Libro XXIV

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L'assembramento si sciolse si disperdevano i combattenti avviandosi, a gruppi, alle celeri navi. Poi pensavano alla cena e a godersi il dolce sonno. Intanto Achille non faceva che piangere a ricordar il caro compagno, e non lo prendeva il sonno che pure tutto doma, ma si rivoltava di qua e di là. Rimpiangeva, di Patroclo, la forza virile e la gagliarda energia e quante imprese aveva affrontato con lui, e quanti dolori aveva patito, passando attraverso battaglie di uomini e traversie di mare! A tali ricordi si scioglieva in lacrime a lungo ed ora si metteva a giacere sul fianco, ora invece supino ed ora bocconi. Alla fine balzava in piedi, e si aggirava, fuor di sé, sulla spiaggia del mare. Mai gli sfuggiva l'apparizione dell'aurora sulla distesa delle acque e sui lidi ma subito aggiogava i veloci cavalli al carro, vi legava dietro, alla cassa, il corpo di Ettore, e lo veniva trascinando intorno al tumulo del figlio di Menezio tre volte. Poi tornava ancora a riposarsi nella baracca, lasciando là il cadavere nella polvere, disteso, a faccia in giù. Ma Apollo gli teneva lontano ogni bruttura, per pietà dell'eroe pur nella morte e lo copriva tutto con la sua egida d'oro, non voleva che Achille lo scorticasse a trascinarlo. Così lui là oltraggiava il divino Ettore, nella sua furia e gli dei beati stavano a guardare, e ne avevano compassione. E andavano incitando l'Argicida dal vigile sguardo a rapire la salma. Piaceva allora l'idea agli altri tutti non ad Era però, né a Posidone, e neanche alla vergine dagli occhi lucenti. Essi persistevano, come prima, nel loro odio contro la sacra Ilio, e contro Priamo e il suo popolo, per via dell'accecamento di Alessandro. Aveva, questi, offeso le dee, il giorno che si erano recate alla sua stalla, e lui lodava quella che gli procurò la tormentosa lussuria. Ma quando finalmente arrivò l'aurora del dodicesimo giorno, ecco che Febo Apollo parlava tra gli immortali «Crudeli siete, voi dei, perfidi! Non vi bruciava, Ettore, una volta, cosce di buoi e di pecore senza difetti? Ed ora che lui è morto, non vi siete dati la briga di salvarlo per la sua sposa - che se lo guardi e per la madre e suo figlio, e per il padre Priamo e il popolo tutto. Così loro là potrebbero bruciarlo immediatamente sulla pira, e rendergli gli onori funebri. Voi invece, ecco, preferite tenere per quel funesto Achille che non ha più la testa a posto né cuore, ma è selvaggio e feroce come un leone. Sì, sembra il leone che ubbidisce solo alla forza bruta e al suo istinto temerario, e assalta le greggi degli uomini per procurarsi il pasto. Proprio così è Achille ha smarrito ogni senso di pietà e non ha più ritegno. Certo, può capitare che uno perda una persona molto cara un fratello, ad esempio, o anche un figlio. Eppure, vedete, quando ha ben pianto e sospirato, si mette il cuore in pace. Le dee del destino hanno dato, lo sapete, agli uomini, un animo capace di sopportare la sventura. Ma lui qui, dopo che ha tolto la vita, al divino Ettore, lo lega di continuo al cocchio, e lo va trascinando intorno al sepolcro del suo compagno. E questo non gli reca né onore né vantaggio alcuno. Sì, è un valoroso ma stia bene in guardia! Ci possiamo adirare, noi dei. Terra insensibile ormai, dovete ammettere, quella che oltraggia nella sua furia.» E a lui rispondeva, in collera, la dea dalle bianche braccia, Era «Le tue ragioni qui, o dio dall'arco d'argento, posson anche essere valide, se voi volete proprio concedere ad Achille e a Ettore un uguale onore! Ma Ettore è un semplice mortale, ha succhiato mammella di donna Achille invece è figlio di una dea. Sono stata io ad allevarla tra mille cure, e l'ho data in sposa a un eroe - a Peleo, sì, che era molto caro agli immortali. E voi prendeste parte tutti, o dei, alle nozze. E c'eri anche tu al banchetto, là tra loro, con la cetra in mano, o amico dei vigliacchi, sempre sleale!» E a lei replicava Zeus, l'adunatore dei nembi «Era, non inveire con tanta rabbia contro gli dei! Non avranno certo lo stesso onore, sta' pur sicura. Però anche Ettore era molto caro agli dei, tra i mortali che sono in Ilio. E così era per me, non lo nego. Non trascurava mai, vedete, le sue offerte. Mai una volta, ci tengo a dirlo, l'altare mi mancò della parte giusta del sacrificio, della libagione e del fumo di carne arrostita. È questo, o sapete, l'onore che noi avemmo in sorte. Ma via, lasciamo perdere l'idea - e del resto non è neppure possibile, di nascosto ad Achille - di rubare l'ardito Ettore. Sempre, capite, sua madre va da lui, di giorno come di notte. Via, e se qualcuno degli dei mi volesse chiamare qui Tetide? Ho da dirle una parola saggia prenda Achille i doni da Priamo e rilasci Ettore.» Così parlava. E a recare il messaggio si levò Iride dai piedi di procella. In mezzo là tra Samo e Imbro rocciosa, balzò dentro il mare oscuro e ne risonava la distesa delle acque. Calò rapida verso il fondo come fa la pallina di piombo attaccata ad un corno di bue selvatico, quando va a portar la morte ai pesci voraci. Trovava Tetide in un'ampia grotta e tutt'intorno le sedevano, in gruppo, le dee marine. E lei in mezzo a loro lamentava la sorte del figlio suo irreprensibile, che le doveva morire nella terra di Troia dalle larghe zolle, lontano dalla patria. Le si metteva vicino, Iride dai celeri piedi, e disse «Su, Tetide! Ti chiama Zeus, il dio degli eterni disegni.» E a lei rispondeva allora la dea Tetide dal piede d'argento «Come mai mi vuole là il grande dio? Non me la sento d'incontrarmi con gli immortali ho, sai, tante pene in cuore. Ad ogni modo verrò. Non deve restar inascoltata la parola che dice.» Così parlava. E prese, la divina tra le dee, un velo scuro non c'era veste più nera di quello. Si mosse per andare la precedeva Iride veloce, dai piedi di vento. Davanti a loro si ritraeva l'onda del mare. Salivano sulla spiaggia e si lanciavano verso il cielo. Qui trovarono il Cronide dall'ampia voce di tuono e, intorno, tutti gli altri sedevano in gruppo, i beati dei sempiterni. Si pose, ella, a sedere accanto a Zeus padre le aveva ceduto il posto Atena. Era allora le mise in mano una bella coppa d'oro, e le rivolse parole di conforto Tetide beveva e gliela porse. E fra loro prese a dire il padre degli uomini e degli dei «Sei venuta dunque all'Olimpo, o dea Tetide, anche se ti è una pena - con quel dolore folle che hai dentro. Lo so bene. Ma pure devo dirti perché ti ho chiamata qui. Ecco, son nove giorni ormai che è sorta, tra gli immortali, una contesa a proposito del cadavere d'Ettore e a proposito di Achille distruttore di città e vanno incitando l'Argicida a rapire la salma. Ma io, l'intero onore, in questa faccenda, lo riservo ad Achille intendo, da parte tua, mantenermi, un domani, il rispetto e l'amicizia. Presto, su, vai al campo e avverti tuo figlio digli che gli dei ce l'hanno con lui, e che io sono in collera più di tutti gli altri. Sì, nella sua follia trattiene ancora Ettore presso le navi e non lo rilascia. Voglio vedere se ha timore di me e concede il riscatto della salma! Io poi, da parte mia, manderò Iride da Priamo, a dirgli di recarsi tra le navi degli Achei a riscattare il figlio, e di portar ad Achille tanti doni da placarlo.» Così parlava e prontamente ubbidì la dea Tetide dal piede d'argento. Scese giù dalle vette dell'Olimpo in un volo, e giunse all'alloggio di suo figlio. Lo trovò là in pianto e in singhiozzi. Dattorno a lui i suoi compagni erano tutti in faccende, e preparavano il pasto del mattino. Avevano sgozzato nella baracca una grossa pecora villosa. E lei gli si metteva a sedere accanto, l'augusta madre. Lo carezzò con la mano, gli si rivolgeva e disse «Figlio mio, fino a quando, tra sospiri e pene, ti mangerai il cuore? Ecco, non pensi più a prendere i tuoi pasti né ad andare a letto. È dolce, lo sai, unirsi in amore con una donna. Tu, vedi, non mi vivrai a lungo, ma già ti sta da presso la morte e il destino inesorabile. Via, ascoltami ora sono messaggera di Zeus. Dice che gli dei ce l'hanno con te, e lui più di tutti gli altri è in collera, perché nella tua follia trattieni ancora Ettore presso le navi e non lo rilasci. Su, allora, restituiscilo, e accetta il riscatto per il cadavere!» E a lei rispondeva Achille dai piedi veloci «Vada pure così! Porti qualcuno i doni del riscatto e si meni via la salma, se proprio Zeus Olimpio lo vuole con decisa fermezza.» Così loro là, madre e figlio, nell'accampamento delle navi si scambiavano a lungo ancora parole. Intanto il Cronide inviava Iride dentro la sacra Ilio. Le diceva «Vai, su, Iride lascia la sede dell'Olimpo! Porta a Priamo dentro ad Ilio questo messaggio vada alle navi degli Achei a riscattare suo figlio, e rechi ad Achille tanti doni da placarlo. Ma da solo, mi raccomando nessun altro dei Troiani ha da andar con lui. Lo deve accompagnare un araldo anziano, a reggergli le mule col carro e a riportar poi, di ritorno, il cadavere in città. E non pensi di andar incontro alla morte, e non abbia paura! Vedi, gli daremo una buona scorta, l'Argicida, che lo condurrà fino alla baracca di Achille. E una volta là dentro, lui non l'ucciderà, e impedirà a tutti gli altri di farlo. Non è poi, credi, così insensato, cieco ed empio, ma lo risparmierà trattandolo con ogni riguardo - è un supplice.» Così parlava e si levò Iride dai piedi di procella a recare il messaggio. Giunse alla reggia di Priamo e vi trovò grida e lamenti. I figli intorno al padre sedevano dentro il cortile, e bagnavano le vesti di lacrime. E in mezzo a loro il vecchio stava tutto ravviluppato e stretto dentro il mantello aveva sul capo e sul collo molta sozzura, da ogni parte. Si era, sì, rotolato a terra e l'aveva raccolta con le proprie mani. E per le stanze del palazzo piangevano le figlie e le nuore, al ricordo dei tanti prodi che erano caduti perdendo la vita sotto le braccia degli Argivi. Si mise accanto a Priamo, la messaggera di Zeus, e gli parlava a bassa voce. Il tremito afferrò il vecchio alle gambe. Disse «Fatti coraggio, o Dardanide Priamo, e non aver paura! Non vengo qui, credimi, ad annunziarti altri guai, ma per il tuo bene. Sono messaggera di Zeus, che pur a distanza si prende molta cura di te e ti compiange. Ecco, l'Olimpio ti ordina di andar a riscattare il grande Ettore, e di portar ad Achille tanti doni da placarlo. Vai da solo, mi raccomando nessun altro dei Troiani ha da venir con te. Ti deve accompagnare un araldo anziano, a reggerti le mule con il carro e a riportar poi, di ritorno, la salma in città. E non pensar di trovare la morte, e non temere! Una buona scorta, sai, l'Argicida, verrà con te, e ti condurrà fino alla baracca di Achille. E una volta là dentro, lui non ti ucciderà e impedirà a tutti gli altri di farlo. Non è poi, credi, tanto insensato, cieco ed empio, ma ti risparmierà trattandoti con ogni riguardo sei un supplice.» Così ella diceva, la dea Iride dai celeri piedi, e se ne andò via. Allora Priamo ordinava ai figli di preparare un carro di buone ruote, per muli, e di legarvi sopra la cesta. Lui poi discese alla stanza del tesoro, tutta odorosa era in legno di cedro, dal soffitto alto, e conteneva molti oggetti preziosi. Chiamò là dentro la moglie Ecuba e disse «Povera mia cara, senti, mi è venuto da parte di Zeus un messaggio dell'Olimpo vuole che vada alle navi degli Achei a riscattare il figlio, e porti ad Achille tanti doni da placano. Ma tu, di', cosa ne pensi? Io, per me, ti confesso, sento una grande voglia di recarmi là tra le navi, dentro il campo degli Achei.» Così parlava. E la donna levò un grido di lamento, e rispondeva «Ohimè, dove mai è andato a finire, dimmi, il tuo buon senso che ti rendeva famoso, in passato, fra le genti straniere e i sudditi? Cosa ti salta in mente di presentarti tra le navi degli Achei, da solo, davanti agli occhi di quel guerriero che ti ha ucciso tanti valorosi figlioli? Hai proprio un cuore di ferro! Se ti avrà tra le mani, credimi, e ti poserà addosso lo sguardo, feroce e sleale com'è lui, non avrà pietà né riguardo alcuno di te. Ma stiamocene a casa ora, a piangerlo di lontano! Era destino così, si vede! Un destino inesorabile ha voluto per lui, alla sua nascita - quando io lo misi al mondo - che avesse a sfamare agili cani lontano dai suoi genitori, accanto là a un uomo brutale. Oh, se potessi azzannargli il fegato nel mezzo e divorarlo! Sarebbe allora la giusta vendetta del figlio mio! Sì, lo sai, lui l'ha trucidato - e non era un vile, ma a piè fermo difendeva i Troiani e le donne troiane, senza pensare alla fuga o a mettersi in salvo.» E a lei rispose il vecchio Priamo, simile a un dio «No, son deciso ad andare, non trattenermi! E non essere, proprio tu, l'uccello del malaugurio qui in casa! È inutile che tu insista. Vedi, se me l'avesse detto un altro qualsiasi qui in terra - un indovino ad esempio, che scruta le vittime nei sacrifici, o un sacerdote - potremmo allora pensare a un imbroglio, e ce ne guarderemmo bene. Ora invece, credi, l'ho sentita io, con le mie orecchie, la dea, e me la son vista davanti. E così andrò non rimarrà inascoltata la sua parola. E se poi è destino che debba morire presso le navi degli Achei, eccomi pronto. Subito, sì, mi auguro che Achille mi ammazzi, ma con mio figlio stretto tra le braccia mi sarò cavata la voglia di piangere.» Disse, e già apriva i bei coperchi delle casse. Ne tirò fuori dodici magnifici pepli, e dodici mantelli semplici, e altrettante coperte di lana, e altrettanti manti leggeri di lino, e oltre a questi altrettante tuniche. Pesava i talenti d'oro, dieci in tutto, e li metteva da parte poi prendeva fuori due lucidi tripodi e quattro lebeti, e anche una coppa bellissima. Gliel'avevano data i Traci, al suo arrivo da loro a capo di un'ambasceria ed era un grande dono. Sì, neanche quella volle tenersi, il vecchio, in casa, tanto era ansioso di liberare suo figlio. Poi là, tutti quei Troiani li scacciava dal portico investendoli con dure parole «Via, via, andate alla malora, svergognati seccatori! Non avete anche voi da piangere a casa vostra, che siete venuti qui a disturbarmi? O è ancora poco per voi che Zeus Cronide mi abbia dato il dolore di perdere il figlio più prode? Ma ve ne accorgerete anche voi! Sarà ben più facile, ve lo dico, per gli Achei massacrarvi ora che lui è morto. Oh, quanto a me, prima di vedere sotto i miei occhi la città qui abbattuta e saccheggiata, mi auguro d'andarmene nella casa di Ade.» Disse e con il bastone disperdeva la gente. E loro se n'andavano fuori, a quella furia del vecchio. Allora lui veniva urlando contro i suoi figli, e li copriva di improperi. Erano là Eleno, Paride e il grande Agatone c'erano Pammone, Antifono e Polite valente nel grido di guerra, e inoltre Deifobo, Ippotoo e il nobile Dio. A loro nove gridava il vecchio con voce di comando «Sbrigatevi, figli malnati, poltroni! Ah, era meglio che moriste voi al posto di Ettore, presso le navi, tutti quanti insieme! Oh, povero me, infelice che sono! Sì, ho generato dei figli valorosi e prodi a Troia qua, e nessuno di loro m'è rimasto in vita. È caduto Mestore che pareva un immortale è caduto Troilo, così bravo a battagliare dal carro ed ora anche Ettore, che era un dio tra i guerrieri e non sembrava il figlio di un uomo destinato a morte, ma proprio di un nume. Loro là li fece perire la guerra selvaggia e son rimasti qui tutti i mascalzoni. Eccoli sleali, ballerini, valenti solo nelle danze in piazza! Sempre pronti a razziare agnelli e capretti nel loro proprio paese! Su, cosa aspettate a prepararmi subito il carro, e a sistemarci sopra tutta la roba là? Voglio mettermi in viaggio!» Così diceva. E loro, intimoriti dalle grida del padre, tirarono fuori il carro per muli con le sue solide ruote bellissimo era, ancor fresco di costruzione. E poi vi fissarono sopra, con legature, la cesta. Toglievano da un chiodo il giogo da muli, tutto di bosso aveva una sporgenza nella parte superiore, al centro, ed era fornito di buoni anelli. E insieme portavano fuori anche la soga da fermarlo, lunga nove cubiti. E il giogo lo appoggiarono sopra il liscio timone, proprio in cima, infilandone l'anello nella cavicchia e a legarli insieme, facevano passare tre volte la soga ai due lati della sporgenza, e strinsero di sotto un nodo per bene, e alla fine ne ripiegavano in dentro la punta. Poi venivano trasportando dalla stanza del tesoro i molti doni del riscatto, destinati per Ettore, e li ammucchiavano sul lucido carro. E così aggiogarono i muli dai forti zoccoli, bravi a tirare dentro i loro finimenti. Erano proprio quelli che un giorno i Misi avevano dato a Priamo - uno splendido dono. Per Priamo attaccavano i cavalli che il vecchio teneva solo per sé, e allevava alla greppia di legno levigato. Così loro là nell'alto palazzo, l'araldo e Priamo, si facevano aggiogare le bestie, tutti pensosi. E gli venne da presso Ecuba con l'angoscia in cuore recava con la mano destra il dolce vino dentro una tazza d'oro, voleva che libassero prima di partire. Si fermò davanti ai cavalli, si rivolgeva a lui e disse «Te', liba a Zeus padre, e pregalo di poter venire indietro dal campo nemico a casa, se proprio sei deciso, come vedo, ad andare tra le navi ed io, lo sai, non ho piacere. E allora, su, rivolgi una preghiera al dio delle nuvole nere, al Cronide sì, a Zeus Ideo che guarda dall'alto tutta la regione di Troia. Chiedigli che ti mandi un uccello, il suo rapido messaggero, che gli è il più caro dei volatili ed ha una grande forza. Da destra te lo invii! E così tu, al vederlo, andrai con fiducia alle navi dei Danai. E se Zeus ti rifiuterà il suo messaggero, allora, lo capisci anche tu, non ti posso più dire di recarti tra le navi degli Argivi, pur con tutta la voglia che ne hai.» E a lei rispondeva Priamo simile a un dio «Donna, tu insisti così, ed io voglio darti retta. Hai ragione è cosa buona levare le mani verso Zeus. Forse avrà pietà.» Così diceva il vecchio, e dava ordine alla dispensiera di venir a versargli acqua pura sulle mani. E lei fu subito lì, l'ancella, con un bacile e la brocca. Egli allora si lavava, e prese da sua moglie la coppa. Poi pregava in piedi nel mezzo della corte, e versava a terra qualche gocciola di vino levando gli occhi al cielo. Diceva «Zeus padre che regni dall'alto dell'Ida, tu glorioso e grande, concedimi di giungere nell'alloggio di Achille e di trovarvi comprensione e pietà! E mandami ora un uccello, il tuo rapido messaggero, che ti è il più caro dei volatili ed ha una forza enorme. Da destra me l'hai da inviare così, al vederlo, andrò con fiducia alle navi dei Danai.» Così diceva pregando e lo ascoltò il provvido Zeus. Subito mandava un'aquila, il più perfetto dei pennuti era la bruna cacciatrice, che chiamano anche «la nera». E come è grande la porta d'una stanza dal soffitto alto, in un palazzo di un uomo ricco - una porta ben serrata con i chiavistelli così larghe erano, da una parte e dall'altra, le sue ali. Comparve loro da destra, in volo sulla città. E a vederla, si rallegrarono a tutti si confortò il cuore. Allora in fretta il vecchio salì sul suo cocchio, e si avviò fuori dal vestibolo e dal portico risonante. Davanti, i muli tiravano il carro a quattro ruote, e li guidava il saggio Ideo venivano dietro i cavalli, che il vecchio faceva andare di buon passo toccandoli con la frusta. E tutti insieme l'accompagnavano i suoi, commiserandolo a lungo come se andasse alla morte. Scesero così per la città e giunsero alla pianura e allora i figli e i generi tornavano indietro a Ilio. Al loro apparire nel piano, non sfuggirono, quei due, a Zeus dall'ampia voce di tuono. Guardò il vecchio e ne ebbe pietà. E subito si rivolgeva ad Ermes, suo figlio «Ermes, a te è caro, lo sappiamo, più che ad ogni altro, farti compagno di viaggio dei mortali ed esaudisci chi vuoi. Vai, su, allora e mena Priamo alle navi degli Achei! Ma fa' in modo che nessuno degli altri Danai tutti lo scorga e riconosca, prima di arrivar dal Pelide.» Così parlava e prontamente ubbidì il messaggero Argicida. Subito ai piedi si allacciò i bei calzari divini, d'oro. Essi lo portavano sul mare e sulla terra sconfinata, insieme con i soffi del vento. Prese la verga con la quale incanta gli occhi degli uomini, a chi vuole altri invece risveglia anche dal sonno. Tenendola in mano, volava il forte Argicida. Ed ecco, in un attimo arrivò nella regione di Troia, all'Ellesponto, e prese a camminare somigliava ad un giovanetto di famiglia reale, al quale spunta la prima barba, e la cui adolescenza è piena di grazia. Intanto i due avevano oltrepassato il grande sepolcro di Ilo, e fermavano muli e cavalli al guado del fiume, a farli bere il buio era ormai sceso sulla terra. Fu allora che l'araldo, ad un'occhiata, notò lì vicino Ermes, e diceva a Priamo «Attento, o Dardanide! Qua ci vuole prudenza. Vedo uno fra poco saremo trucidati, questo è certo. Su, presto, fuggiamo via col cocchio! O se no, moviamoci a toccargli le ginocchia e a supplicarlo! Può darsi che abbia pietà di noi.» Così parlava. E al vecchio si confuse la mente ebbe una grande paura. Gli si rizzarono i peli nelle curve membra, e rimase là sbigottito. Ma lui, il dio soccorritore, si fece da presso. Prendeva, al vecchio, la mano e gli domandava «Dove vai, babbo, guidando così i cavalli e i muli attraverso la notte divina, quando dormono gli altri mortali? Come! non hai paura degli Achei decisi a tutto, che ti son vicini qui, ostili e feroci? Se ti vedesse uno di loro con un tale carico di tesori nel buio della notte, dimmi, come te la metti? Fa tanto presto essa a passare! Tu, vedi, non sei più giovane, e qui ti accompagna uno troppo vecchio per difenderti da chi per primo vi molesta. Ma io non intendo farti del male, anzi sono pronto a darti una mano contro altri. Mi par di vedere in te mio. padre.» E a lui rispondeva allora il vecchio Priamo, simile a un dio «È proprio così, figlio mio, come dici. Ma qualche divinità tiene ancora su di me la sua mano, se mi ha fatto incontrare un viandante come te, di buon augurio e bello di aspetto. E sei anche assennato. Sono ben fortunati i genitori che hai!» Gli rispondeva il messaggero Argicida «Sì, tutto questo è vero, o vecchio hai parlato bene. Ma dimmi una cosa, e rivela con franchezza se cerchi di esportare da qualche parte tanti oggetti preziosi e di valore, all'estero, per averli al sicuro o se ormai abbandonate tutti la sacra Ilio per la paura. È caduto, lo so, un grande guerriero, il più valoroso di tutti tuo figlio, sì. E non era, credimi, da meno degli Achei in battaglia.» E a lui rispondeva allora il vecchio Priamo, simile a un dio «Ma tu chi sei, amico? chi sono i tuoi genitori? Con quanta delicatezza hai accennato alla morte del figlio sventurato!» Gli diceva allora il messaggero Argicida «Vuoi mettermi alla prova, o vecchio, domandandomi del divino Ettore. Ebbene, sì, l'ho veduto più di una volta nella battaglia che dà gloria agli eroi anche quando cacciava gli Argivi tra le navi e li uccideva, facendoli a pezzi con l'acuta arma di bronzo. E noi stavamo là fermi ad ammirarlo Achille, sai, non ci lasciava combattere, in collera com'era con l'Atride. Ecco, vedi, io sono un suo aiutante in campo ci ha condotti qui la stessa nave. Faccio parte dei Mirmidoni mio padre si chiama Polittore. È ricco, sì, ma ormai vecchio, come sei tu. Ed ha sei figli, sette con me. E tra loro fui sorteggiato ad accompagnare qua Achille. Adesso poi vengo dalle navi qui nella pianura. Vedi, domani mattina gli Achei intorno alla città attaccheranno. Sai, si spazientiscono, loro là, a star fermi, e non riescono più, i principi degli Achei, a trattenerli, con la smania che hanno di combattere.» Gli rispondeva allora il vecchio Priamo, simile a un dio «Se tu sei davvero un aiutante del Pelide Achille, via, dimmi tutta la verità mio figlio c'è ancora presso le navi, o Achille l'ha già tagliato a pezzi dandolo in pasto alle sue cagne?» E a lui allora disse il messaggero Argicida «No, vecchio, fin adesso non l'hanno divorato né cani né uccellacci, ma giace ancora là, accanto alla nave di Achille, come prima. Sono dodici giorni che sta al suolo, e non gli marcisce il corpo, né lo mangiano i vermi che divorano gli eroi uccisi in battaglia. È vero, sì, che lui lo trascina brutalmente intorno al sepolcro del suo amico, quando appare l'aurora in cielo, ogni mattina ma non riesce a guastarlo. Lo vedrai anche tu all'arrivo è fresco come la rugiada, è stato ripulito con acqua del fango intorno, non ha una macchia da nessuna parte. Si sono chiuse tutte le ferite che gli sono state inferte. E furono in molti, sai, a cacciargli l'arma in corpo. Tanta è la cura che si prendono gli dei beati del tuo prode figlio, anche dopo morto. Era loro, si vede, molto caro.» Così diceva. Ed ebbe un moto di gioia il vecchio e rispose «Figliolo, sì, è una buona cosa fare agli immortali le dovute offerte! Ecco, vedi, mai una volta mio figlio - se pur egli è esistito un giorno - si dimenticava, nella nostra casa, degli dei che abitano l'Olimpo. E perciò si ricordarono di lui, pure nel destino di morte. Ma via, prendi qui da me, eccola, una bella coppa, e proteggimi! Fammi da guida, con l'aiuto degli dei! Devo arrivare all'alloggio del Pelide.» Gli rispose il messaggero Argicida «Mi tenti, o vecchio. Sono più giovane, sì, ma è inutile tu insista. Ecco, m'inviti ad accettare un dono all'insaputa di Achille. Ma io non me la sento, e mi guardo bene dal derubarlo non vorrei che mi capitasse, un domani, qualche guaio. Ma son pronto a farti da guida, magari fino alla famosa Argo, accompagnandoti con ogni premura su una nave o a piedi. E nessuno, penso, avrà l'ardire di disprezzare il tuo accompagnatore e di attaccar briga con te.» Disse e d'un balzo, il dio soccorritore, fu sul cocchio. Prendeva svelto in mano la frusta e le briglie, e mise addosso ai cavalli e ai muli una gagliarda energia. Giungevano alla fossa e al muro del campo acheo le guardie da poco si affaccendavano a preparare la cena. Su di loro il messaggero Argicida diffuse il sonno sopra tutti, sì. E poi aperse la porta spingendo indietro le sbarre, e fece entrare Priamo e gli splendidi doni sul carro. Arrivarono così all'alloggio del Pelide. Alto era l'avevano costruito i Mirmidoni per il loro signore, sgrossando tronchi di pino. Di sopra l'avevano ricoperto con canne piumose, raccolte in un prato. Tutt'intorno gli avevano fatto un grande cortile con una fitta palizzata. Una sola stanga di pino teneva ferma la porta. Ci volevano in tre per metterla a posto, e in tre per rimuoverla - quella grossa sbarra dei due battenti. Tre degli altri, s'intende Achille la spostava anche da solo. E allora Ermes il soccorritore apriva al vecchio, e faceva entrare i magnifici doni destinati al Pelide. Ecco, saltò giù dal cocchio a terra e disse «Vecchio, io sono, sappilo, un dio venuto qui da te. Sì, Ermes sono. Mi ha mandato, vedi, a farti da guida, il padre. Ora io tornerò indietro. Non intendo venire al cospetto di Achille. Sarebbe una sconvenienza che un dio immortale trattasse familiarmente così, faccia a faccia, con uomini mortali. Ma tu entra pure, e toccagli, al Pelide, le ginocchia! E pregalo in nome del padre e della madre dalle belle chiome, e anche del figlio! Vedrai che lo commuovi.» Così diceva Ermes, e se ne andò via verso l'alto Olimpo. Allora Priamo saltò giù dal cocchio a terra, e lasciava là Ideo da solo rimaneva a tenere i cavalli e i muli. Il vecchio andava dritto alla baracca, dove soleva stare Achille caro a Zeus. Ve lo trovò dentro i suoi compagni stavano altrove. Ce n'erano là due soli, l'eroe Automedonte e Alcimo, bellicoso rampollo di Ares, tutt'in faccende. Da poco lui aveva finito di mangiare e bere la mensa gli stava ancora davanti. Entrava il grande Priamo, e loro là non se ne accorgevano. Ed ecco gli veniva vicino, ad Achille, gli prese le ginocchia e baciò le mani le terribili mani sterminatrici che gli avevano ucciso tanti figli. E come quando un grave accecamento coglie un uomo che ammazza un altro in patria, e se ne va in terra straniera a casa di un ricco signore, al suo comparire suscita stupore in chi lo vede attonito così Achille mirava Priamo simile a un dio. Stavano sospesi anche gli altri, e si guardarono in faccia. E a lui Priamo, supplichevole, rivolse la parola «Pensa a tuo padre, o Achille pari agli dei! Ha gli stessi miei anni, è sulla soglia funesta della vecchiaia. E anche lui forse, i confinanti intorno lo vanno angustiando, e non c'è nessuno là a stornargli il danno e la rovina. Ma egli almeno, oh, sì, ha la gioia di sentir dire che tu sei vivo, e spera sempre, tutti i giorni, di vedere suo figlio di ritorno da Troia. Io invece sono infelice senza scampo. Ho generato dei figli valorosi e prodi a Troia, qua, e nessuno di loro mi è rimasto in vita. Sì, cinquanta ne avevo, quando arrivarono qui gli Achei diciannove mi venivano da uno stesso grembo, gli altri me li mettevano al mondo le mie donne nella reggia. Ed ecco, alla maggior parte di loro l'impetuoso Ares sciolse le ginocchia. E quello poi che per me era l'unico e difendeva la città anche da solo, tu l'hai ucciso giorni fa mentre combatteva per la patria. Ettore, sì! Ed è per lui che ora son venuto tra le navi degli Achei, con l'idea di riscattarlo da te. Mi porto dietro, sai, un mucchio di oggetti preziosi. Su, rispetta gli dei, Achille, abbi compassione di me pensando a tuo padre. Io sono ancor più infelice. Ho avuto cuore di fare quello che non fece mai nessun altro mortale sulla terra ho portato alla mia bocca la mano dell'uomo che uccise mio figlio.» Così parlava. E suscitò in lui una gran voglia di piangere per suo padre. Achille allora gli prendeva, al vecchio, la mano e lo scostava dolcemente. E i due là erano assaliti dai ricordi uno pensava ad Ettore sterminatore di guerrieri e piangeva a dirotto, rannicchiato ai piedi di Achille e Achille a sua volta veniva piangendo ora suo padre ed ora Patroclo. Il loro lamento si levava alto nella stanza. Ma quando il divino Achille si fu consolato in quel suo singhiozzare e gliene andò via ogni voglia, subito balzò su dal suo seggio e sollevava con le proprie mani il vecchio, commiserando quel capo canuto e il mento bianco. E gli rivolgeva parole «Ah, poveruomo! Sì, è vero, hai sofferto molti guai. E come hai osato venir da solo tra le navi degli Achei, al cospetto dell'uomo che ti ha ucciso tanti valorosi figli? Hai proprio un cuore di ferro. Ma via, accomodati qui sul seggio e le nostre pene, lasciamole dormire in fondo all'anima, anche se ci pesa! Nessun vantaggio, credimi, viene dal pianto mette solo freddo. Così, vedi, han destinato gli dei per i miseri mortali vivere in mezzo alle tristezze. Solo loro sono senza crucci. Già lo sai, nella sala di Zeus ci stanno i due vasi dei doni che egli dà ai mortali uno è pieno di mali, l'altro di beni. E la persona a cui Zeus fulminatore li offre mescolati, ora incontra sventura, ora felicità. Ma se ad uno porge solo guai, lo rende un miserabile e una fame malvagia lo caccia per il mondo, e se ne va errando tra il disprezzo degli uomini e degli dei. Ecco, anche a Peleo gli dei offrirono splendidi doni, fin dalla nascita ed egli si distingueva, sai, tra tutti gli uomini per agi e ricchezze, era re dei Mirmidoni. E poi gli davano in moglie una dea, benché fosse mortale. Ma pure a lui la divinità addossò una sventura non gli nacque, là nel palazzo, una discendenza di sovrani, ma generò un figlio solo, destinato a precocissima morte. Ed ora che è vecchio, io non mi prendo cura di lui, ma sto qui lontano dalla patria, nella terra di Troia, a contristare te e i tuoi figli. E anche tu, o vecchio, lo abbiamo sentito dire, eri felice un giorno e per tutte le terre che dal lato del mare racchiude Lesbo, soggiorno di Macare, e più lontano la Frigia e l'Ellesponto sconfinato - qui, tra queste genti tu eri famoso, dicono, per le tue ricchezze e i tuoi figli. Ma dopo che gli dei del cielo ti menarono qua questo malanno, continuamente intorno alla tua città ci sono state battaglie e carneficine. Su, rassegnati quindi, e non angustiarti all'infinito! Non guadagnerai nulla, credimi, ad affliggerti per il prode tuo figlio. Tanto non lo risusciterai! Prima ti può ben capitare un'altra sventura.» E a lui rispondeva allora il vecchio Priamo, simile a un dio «Non farmi sedere, o discendente di Zeus, su di un seggio, quando Ettore giace ancora nel tuo alloggio e nessuno se ne prende cura. Via, rilascialo subito! Così me lo vedrò. E tu accetta i doni del riscatto che ti portiamo sono tanti. E l'augurio che ti faccio, è di goderli, e far ritorno alla terra dei tuoi padri, per avermi lasciato fin dal primo momento vivere e veder la luce del sole.» Lo guardava scuro Achille dai rapidi piedi e diceva «Non irritarmi più, o vecchio, adesso! Ci penso già da me a renderti libero Ettore. È venuta, sappilo, da parte di Zeus, mia madre a dirmelo, la figlia del vecchio marino. E quanto a te, o Priamo, ora capisco-e non mi inganno-che è stato un dio a menarti fin qui alle navi degli Achei. Non poteva, sono certo, un mortale, neppure se molto giovane e forte, aver il coraggio di penetrare nel campo e non riuscirebbe, credi, a sfuggire alle guardie né a smuovere facilmente la sbarra della nostra porta. Perciò ora non farmi arrabbiare! Sono già in mezzo al miei guai. Potrei, bada, non risparmiare neppure te nella mia dimora, anche se sei un supplice. - e trasgredire agli ordini di Zeus.» Così parlava. Tremò di paura il vecchio e ubbidiva al comando. Il Pelide intanto come un leone balzò fuori dalla stanza. Non andava da solo insieme con lui si movevano due scudieri, l'eroe Automedonte ed Alcimo, che Achille onorava più di tutti gli altri compagni, dopo la morte di Patroclo. Essi allora staccavano di sotto il giogo i cavalli e i muli conducevano dentro l'araldo banditore del vecchio, e lo fecero sedere su di uno scanno. Poi tiravano giù dal lucido carro i molti doni, destinati al riscatto della salma di Ettore. Vi lasciarono sopra due manti leggeri di lino e una tunica di fine tessuto intendeva, Achille, coprire il cadavere, e consegnarlo così da portar a casa. Chiamava fuori le ancelle e ordinava loro di lavar il corpo e di ungerlo tutt'intorno lo faceva però trasportare in un posto appartato, non volendo che Priamo scorgesse suo figlio. Forse il vecchio, nell'angoscia, non avrebbe saputo dominare la sua rabbia alla vista del figliolo, e lui, Achille, poteva infuriarsi, e ucciderlo, violando gli ordini di Zeus. Dopo che le ancelle lo ebbero lavato e unto di olio abbondantemente e gli misero addosso il bel manto e la tunica, Achille lo sollevava con le proprie mani e lo depose sul letto di morte. E insieme con lui, i compagni lo portarono così sopra il lucido carro. Proruppe allora in urli di lamento e chiamò il caro compagno per nome «Non prendertela con me, o Patroclo, se vieni a sapere, là nell'Ade, che ho reso Ettore a suo padre. Ecco, mi ha offerto doni considerevoli. Ma te ne darò, sì, una parte, come è giusto.» Disse e rientrava, il divino Achille, nella baracca. Si sedeva sul seggio finemente lavorato di dove si era levato prima, vicino là alla parete di fondo, e parlava a Priamo «Eccoti restituito il figlio, o vecchio, come tu volevi. Sta disteso sul letto funebre. All'alba lo vedrai, nel menartelo via. Ora pensiamo alla cena! Ci pensava, sai, a mangiare, anche Niobe dalla bella chioma. Eppure ben dodici figli le erano morti in casa sei figliole e sei maschi nel fiore degli anni. Gli uni, fu Apollo ad ucciderli con l'arco d'argento, nella sua collera contro Niobe le altre, le colpì Artemide saettatrice. E la ragione era, come è noto, che lei soleva paragonarsi a Latona dalle belle guance. Latona, diceva, aveva avuto due figli lei invece ne aveva generato una moltitudine. E così quei due li ammazzarono tutti. Ed essi per nove giorni giacevano a terra dentro il loro sangue, e non c'era più nessuno là per seppellirli il Cronide, sai, aveva reso la popolazione di pietra. Al decimo giorno infine li seppellirono gli dei del cielo. Ebbene, persino lei pensò al cibo, quando fu stanca di piangere. Ed ora sta là da qualche parte tra le rocce, in mezzo a monti solitari, sul Sipilo, dove sono, dicono, le dimore delle ninfe che danzano a volo sopra le rive dell'Acheloo là essa è una pietra e pure patisce in segreto dolori per volontà degli dei. Ma via, pensiamo anche noi due a nutrirci, o divino vecchio più tardi potrai piangere tuo figlio, quando l'avrai riportato in Ilio. Allora riceverà da te lacrime senza fine.» Disse e si levò di scatto, il veloce Achille, a sgozzare una pecora candida. E i compagni la scoiavano e vi si affaccendavano intorno con abili mani. La tagliavano in pezzi a regola d'arte, e li infilarono negli spiedi li arrostirono con grande cura e li trassero via tutti dal fuoco. Poi Automedonte prendeva il pane e lo distribuì sulla mensa, in leggiadri canestri di vimini le carni invece le spartì Achille. Ed essi stendevano le mani sulle vivande pronte che avevano in tavola. E dopo che ebbero cacciato via la voglia di mangiare e di bere, allora il Dardanide Priamo guardava sì Achille con meraviglia quanto era grande e bello! Assomigliava davvero agli dei. A sua volta Achille contemplava stupito Priamo il Dardanide ne veniva osservando il nobile aspetto e ne ascoltava le parole. Quando si furono rallegrati a mirarsi a vicenda, a lui per primo parlava il vecchio Priamo, simile a un dio «Fammi andar a letto adesso, subito, o discendente di Zeus! Ormai dobbiamo riposare godendoci il dolce sonno. Non ho chiuso, sai, ancora occhio da quando mio figlio ha perso la vita sotto le tue braccia ma non faccio altro che lamentarmi di continuo e patire ogni sorta di pene, rotolandomi dentro il recinto della corte nella immondizia. Solo oggi ho toccato cibo, e ho mandato giù per la gola il rosso vino prima non avevo preso niente.» Disse. E subito Achille dava ordine ai compagni e alle ancelle di collocare le lettiere sotto il portico, e di metterci tappeti belli, color porpora, e di stenderci sopra coltri e mantelli di lana per coprirsi. E loro andavano fuor dalla stanza tenendo una fiaccola in mano, e prepararono prontamente, con sollecitudine, i due letti. E a lui diceva, in tono scherzoso, Achille dai piedi veloci «Vedi, devi dormir fuori, o caro vecchio! Ho paura che capiti qui all'improvviso qualche capo degli Achei, di quelli che vengono di continuo a sedersi da me e a scambiare pareri, come è giusto. Se uno di loro ti vedesse nel buio della notte, subito lo riferirebbe ad Agamennone pastore di popoli, e allora il riscatto della salma subirebbe un ritardo. Ma via, dimmi una cosa e parla con franchezza per quanti giorni hai in mente di rendere gli onori funebri al divino Ettore? Così io non mi muovo dal campo, e vi trattengo anche l'esercito.» Gli rispondeva allora il vecchio Priamo, simile a un dio «Se proprio sei disposto a lasciarmi celebrare le esequie del divino Ettore, ebbene, regolati così, o Achille, e mi farai un grande piacere. Ecco, tu sai che siamo bloccati in città, e lontana è la legna da trasportare dal monte, e i Troiani hanno molta paura. Così, per nove giorni vorremmo piangerlo in casa al decimo faremmo il funerale, e il popolo banchetterebbe nell'undicesimo giorno innalzeremmo il tumulo. Poi al dodicesimo riprenderemo le ostilità, se proprio è necessario.» E a lui rispondeva allora il divino Achille dai piedi gagliardi «Sarà fatto, o vecchio Priamo, come vuoi tu. Sì, sospenderò le azioni di guerra per il tempo che richiedi.» Così parlava, e prese la mano destra del vecchio fino al polso non voleva che nutrisse qualche timore. Ed essi dormivano là nel vestibolo dell'alloggio, l'araldo e Priamo, con i loro pensieri. Achille invece riposava nella parte più interna della solida baracca e accanto a lui si coricò la Briseide dalle belle guance. Così allora tutti gli altri dei e i guerrieri combattenti dai carri dormivano la notte intera, vinti da un molle sopore. Ma Ermes soccorritore non lo afferrava il sonno veniva pensando come condurre fuori dal campo il re Priamo, di nascosto ai forti guardiani delle porte. Gli si fermò in alto, sopra la testa, e diceva «O vecchio, non pensi proprio, a quanto pare, al pericolo che corri! Ecco, tu dormi ancora in mezzo a nemici, solo perché Achille ti ha lasciato stare. Sì, è vero, hai riscattato ora tuo figlio, hai offerto molti doni. Ma tre volte tanti, ti dico, dovranno darne i figli tuoi rimasti in casa per riavere te vivo, se l'Atride Agamennone ti sapesse qui, e lo venissero a sapere tutti gli altri Achei.» Così parlava. E il vecchio ebbe paura faceva alzare l'araldo. Allora Ermes aggiogò loro i cavalli e i muli, e li conduceva in fretta attraverso il campo. Nessuno li riconobbe. Ma quando arrivarono al guado del fiume dalla bella corrente, al Santo vorticoso di cui è padre Zeus immortale, Ermes se ne andò all'alto Olimpo. Aurora dal peplo color arancione si diffondeva su tutta la terra e loro guidavano i cavalli verso la città, piangendo e singhiozzando. Il cadavere lo trasportavano i muli. E nessun altro degli uomini li vide, nessuno delle donne dalla bella cintura, prima di Cassandra. Ecco, lei era salita, simile all'aurea Afrodite, sulla rocca di Pergamo, e subito riconobbe suo padre in piedi sul cocchio, e l'araldo banditore della città. Lui poi, lo scorse sul carro dei muli, steso sopra il suo letto di morte. Proruppe allora in un urlo di lamento, e gridava per tutta la città «Venite a vedere Ettore, o Troiani e Troiane! Tante volte, quando era vivo, gli facevate festa al suo ritorno dalla battaglia. Era la grande gioia della città e dell'intero paese.» Così diceva. E nessuno restava lì in città non un uomo, non una donna. Tutti li invase un dolore irrefrenabile. Nei pressi della porta s'incontrarono in lui che menava la salma. E per prime lo piangevano, strappandosi i capelli, la sua sposa e l'augusta madre si erano precipitate sul carro dalle solide ruote, e gli toccavano la testa. Intorno stava, tutta in lacrime, la folla. E certo per l'intero giorno, fino al tramonto del sole, sarebbero rimasti a lamentarsi su Ettore singhiozzando là davanti alla porta, se il vecchio di sul cocchio non avesse detto alla gente «Largo! Fatemi passare con i muli! Avrete tempo e modo, più tardi, di piangere fino alla sazietà, quando l'avrò portato a casa.» Così parlava loro si scostavano, e lasciarono passare il carro. Quando essi ebbero menato Ettore dentro il famoso palazzo, lo deposero allora sopra un letto traforato. Poi fecero venire i cantori a intonare il lamento funebre. E questi levavano un triste canto, e rispondevano le donne coi loro gemiti e sospiri. E tra esse diceva in pianto Andromaca dalle bianche braccia, tenendo fra le mani la testa di Ettore sterminatore di guerrieri «Sposo, sei andato via dalla vita, mi sei morto così giovane! E lasci me qui vedova, nel palazzo. Ed è tanto piccolo ancora il bambino che generammo, tu ed io, infelici e non arriverà, sono certa, a giovinezza. Prima, me lo sento, la città qui verrà distrutta da cima a fondo. Sì, vedi, sei perito tu, il suo difensore tu che la proteggevi, e ne custodivi le spose fedeli e i teneri figli. Ed esse ormai, ecco, saranno fra poco portate via sulle navi, e ci sarò anch'io con loro. E tu, figlio, o verrai con me a far lavori da schiavi e a tribolare per un padrone inflessibile o qualcuno degli Achei ti ghermirà per un braccio scaraventandoti dall'alto di una torre - oh, una fine orribile!- per la rabbia che Ettore gli abbia ucciso forse un fratello, o il padre o anche un figlio. Oh, sì, sono tanti gli Achei che morsero la terra coi denti, sotto le braccia di Ettore! Non era, sai, un mite, tuo padre, nella furia della lotta e anche per questo lo piangono i combattenti per la città. Ecco, ai genitori, o Ettore, hai recato singhiozzi e dolore orribili ma a me, più che a ogni altro, resteranno a lungo pene e angosce. Vedi, non mi tendesti, morendo, dal letto le braccia, tra le lacrime, giorno e notte.» Così diceva piangendo. E subito dietro a lei, sospiravano e gemevano le altre donne. E tra loro poi Ecuba intonava il suo lamento «Ettore, o caro più di tutti gli altri miei figli! Oh, sì, da vivo eri caro anche agli dei e così loro si son presi cura di te, pur nel destino di morte. Gli altri miei figlioli, vedi, Achille li vendeva, se ne catturava qualcuno, al di là del mare, a Samo e a Imbro e a Lemno, laggiù, caliginosa. A te, è vero, tolse la vita con l'arma di bronzo dal largo taglio, e ti trascinava a lungo intorno al sepolcro del suo compagno di Patroclo, sì, che gli avevi ucciso - ma neppure così lo risuscitò! E ora, ecco, stai qui in casa, fresco come la rugiada ti manca solo la parola. Sei proprio uguale a uno che Apollo raggiunge e colpisce con le sue frecce benigne.» Così diceva in lacrime, e suscitava un pianto senza fine. E tra di esse allora Elena fu la terza ad intonare il suo lamento «Ettore, tu mi eri il più caro di tutti i cognati. Oh, sì, è vero, mio marito è Alessandro, che mi menò a Troia-e magari fossi morta prima! Ormai, vedi, sono venti anni che venni via di laggiù e sto lontana dalla mia patria. Ma mai ho sentito da te una parola di sgarbo o villana. E se qui in casa alzava la voce qualcun altro dei cognati, o una sorella di mio marito o la moglie di un suo fratello oppure mia suocera - mio suocero no, era sempre buono come un padre ecco, tu allora li calmavi e trattenevi con quella tua dolcezza e quelle tue gentili parole. Per questo ora ti piango, e piango pure me, infelice che sono. Non ho più nessuno, lo so, qui a Troia, che sia affettuoso con me e mi voglia bene, ma tutti mi detestano.» Così diceva piangendo e con lei gemeva la folla immensa. Allora il vecchio Priamo rivolse al popolo queste parole «Adesso, o Troiani, portate della legna in città, e non abbiate paura di qualche compatta schiera di Argivi in agguato! Sì, ve lo dico, Achille mi assicurava, nell'accomiatarmi dalle navi, di non darci noie prima che arrivi l'aurora del dodicesimo giorno.» Così diceva. E loro aggiogavano ai carri buoi e muli, e subito dopo si radunarono davanti alla città. Per nove giorni poi trasportavano una enorme quantità di legna. Ma quando al decimo apparve Aurora con la sua luce ai mortali, ecco che celebravano in lacrime le esequie del prode Ettore misero il cadavere in cima al rogo ed appiccarono il fuoco. E come al mattino apparì Aurora dalle dita di rosa, si riuniva il popolo intorno alla pira del grande Ettore. Appena adunati, cominciavano a spegnere con il rosso vino il rogo dappertutto, fin dove era giunta la violenza del fuoco. Raccoglievano le bianche ossa i fratelli e gli amici, tra sospiri grosse lacrime gli colavano dalle guance. E le ossa andavano a riporle in un'urna d'oro, avvolgendole dentro morbide stoffe color porpora. Poi deposero la cassetta in fondo a una fossa e la coprirono con un letto di grosse pietre, ben compaginato. E in fretta innalzarono un tumulo intorno stavano sentinelle da ogni parte, per paura che gli Achei attaccassero prima del tempo. Finito il sepolcro, tornarono indietro. E allora si riunivano a pranzare magnificamente, in un solenne banchetto, nel palazzo di Priamo, il re discendente di Zeus. Così loro là celebravano il funerale di Ettore domatore di cavalli. 

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⏰ Ultimo aggiornamento: May 15, 2015 ⏰

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