gli uomini, delle ostilità.» Così diceva qualcuno degli Achei e dei Troiani. Lei intanto, nell'aspetto di un uomo, penetrò fra la turba dei Troiani somigliava a Laodoco figlio di Antenore, forte guerriero. Si moveva in cerca di Pandaro pari a un dio, se mai lo trovava da qualche parte. Lo trovò, il figlio di Licaone, irreprensibile e gagliardo, là ritto in piedi intorno a lui stavano le vigorose schiere dei combattenti armati di scudo, che erano venuti al suo seguito fin dalle correnti dell'Esepo. Gli si fermava vicino e gli rivolgeva parole «Vuoi ora darmi retta, o valoroso figlio di Licaone? Dovresti aver il coraggio di scagliare una freccia contro Menelao. Ti procurerai così favore e gloria presso tutti i Troiani, e in particolare agli occhi del principe Alessandro. Da lui specialmente, sono certo, puoi portarti via splendidi doni, se vedrà Menelao, il bellicoso figlio di Atreo, ucciso dal tuo dardo e collocato in cima alla triste pira. Su, tira una freccia a Menelao e fa' voto ad Apollo licio, arciere famoso, di compiere in suo onore un magnifico sacrificio di agnelli primogeniti, al tuo ritorno in patria, nella città sacra di Zelea! Così parlava Atena e lo convinceva, quello stolto. Subito traeva fuori il liscio arco di corno. Gli veniva da un agile capro selvatico, che lui un giorno raggiungeva sotto lo sterno mentre balzava giù da una rupe l'aspettava alla posta. E lo colpiva pronto al petto l'animale cadeva riverso sulla roccia. In testa gli spuntavano corna lunghe sedici palmi. E un artigiano tornitore le aveva riunite saldamente insieme, alla base, con molto lavoro, lisciava bene tutto e vi metteva poi ad una estremità un anello d'oro. E Pandaro appoggiò la punta dell'arco al suolo e lo piegava alla perfezione dall'altro capo verso terra, tirando in su la corda per agganciarlo. Davanti gli tenevano gli scudi i valorosi compagni non volevano che saltassero su i battaglieri figli degli Achei, prima che fosse colpito Menelao. Poi egli toglieva il coperchio della faretra, e ne prese fuori una freccia era nuova ancora, alata, doveva portare neri dolori. Svelto adattava alla corda l'acuto dardo e faceva voto ad Apollo licio, l'Arciere glorioso, di compiere in suo onore un magnifico sacrificio di agnelli primogeniti, al suo ritorno in patria, nella città sacra di Zelea. Tirava con la mano, stringendole insieme, la cocca della freccia e la corda di pelle bovina avvicinò così il nervo alla mammella, la punta di ferro al corno ricurvo. E dopo che ebbe teso in tondo il grande arco, sibilò l'arma, la corda vibrò forte e balzò via la freccia acuminata, impaziente di volare tra la turba degli Achei. Ma non si scordarono di te, o Menelao, gli dei beati immortali, e prima fra tutti la figlia di Zeus, Atena predatrice ti si metteva davanti e deviò il dardo aguzzo. Lei glielo allontanava sì dal corpo - come quando una madre manda via una mosca dal suo bambino, mentre giace in un dolce sonno - ma lo diresse dove si univano le fibbie d'oro del cinturone, e doppia si stendeva la corazza. Gli giunse così di punta alla cintura ben serrata intorno alla vita, di fine lavorazione, e la traversò e andava a piantarsi nella corazza adorna di molti fregi e nella panciera che il guerriero portava a difesa del corpo e a riparo contro i dardi, e che lo proteggeva tanto. Anche attraverso questa passò. La freccia scalfì l'eroe, e subito sgorgava dalla ferita il sangue nero di grumi. Come quando una donna della Meonia o della Caria tinge con porpora l'avorio, per fregiare di borchie un portamorso da cavallo sta esso nella stanza del tesoro e molti cavalieri sognano di portarselo via, ma è riservato al re quale oggetto prezioso, per ornamento del destriero e l'orgoglio di chi lo guida così, o Menelao, ti si macchiarono di sangue le cosce e i polpacci robusti e le belle caviglie giù in basso. Ebbe un brivido allora Agamennone signore di guerrieri, quando vide il nero sangue sgorgar dalla ferita. E rabbrividì anche lui, Menelao caro ad Ares ma nello scorgere gli uncini della freccia, e il tendine che ne legava la punta all'asticciola, star fuori dalla carne, riprese a respirare rassicurato. E tra loro si lamentava forte il sovrano Agamennone e diceva tenendo per mano Menelao - e con lui sospiravano e gemevano i compagni d'armi «Fratello caro, la morte dunque erano per te i patti che io stringevo! Ti ho esposto a combattere da solo per gli Achei contro i Troiani, e così loro ti hanno colpito e si sono messi sotto i piedi gli impegni solenni e sacri. Ma no, non può essere vano il giuramento e il sangue degli agnelli, non possono ridursi a un bel niente le libagioni di vino puro e le strette di mano a cui prestavamo fede! E se anche Zeus Olimpio non compie immediatamente la sua vendetta, alla fine la compirà e allora i colpevoli la pagano cara, con la propria vita e con quella delle mogli e dei figli. Una cosa, credi, io so di certo verrà giorno che la sacra Ilio cadrà, e così Priamo e il popolo di Priamo dalla forte lancia. E Zeus Cronide che siede in alto e abita nel puro sereno del cielo, scuoterà di sua mano la tenebrosa egida contro loro tutti, in collera per tale atto sleale. Questo si avvererà, ne sono sicuro. Ma io avrò da te, o Menelao, un grande dolore, se tu muori e finisci così la tua parte di vita. Dovrò far ritorno con mia vergogna ad Argo assetata. Sì, subito, già lo sento, gli Achei penseranno alla terra dei loro padri. E ci toccherà lasciare giù a Priamo e ai Troiani, per loro vanto, Elena argiva e le tue ossa le farà imputridire il terreno, a giacer qui nella pianura di Troia dopo il fallimento dell'impresa. E forse qualcuno dirà, tra i Troiani insolenti, nel saltar sopra il tumulo del glorioso Menelao "Possa riuscire sempre così, in ogni spedizione, a sfogare, Agamennone, la sua collera come ora! Per niente ha condotto qua l'esercito degli Achei, ed ecco, vedete, se n'è andato a casa, nella sua patria, con le navi vuote, e dietro si è lasciato il prode Menelao". Così un giorno dirà qualcuno e allora vorrei mi si spalancasse la terra sotto i piedi!» Ma lo rassicurava il biondo Menelao e diceva «Sta' di buon animo, e non allarmare più l'esercito degli Achei! Non in un punto vitale mi s'è piantata la freccia, ma mi salvò la cintura e, sotto la corazza, il guarnello di cuoio e la fascia. Me l'han lavorata bene gli artigiani del bronzo.» E a lui rispondeva il sovrano Agamennone «Magari fosse davvero così, caro Menelao! La ferita ora te la tasterà il guaritore, e ci metterà sopra dei medicamenti che ti facciano passare le fitte.» Disse e si rivolgeva a Taltibio, l'araldo divino «Taltibio, chiamami qui al più presto Macaone, il figlio, sì, di Asclepio l'irreprensibile guaritore. Voglio che veda Menelao bellicoso, capo degli Achei. L'ha ferito uno con la freccia, bravo a tirar d'arco uno dei Troiani o dei Lici. Ed è gloria per lui, ma per noi un gran dolore.» Così diceva e l'araldo ascoltava e ubbidì prontamente. E si mosse per andare fra l'esercito degli Achei vestiti di bronzo cercava con gli occhi l'eroe Macaone. Lo scorse là ritto in piedi intorno a lui stavano le gagliarde schiere dei combattenti armati di scudo, che erano venuti al suo seguito da Tricca nutrice di cavalli. Gli si fermava vicino e gli rivolgeva parole «Su, figlio di Asclepio, ti chiama il re Agamennone vuole che veda il prode Menelao, capo degli Achei. L'ha ferito uno con la freccia, bravo a tirar d'arco uno dei Troiani o dei Lici. Ed è una gloria per lui, ma per noi un gran dolore.» Così parlava e a lui mise il cuore in agitazione. Si avviarono tra la turba per il vasto campo degli Achei e giungevano sul posto, dove si trovava ferito il biondo Menelao e intorno a lui erano riuniti tutti i capi in cerchio. Si cacciava in mezzo a loro, l'eroe pari a un dio, e in fretta prendeva ad estrargli la freccia dal cinturone ben serrato intorno alla vita e nel tirargliela fuori, all'indietro, si ruppero gli uncini appuntiti. Gli slegò poi la cintura tutta smagliante e, sotto la corazza, il guarnello di cuoio e la panciera, che gli avevano lavorato bene gli artigiani del bronzo. E dopo che ebbe visto la ferita, dove s'era conficcato l'aguzzo dardo, gli succhiava il sangue e sopra gli spargeva, da intenditore, medicamenti calmanti glieli aveva dati Chirone, voleva bene a suo padre. Mentre essi si affaccendavano intorno a Menelao, le schiere dei Troiani cominciarono a venire avanti con gli scudi e loro, gli Achei, indossarono di nuovo l'armatura e pensarono alla lotta. Allora non avresti visto il divino Agamennone sonnecchiare o nascondersi dalla paura o esitare a combattere, ma si affrettava deciso alla battaglia che dà gloria agli eroi. Lasciò lì i cavalli e il carro adorno di fregi in bronzo. E i cavalli sbuffanti li tratteneva in disparte lo scudiero Eurimedonte, figlio di Tolemeo il Pireide a lui Agamennone raccomandava vivamente di tenerli pronti, per quando la stanchezza l'avesse afferrato alle gambe, a correre di qua e di là nel dar ordini a tanti guerrieri. Lui a piedi passava in rassegna le schiere dei combattenti e quelli che vedeva, tra i Danai, pieni di ardore, li confortava da vicino con le sue parole «Argivi, non desistete mai dall'aspra lotta! Non sarà, ve l'assicuro, Zeus padre il protettore di spergiuri. Son stati loro là i primi a violare i patti e così gli avvoltoi gli mangeranno la tenera carne, e noi ci porteremo via sulle navi le loro spose e i figli ancora bambini, quando prendiamo la città.» Ma se scorgeva alcuni svogliati nella odiosa guerra, li rimbrottava aspramente con parole di collera «Argivi, buoni solo a gridare, vigliacchi, non avete dunque vergogna? Cosa state qua fermi così, imbambolati come cerbiatte? Le avete viste anche voi quando si sono stancate di correre a lungo per la pianura, restano là senza più forza e coraggio. Così siete voi ve ne state qui imbambolati e non combattete. Aspettate forse che i Troiani arrivino fin laggiù, dove le navi stanno tirate in secco con le poppe sulla riva del mare? Vedrete allora se il Cronide vi difende e vi tiene sopra le mani!» Così lui passava in rivista da sovrano i reparti dei combattenti. E giunse dai Cretesi - nel suo giro tra il folto dei guerrieri. Là i soldati del valoroso Idomeneo si disponevano alla battaglia. E Idomeneo stava nelle prime file, pareva un cinghiale per vigore e coraggio Merione gli incitava le ultime schiere. A vederli, fu tutto contento Agamennone signore di uomini, e subito si rivolgeva a Idomeneo con parole cordiali «Idomeneo, più di ogni altro ti tengo in considerazione tra i Danai, sia in guerra, sia in imprese di natura diversa e anche a banchetto, quando i capi degli Argivi mescolano con acqua nei crateri il rosso vino riservato agli Anziani. E allora, lo sai, se gli altri Achei bevono la loro razione, a te la coppa sta sempre davanti ben colma, proprio come a me, e bevi quando ne hai voglia. Su, va' in battaglia ora, da prode come sempre!» E a lui rispondeva Idomeneo condottiero dei Cretesi «Atride, ti sarò, non dubitare, leale compagno d'armi, come m'impegnai da principio e ti promisi. Ma tu incita gli altri Achei! Così combatteremo al più presto. Vedi, i Troiani hanno rotto i patti. Avranno morte e lutti in avvenire, perché violarono per primi i giuramenti.» Così diceva e l'Atride passava oltre, tutto lieto. E arrivò dagli Aiaci - nel suo giro tra la folla dei guerrieri. Loro due erano pronti per il combattimento li seguiva un nuvolo di fanti. Come quando da un'altura vede, il capraio, una nube venir avanti sulla distesa delle acque al fischiare di Zefiro da lontano gli appare più nera della pece nel suo cammino sopra il mare, e porta una violenta tempesta rabbrividisce a guardarla e subito caccia le sue bestie dentro un antro così insieme agli Aiaci si movevano alla guerra e alle stragi le folte schiere dei giovani nutriti da Zeus. Scure erano, tutte irte di scudi e di lance. A vederli, si rallegrò il re Agamennone e rivolgeva loro queste parole «Aiaci, condottieri degli Argivi vestiti di bronzo, a voi due non do ordini è fuor di luogo, penso, incitarvi. Da soli, vedo, sapete spronare i vostri a battersi da forti. Oh, Zeus padre, Atena e Apollo, se avessero tutti un tale coraggio! Allora crollerebbe in un momento la città di Priamo sovrano, presa e saccheggiata per mano nostra.» Così diceva e li lasciò là passava da altri. Incontrò allora Nestore, il parlatore dei Pili dalla voce armoniosa era intento a schierare i suoi e a incitarli alla lotta - agli ordini del robusto Pelagonte, di Alastore e di Cromio, e ancora del principe Emone e di Biante pastore di popoli. In testa aveva disposto i guerrieri con i cavalli e i carri in coda i fanti, in gran numero e tutti valorosi, a formar un baluardo in campo. I vili invece li aveva messi al centro così uno anche senza volere doveva battersi per forza. Agli uomini sui carri dava prima i suoi ordini gli imponeva di trattenere i loro cavalli e di non cacciarsi nella calca. Diceva «Nessuno conti sulla propria bravura di auriga e sul proprio coraggio, per lanciarsi da solo davanti agli altri a battagliare coi Troiani, e neanche batta in ritirata. Sareste allora, vi avverto, meno forti. Ma se uno, dal suo carro, raggiunge il carro dell'avversario, si protenda tutto con la lancia. È molto meglio, ve l'assicuro, fare così. Anche i nostri padri distruggevano in questo modo città e mura, con la prudenza e il coraggio che vi consiglio.» Così il vecchio li animava, esperto com'era di guerre d'altri tempi. E a vederlo, esultava di gioia il re Agamennone e gli rivolgeva parole «Vecchio, oh se ti ubbidissero docili le ginocchia come hai spirito e vitalità, e le tue forze fossero ben salde! Ma ti pesa ora la vecchiaia inesorabile. Ah, magari l'avesse qualcun altro la tua età e tu invece fossi tra i giovani!» E a lui rispondeva allora Nestore il Gerenio, guidatore di carri «Atride, vorrei anch'io davvero, te lo confesso, essere come ai giorni che ammazzai il grande Ereutalione. Ma gli dei non amano dare agli uomini ogni cosa insieme se allora io ero giovane, ora invece mi è compagna la vecchiaia. Ma anche così starò in mezzo ai guerrieri sui carri e li guiderò con il mio consiglio e le mie parole è questa la prerogativa, sai, degli anziani. I colpi di lancia li vibreranno i giovani, che sono più vigorosi di me e sicuri della loro forza.» Così diceva e l'Atride passava altre, tutto contento. Trovò Menesteo sferzatore di cavalli, figlio di Peteo, ritto là in piedi intorno erano gli Ateniesi, valenti nel levare l'urlo di battaglia. E vicino stava l'accorto Odisseo i reparti dei Cefalleni non facili a crollare eran lì accanto, fermi. Non avevano ancora sentito, quelle truppe, il grido di guerra da poco si movevano, andandosi incontro, le schiere dei Troiani domatori di cavalli e degli Achei. E loro stavano là in attesa che qualche altra colonna si slanciasse all'assalto dei Troiani e desse inizio alla lotta. Al vederli così, prese a sgridarli Agamennone signore di guerrieri, e indirizzava loro tali parole «O figlio del re Peteo discendente di Zeus, e tu, maestro di malizia e d'inganni che pensi solo al tuo interesse, perché nicchiate qui in disparte ed aspettate gli altri? Quando voi due dovreste essere là in prima fila a piedi saldi, e gettarvi nell'accesa battaglia! Siete sempre i primi però ad aver notizia di un mio banchetto, ogni volta che noi Achei prepariamo un pranzo per gli Anziani. E allora vi piace mangiare carni arrostite e bere coppe di vino dolce come il miele, fin che n'avete voglia. E ora invece vedreste volentieri anche dieci colonne di Achei combattere davanti a voi con le spietate armi di bronzo.» Lo guardava torvo il saggio Odisseo e disse «Atride, quale parola ti sei lasciata scappare di bocca? Come puoi dire che siamo fiacchi in campo quando ingaggiamo, noi Achei, lotta violenta coi Troiani? Lo vedrai, se hai voglia e se questo t'interessa, il padre di Telemaco in prima fila azzuffarsi coi campioni dei Troiani domatori di cavalli! Ma tu parli qui a vanvera.» Si metteva a sorridere Agamennone sovrano. E rispose, a vederlo in collera, ritirando le sue parole «Figlio di Laerte, discendente di Zeus, Odisseo versatile e scaltro, non ti voglio più rimproverare fuori di luogo e non ti do ordini. So bene che nutri .nei miei riguardi sentimenti benevoli tu la pensi come me. Ma via, c'intenderemo più tardi, se una qualche parola non buona è stata detta ora. E gli dei le disperdano tutte al vento!» Così parlava e li lasciò là andava da altri guerrieri. Trovò il figlio di Tideo, il magnanimo Diomede, in piedi là sul suo solido carro coi cavalli davanti e accanto gli stava Stenelo, il figlio di Capaneo. Anche lui sgridò duramente il re Agamennone a vederlo fermo, e gli rivolgeva parole «Ahimè, figlio del battagliero Tideo domatore di cavalli, perché sei tutto trepidante di paura? cosa stai qua a misurare con gli occhi gli spazi vuoti tra i reparti? Non amava Tideo, te lo ricordo, lasciarsi atterrire così, ma battagliava coi nemici un buon tratto innanzi ai suoi compagni, come dicevano quelli che lo videro in guerra. Io, lo sai, non mi ci son trovato insieme, né l'ho veduto ma contano che fosse molto superiore a tutti gli altri. Per dirne una, entrò un giorno a Micene non da nemico, ma quale ospite, insieme a Polinice pari a un dio andava raccogliendo uomini. Volevano essi, allora, fare una spedizione contro le forti mura di Tebe, e pregavano con calore che gli si dessero dei prodi alleati. Loro, i Micenei, erano disposti a fornirglieli e acconsentivano all'invito ma li distolse Zeus facendo comparire segni sfavorevoli, non approvava. Orbene, quelli si mettevano in marcia e già erano avanti nel cammino quando giunsero all'Asopo folto di giunchi, tra un letto di erbe qui gli Achei mandarono una volta ancora come messaggero Tideo. E lui andava e trovò una moltitudine di Tebani a banchetto in casa del gagliardo Eteocle. E là non tremava Tideo, benché fosse straniero e si trovasse da solo in mezzo a tanti Cadmei. Anzi li sfidava a lottare in varie gare, e li vinceva con facilità uno dopo l'altro tale protettrice era Atena per lui! Ma loro montarono su tutte le furie, i Cadmei sferzatori di cavalli, e così al suo ritorno andarono ad appostargli, in un'imboscata, una compatta schiera di cinquanta giovani. Due erano i capi, Meone l'Emonide simile agli dei immortali, e il figlio di Autofono, Polifonte intrepido in battaglia. Tideo gli diede una morte indegna. Tutti li ammazzò, uno solo lo spediva a casa. E fu Meone che lasciò andare, ubbidendo a prodigi divini. Ecco chi era Tideo etolo! Ma ebbe un figlio qui che è da meno di lui in battaglia e più valente in assemblea.» Così diceva a lui nulla rispose il forte Diomede. Si vergognava del rimprovero dell'augusto sovrano. Gli rispondeva il figlio del famoso Capaneo «Atride, non contare fandonie, lo sai bene anche tu! Noi siamo -ed è il nostro vanto - molto più valorosi dei nostri padri. Siamo stati noi ad espugnare Tebe dalle sette porte, menando là un esercito ben piccolo sotto le mura fortificate credevamo nei prodigi degli dei e nell'aiuto di Zeus. Ma quelli perirono per le loro colpe e follie. E allora, scusa, non mettere i nostri padri alla pari di noi!» Ma a lui, guardandolo torvo, rispose il gagliardo Diomede «Amico, zitto tu e sta' al tuo posto! Ubbidisci alla mia parola. Non posso, vedi, prendermela con Agamennone è pastore di popoli e va spronando alla battaglia gli Achei. A lui qui, sappilo, andrà la gloria, se gli Achei fanno strage dei Troiani e prendono la sacra Ilio e a lui anche toccherà un grande dolore, nel caso di una disfatta. Via, pensiamo pure noi due all'aspra lotta!» Disse, e saltò giù dal carro a terra in anni. Risonava terribilmente il bronzo sul petto del sovrano, a quel balzo uno anche ardito l'avrebbe preso la paura alle gambe. Come quando su una costiera risuonante l'onda del mare viene avanti - prima l'una e poi l'altra - sotto l'incalzar violento di Zefiro da principio va gonfiandosi al largo e poi via via si rompe a terra strepitando forte, e intorno agli scogli raddrizza a forma di volta la cresta e diffonde in sprazzi la schiuma così allora, in successione, si movevano le schiere dei Danai senza posa verso la battaglia. Ognuno dei condottieri dava ordini ai suoi uomini procedevano zitte le truppe, nessuno avrebbe detto che un esercito tanto numeroso avanzasse trattenendo la voce, in silenzio, nel rispetto dei capi. All'ingiro, a tutti luccicavano le armature ricche di fregi ed essi, vestiti così, marciavano in file serrate. I Troiani invece erano come le pecore di un signore dai molti possedimenti, che se ne stanno là nel cortile in gran numero a lasciarsi mungere il bianco latte, e belano ininterrottamente a udire la voce degli agnelli così il grido di guerra dei Troiani si levava per l'ampio esercito. Ché non tutti avevano lo stesso accento né una sola parlata, ma c'era una grande confusione di lingue erano guerrieri chiamati da varie parti. Gli uni, i Troiani, li aveva fatti levare il dio Ares gli altri, gli Achei, Atena dagli occhi lucenti. E c'era Deimos e Fobos, c'era Eris smaniosa senza fine, sorella e compagna di Ares sterminatore d'eroi. Piccola lei si leva da principio, ma poi via via viene poggiando il capo al cielo e cammina sopra la terra. E anche allora gettò in mezzo ad essi la zuffa implacabile, andando tra quella moltitudine ed accrescendo così il pianto degli uomini. E come giunsero con la loro marcia in un unico luogo fronte a fronte, subito si scontrarono con gli scudi di cuoio e con le lance in un impeto di furore - quei guerrieri dalla corazza di bronzo. E gli scudi ombelicati cozzarono l'un contro l'altro un enorme frastuono era nell'aria. E allora insieme si levavano urli di lamento e grida di trionfo tra i combattenti c'era chi uccideva e chi veniva ucciso, scorreva di sangue la terra. E come quando due fiumi torrentizi scendono giù dalle montagne, e al confluir delle valli riuniscono l'acqua violenta delle grandi sorgenti dentro un precipizio profondo ne ode di lontano il fracasso il pastore sui monti così al mescolarsi degli eserciti era il clamore della lotta. Per primo Antiloco abbatté un guerriero troiano, un valoroso tra i campioni davanti alle file, Echepolo figlio di Talisio. Per primo lo colpì al cimiero dell'elmo dalla folta criniera di cavallo, e gli piantò la lancia in fronte. Trapassava l'osso, fin dentro, la punta di bronzo. E il buio della morte l'avvolse agli occhi. Stramazzò a terra come torre che crolla, nella selvaggia mischia. Il caduto là lo ghermì per i piedi Elefenore sovrano, figlio di Calcodonte, condottiero dei coraggiosi Abanti. Lo trascinava via fuori dai tiri, impaziente com'era di spogliarlo al più presto delle armi ma il suo tentativo durò poco. Lo scorgeva, il magnanimo Agenore, tirare il cadavere nel curvarsi gli era rimasto scoperto dalla parte dello scudo, a sinistra, il fianco, e qui lo ferì con la lancia dalla punta di bronzo e gli sciolse le membra. Così la vita l'abbandonò e su di lui si accese furiosa la lotta dei Troiani e degli Achei. Si lanciavano essi come lupi, gli uni addosso agli altri e ogni uomo atterrava il suo uomo. Allora Aiace Telamonio colpì il figlio di Antemione, Simoesio - un giovinetto fiorente. Un giorno la madre venendo giù dall'Ida l'aveva dato alla luce lungo le rive del Simoenta era andato dietro ai suoi genitori a guardar le greggi. Per questo lo chiamavano Simoesio. Ma lui non poté ricompensare i suoi per le cure ricevute nell'infanzia di breve durata era la sua vita, abbattuto come fu dalla lancia del valoroso Aiace. Veniva avanti agli altri in prima fila. E l'eroe acheo lo colpì al petto, vicino alla mammella destra da parte a parte attraverso la spalla andò la lancia di bronzo. Cadde a terra, Simoesio, nella polvere. Era come il pioppo che è cresciuto in un prato umido di un esteso acquitrino - liscio di tronco, ma con i rami in cima rigogliosi. E un costruttore di carri con il lucido ferro lo taglia, con l'idea di curvarlo e farne un cerchio di ruota per un cocchio bellissimo ed esso giace là a seccare lungo le rive del fiume. Così era l'Antemide Simoesio, ammazzato da Aiace discendente di Zeus. Ma contro Aiace tirava l'acuta lancia attraverso la calca Antifo, figliolo di Priamo, dalla corazza smagliante. Fallì il colpo e invece feriva un valente compagno di Odisseo, Leuco, all'inguine, mentre trascinava il cadavere di Simoesio dalla sua parte. Cadde così Leuco su di lui, e il morto gli sfuggì di mano. Si adirò fieramente Odisseo a vederlo ucciso e avanzava tra le prime file, armato di bronzo scintillante. Andava a piantarsi là vicino a lui e scagliò dopo un'occhiata in giro la lancia lucente. Si ritrassero indietro i Troiani al tiro dell'eroe. Lui non scagliò l'arma a vuoto, ma raggiunse Democoonte, figlio bastardo di Priamo, che era venuto in suo soccorso da Abido lasciando là le veloci cavalle. A una tempia con la lancia lo colpì Odisseo, in collera per la morte del compagno la punta di bronzo passò attraverso l'altra tempia, e il buio l'avvolse agli occhi. Crollava a terra con grande strepito, risonarono le armi su di lui. Si ritrassero indietro i combattenti della prima fila, e con loro lo splendido Ettore. Gli Argivi allora levarono un alto grido e tiravano i cadaveri dalla loro parte poi si spinsero innanzi d'un balzo all'attacco. S'indignò Apollo guardando in giù da Pergamo e incitava i Troiani con un urlo «Avanti, o Troiani domatori di cavalli! Non ritiratevi dalla lotta dinanzi agli Argivi. Non sono fatti, loro, di pietra o di ferro, da resistere ai colpi di bronzo e ai tagli. E poi non c'è più a combattere Achille, il figlio di Tetide dalle belle chiome, ma se ne resta tra le navi a covare collera e cruccio.» Così parlava dalla città il tremendo dio. Ma gli Achei prese a spronarli la figlia di Zeus, la Tritogenia gloriosa, andando tra quella moltitudine di guerrieri dove li vedeva cedere. E allora il figlio di Amarinceo, Diore, lo prese nel suo laccio destino di morte. Alla gamba destra fu percosso da un macigno tutto a punte, vicino alla caviglia e a colpirlo era il condottiero dei Traci, Piroo figlio di Imbrasio, venuto da Eno. Tutt'e due i tendini e le ossa gli sfracellò la pietra smisurata e lui, Diore, cadde giù riverso nella polvere tendendo le braccia ai suoi compagni, e già spirava. L'altro, Piroo, dopo quel primo colpo gli corse sopra, e lo feriva con la lancia all'ombelico fuori si rovesciarono a terra tutte le budella, il buio l'avvolse agli occhi. Ma in quel balzo in avanti raggiungeva Piroo con l'asta Toante etolo, proprio al petto al di sopra della mammella e si conficcò il bronzo dentro il polmone. E gli fu sopra Toante strappò via dal petto la sua forte lancia, estrasse dal fodero la spada aguzza, lo colpì in pieno alla pancia e gli tolse la vita. Ma non lo spogliò dell'armatura gli si misero dattorno i suoi compagni d'armi, i Traci dai capelli raccolti a ciuffo in cima alla testa, con le lunghe aste puntate. E lo respinsero via, Toante, se pur era grande di corporatura, gagliardo e fiero dovette ritirarsi per forza. Così quei due rimasero distesi nella polvere, vicini l'uno all'altro - Piroo condottiero dei Traci, e Diore capo degli Epei vestiti di bronzo. E intorno a loro si massacravano tanti altri. Allora non poteva aver più nulla da ridire, sulla lotta, chi fosse capitato là e avesse girato per il campo, senza venir raggiunto o ferito da punte di bronzo doveva certo guidarlo per mano Pallade Atena e tenerlo al riparo dalla furia dei tiri. Tanti erano i Troiani e gli Achei, in quella giornata, che restavano distesi bocconi nella polvere gli uni accanto agli altri! 

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