LibroXVIII

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Così loro là battagliavano - ed era come un divampare d'incendio. E Antiloco intanto giunse messaggero con agili piedi da Achille. Lo trovò davanti alle navi dalle alte corna, che già presentiva, nel suo intimo, il fatto; e diceva turbato al suo magnanimo cuore «Ahimè, perché mai di nuovo sono travolti gli Achei verso la flotta, e fuggono spaventati per il piano? Temo proprio che gli dei mi portino pene e lutti, come mi accennò chiaramente la madre m'avvisava che il più prode dei Mirmidoni, me vivo ancora, avrebbe lasciato la luce del sole sotto le braccia dei Troiani. Oh, sì, non ho dubbi è morto il forte figlio di Menezio. Quel testardo! Eppure gli imponevo di stornare, soltanto il fuoco divoratore e far ritorno alle navi, e di non scontrarsi con Ettore in una lotta ad oltranza.» Mentre pensava così, ecco che gli venne vicino il figlio del nobile Nestore, in lacrime, e riferiva il messaggio doloroso. Diceva «Ohimè, figliolo di Peleo, ti tocca apprendere una ben triste notizia. Ah, se non fosse vera !È a terra Patroclo, e intorno, là, stanno combattendo per il cadavere ormai nudo. Le armi, sai, le ha Ettore.» Così diceva. E una nera nube di dolore lo avviluppò prese con tutt'e due le mani cenere fuligginosa e se la versò giù dal capo, e andava lordandosi il volto leggiadro. Quel tritume nerastro gli si attaccava sopra la tunica elegante ed ecco, cadde a terra, in mezzo alla polvere, lungo disteso - enorme era, sopra uno spazio enorme e con le proprie mani si strappava e insudiciava la chioma. Le schiave allora che Achille si era prese insieme con Patroclo come preda di guerra, con l'angoscia in cuore gridavano forte subito corsero fuori intorno al valoroso eroe, e si misero tutte a percuotersi il petto con le mani. Ognuna si sentiva mancare le gambe. Antiloco, dall'altro lato, singhiozzava in lacrime, e teneva le braccia di Achille questi continuava a gemere cupamente. Aveva paura, si vede, che si tagliasse la gola con un'arma di ferro. Poi all'improvviso Achille mandò un urlo spaventoso. Lo sentì l'augusta madre se ne stava seduta nelle profondità marine accanto al vecchio genitore, e prese subito a lamentarsi. E intorno a lei si affollavano le dee, tutte le Nereidi che erano in fondo all'abisso del mare. Là c'era Glauce, e la fiorente Talia, e Cimodoce che ha la parvenza dell'onda. C'era Nesea l'isolana, Spio amante degli antri, la celere Toa e la marina Alia dai grandi occhi bovini. C'era Cimotoa che percorre rapida i flutti, e Attea la rivierasca, e Limnoria innamorata dei laghi. C'erano Melite e lera vivace, l'agile Anfitoa e Agave piena di fascino e Donata e Primula e Ferusa la rapinosa e Dinamene l'ospitale Dessamene, la vagabonda Anfinome e la bella Callianira e Donde e Panope tutta occhi e la famosa Galatea Nemerte sincera, Apseude senza mai falsità, e Callianassa bellezza sovrana. Erano là Climene e Ianira e Ianassa, la fulgida Mera, Oritia, e Amatia amica delle sabbie, con la sua folta chioma e tutte le altre Nereidi che si trovavano in fondo all'abisso del mare. Ne fu gremita la grotta, in un chiarore abbagliante ed esse tutte insieme presero a percuotersi il petto. Tetide allora intonava il lamento «Sentite, sorelle Nereidi così ad ascoltarmi, saprete tutte che pena ho qui nel cuore. Ahimè, sono davvero sventurata! Ahimè, sono una povera madre infelice di un grande eroe! Vedete, ho avuto, sì, un figlio superiore a tutti gli altri guerrieri, e mi veniva su che pareva un virgulto. E io l'ho allevato come una pianta sulla pendice del vigneto, e lo mandai a Ilio con le curve navi a combattere contro i Troiani. Ma non lo accoglierò più di ritorno in patria, nel palazzo di Peleo e intanto che mi resta in vita e scorge la luce del sole, è sempre tra crucci e guai. E io non gli posso, accorrendo là, dar aiuto. Ma via, andrò! Voglio vedere mio figlio, voglio sentire che dolore gli è venuto, pur lontano come sta dal campo di battaglia!» Così parlava e lasciò la grotta ed esse insieme a lei se ne andavano via in lacrime. Dinanzi a loro si apriva, all'intorno, l'onda del mare. E quando giunsero alla terra di Troia dalle larghe zolle, salivano una dietro l'altra sulla spiaggia - nel punto dove stavano le navi dei Mirmidoni, tirate in secco, fitte fitte intorno ad Achille. Lui, l'eroe, continuava a levar alte grida di lamento. Ed ecco gli fu vicino l'augusta madre e si mise a gemere forte. Gli prese, a suo figlio, la testa, e singhiozzando gli rivolgeva parole «Figliolo, perché piangi? Che dolore ti è venuto? Parla, non tenerlo chiuso! Vedi, qui ogni cosa si è avverata per opera di Zeus, proprio come tu prima supplicavi levando al cielo le mani tutti i figli degli Achei sono sospinti verso le poppe delle navi durante la tua assenza dal campo, e si trovavano in una situazione ben brutta.» E a lei con alte grida di lamento rispondeva Achille dai rapidi piedi «Madre mia, sì, è vero Zeus Olimpio mi ha qui esaudito. Ma che gusto ne ho, se è morto il mio caro amico? Patroclo, sì! E io lo onoravo più di tutti gli altri compagni era come un altro me stesso. E l'ho perduto! Ettore fu ad ucciderlo, e lo spogliò delle armi le mie armi favolose, una meraviglia a vedersi, tanto belle! Furono, lo sai, gli dei a darle a Peleo - uno splendido dono - il giorno che ti gettarono nel letto di un eroe mortale. Oh, se tu restavi laggiù fra le dee marine, e Peleo avesse sposato una donna comune! Ora invece... Anche tu così avrai angoscia senza fine, alla perdita del figlio non lo accoglierai più di ritorno in patria. Credi, neanch'io ho più voglia di vivere e rimanere ancora tra gli uomini, se Ettore non sarà, lui per primo, percosso sotto la mia lancia e non perderà la vita, pagando duramente per aver spogliato Patroclo, il figlio di Menezio.» Gli rispondeva Tetide allora in pianto «Avrai, oh, sì, figlio mio, un'esistenza breve, da come parli. Subito dopo Ettore, te lo dico, la tua fine è certa.» E a lei, vivamente agitato, rispondeva Achille dai rapidi piedi «Adesso subito mi vorrei morto, quando non era destino che venissi in soccorso al compagno in pericolo! E lui è perito lontano dalla patria, e aveva bisogno di me, che lo proteggessi dalla sciagura. Ora invece, vedi, io non farò ritorno nella terra dei miei padri, e neppure sono stato la salvezza per Patroclo e gli altri compagni là, che furono abbattuti in gran numero da Ettore. Ecco, me ne sto qui accanto alle navi, un peso inutile per la terra e sono forte come nessun altro degli Achei sul campo di battaglia. Nell'assemblea, lo so bene, ci sono anche altri più bravi. Oh, se scomparisse l'ira di fra gli dei e gli uomini! e così la collera, che fa montare su tutte le furie la persona più ragionevole. É ancor più dolce del miele che cola giù dai favi e la si cova poi dentro, qui, come un fumo. È successo a me a farmi arrabbiare è stato Agamennone, or non è molto. Ma via, quel che è stato è stato lasciamo perdere, anche se ci costa, e dominiamo il nostro animo! È necessario. Sì, ora andrò voglio raggiungere l'uccisore del mio amico, Ettore là. E il destino di morte io l'accoglierò quando Zeus vorrà mandarlo - insieme agli altri dei immortali. Neanche il fortissimo Eracle, lo sai, poté sfuggire alla sua fine, e pur era molto caro a Zeus sovrano figlio di Crono ma il giorno fatale lo vinse e l'irriducibile rancore di Era. Così anch'io, se proprio mi tocca una sorte uguale, starò là disteso, dopo morto. Ma ora intendo acquistarmi una grande gloria. Voglio che più d'una delle donne troiane e dardane, dalla cintura lenta sulle anche, si asciughi a due mani le lacrime dalle tenere guance, piangendo forte. Sentiranno allora che sono stato lontano dal campo ormai da troppo tempo. E tu non trattenermi dalla battaglia, anche se lo fai per amore! Non mi farai cambiar idea.» Gli rispondeva allora la dea Tetide dal piede d'argento «Sì, è vero questo, o figlio è un atto di lealtà stornare la rovina dagli amici in pericolo. Ma le tue belle armi sono in mano ai Troiani le tue armi, tutte di bronzo, così luccicanti. Ed Ettore è fiero di portarle lui addosso però non ne andrà superbo, penso, ancora a lungo, poiché la morte sanguinosa gli sta accosto. Via, tu non cacciarti per adesso nella mischia, prima di scorgermi qui di ritorno! Domani, credimi, verrò, al sorgere del sole, a portarti le belle armi di Efesto sovrano.» Così parlava, e si allontanò da suo figlio. E già distante diceva in mezzo alle sorelle marine «Voi ora entrate nell'ampio seno del mare a vedere il vecchio dio delle acque salate, recatevi al palazzo di vostro padre e raccontategli ogni cosa. Intanto io andrò sull'alto Olimpo da Efesto, artefice famoso. Può ben darsi che sia disposto a donare al mio figliolo magnifiche armi, tutte lustre.» Così diceva ed esse s'immersero subito dentro l'onda del mare. Lei invece, la dea Tetide dal piede d'argento, andava all'Olimpo voleva recare a suo figlio le splendide armi. Allora verso l'Olimpo i piedi la portavano e intanto gli Achei con un vociare straordinario, sotto l'urto di Ettore sterminatore di eroi, andavano in fuga verso le navi, sulla spiaggia dell'Ellesponto. E non riuscivano più a trarre in salvo, fuori dai tiri, il corpo di Patroclo, lo scudiero di Achille già di nuovo lo raggiungevano i fanti e i guerrieri sui carri, insieme ad Ettore figlio di Priamo, simile a una fiamma nella sua violenza. Tre volte, sopraggiungendo alle spalle, lo splendido Ettore l'afferrò per i piedi, deciso a trascinarlo via e gridava a gran voce in mezzo ai Troiani. E per tre volte i due Aiaci. vestiti di forza impetuosa, lo respinsero lontano dal cadavere. Ma lui ostinatamente baldanzoso e sicuro com'era, ora si gettava nel tumulto e nello strepito della mischia, ora si arrestava levando alte grida ma indietro non si ritraeva mai. Come i pastori che pernottano nei campi, non riescono in nessuna maniera a scacciare dal corpo di una bestia uccisa un leone lustro di pelo, tanto è affamato così non ce la facevano i due Aiaci battaglieri a respingerlo via, Ettore il Priamide, lontano dal cadavere. E lui alla fine l'avrebbe tirato dalla sua parte acquistando una gloria immensa, se dal Pelide non andava la celere Iride dai piedi di vento correndo giù dall'Olimpo, a dirgli di partecipare alla battaglia. Agiva di nascosto a Zeus e agli altri dei l'aveva mandata Era. Gli si metteva vicino e gli rivolgeva parole «Su, levati, Pelide, tu che sei il più tremendo fra tutti quanti i guerrieri! Va' in soccorso di Patroclo! È per lui, là davanti alle navi, che continua la lotta accanita. Si trucidano gli uni gli altri gli Achei in difesa attorno al corpo del morto, e loro, i Troiani si lanciano avanti per trascinarlo via verso Ilio. Ettore più di tutti smania di strapparglielo di mano ha una voglia furiosa di recidere la testa dal collo delicato, e di piantarla su un palo. Su, levati, e non stare più così! Ti prenda pietà e orrore, al pensiero che Patroclo diventi un'allegra festa per le cagne dei Troiani. Che infamia per te, se il cadavere arriva qui sconciato!» E a lei rispondeva allora il grande Achille dai piedi gagliardi «Iride, chi degli dei, dimmi, ti mandò da me messaggera?» Gli rispose la celere Iride dai piedi di vento «È stata Era a spedirmi qua, la gloriosa consorte di Zeus. E non lo sa il Cronide che siede in alto, né alcun altro degli immortali che abitano l'Olimpo nevoso.» E a lei rispondeva Achille dai rapidi piedi «Come faccio a scendere nella mischia? Le armi, vedi, le hanno loro, là. E mia madre non mi permette di prender parte alla battaglia, prima che sia qui di ritorno, sotto i miei occhi. Mi assicurava, sai, di portarmi da parte di Efesto una bella armatura. E non vedo di chi mai potrei indossare le armi, a meno che non imbracci lo scudo di Aiace Telamonio. Ma anche lui, son sicuro, è là a battersi in prima linea e a menar strage con la lancia, a difesa di Patroclo morto.» Gli rispose la celere Iride dai piedi di vento «Sì, certo, lo sappiamo pure noi che le tue armi famose sono in mano di altri. Ma anche così va' fino al fossato e mostrarti ai Troiani! Può darsi che si spaventino alla tua apparizione e tralascino di combattere, e così riprendano fiato i bellicosi figli degli Achei, in difficoltà come sono. Ci vuol tanto poco per ristorarsi un attimo, in guerra.» Così ella diceva, la dea Iride dai celeri piedi, e se ne andò via. Allora Achille balzò su, l'eroe caro a Zeus. Atena gli mise a tracolla, al forte omero, l'egida ricca di frange e intorno al capo gli diffondeva, la divina tra le dee, un nembo d'oro, e gli faceva ardere dalla persona un bagliore di fiamma. A volte si leva il fumo su da una città arrivando fin al puro sereno del cielo, là in lontananza, da un'isola che i nemici assaltano e quelli per l'intera giornata si battono in una feroce battaglia facendo delle sortite. E poi al calar del sole, ecco ardono numerose le fiammate, e il chiarore è in alto d'un volo e lo vedono le genti che abitano intorno, e può darsi che giungano con le navi a scamparli dalla rovina. Proprio così era il balenio che sorgeva dal capo di Achille, e arrivava al cielo. Andava a piantarsi all'orlo del fossato, subito dopo il muro, ma non entrava nella mischia fra gli Achei. Rispettava il saggio avvertimento della madre. E là fermo levò il suo urlo di guerra e Pallade Atena in disparte fece sentire anche lei la sua voce. E allora tra i Troiani suscitò un trambusto senza fine. Come quando si leva chiaro nell'aria lo squillo di una tromba, nei giorni che feroci nemici circondano la città, così in quel momento sonava alto il grido dell'Eacide. E loro all'udire quella voce vibrante di bronzo, furono sgomenti tutti. I cavalli dalla bella criniera voltavano indietro i carri, avevano negli occhi un presagio di sventure. Gli aurighi eran sconvolti al vedere un bagliore incessante ardere terribile sul capo del magnanimo Pelide - glielo accendeva la dea dagli occhi lucenti, Atena. Tre volte di sopra la fossa levò il suo forte urlo di guerra, il divino Achille e per tre volte ci fu smarrimento e confusione tra i Troiani e i loro famosi alleati. E là allora persero la vita ben dodici tra i più valorosi eroi, impacciandosi a vicenda con i carri e le lance. Così gli Achei, con sollievo, trassero Patroclo fuori dal tiro delle armi, e lo deposero sopra una portantina. Dattorno gli si misero i suoi compagni e piangevano. Dietro veniva con loro Achille, tutto in lacrime vedeva l'amico fedele disteso su una barella, lacerato dall'aguzzo bronzo. Era stato lui, sì, a spedirlo sul campo di battaglia con i suoi cavalli e il suo carro, ma non doveva più accoglierlo di ritorno! Allora Era, l'augusta dea dai grandi occhi bovini, mandava giù il Sole instancabile che non voleva andarsene, verso le correnti dell'Oceano. Così venne il tramonto, e gli Achei sospesero la feroce lotta e la battaglia mortale. I Troiani, dall'altra parte, tralasciavano la mischia violenta. Di sotto i carri slegarono i veloci cavalli e si riunirono In adunanza, prima di pensare al pasto della sera. Fu un'assemblea di guerrieri in piedi nessuno ebbe l'animo di mettersi a sedere. Tutti li teneva il tremore era ricomparso Achille, da tanto tempo si teneva lontano dalla guerra dolorosa! Tra loro prendeva a parlare Polidamante, il saggio figlio di Pantoo lui solo sapeva guardar avanti e indietro ad un tempo. Era compagno d'armi di Ettore. Erano nati nella stessa notte ma uno aveva molta autorità per i suoi consigli, l'altro dominava in campo con la lancia. Davanti a loro, da persona prudente, prese la parola e disse «Riflettete bene, amici! Io vi consiglio, per parte mia, di andare adesso in città, e non attendere qui, accanto alla flotta, l'aurora nel piano. Siamo, lo sapete, distanti dalle mura. Fintanto che lui, là, persisteva nella sua ira contro Agamennone, era ben più facile battagliare con gli Achei. E anch'io, vedete, ero lieto di pernottare fuori presso le navi, nella speranza di arrivare a distruggerle. Ora invece ho molta paura del Pelide dai rapidi piedi violento com'è, non si contenterà di rimanere a combattere nella pianura - dove Troiani e Achei si scontrano a metà via, con impeto uguale, per la vittoria - ma vorrà guerreggiare per impadronirsi della città e delle donne. Su, allora, moviamoci verso la città, datemi retta! Sarà così, ve lo dico adesso la notte divina ha arrestato il Pelide. Ma se domattina ci coglie ancora qui quando muove all'assalto in armi, più d'uno, ve l'assicuro, si accorgerà che guerriero sia. E chi riesce a fuggire, gli parrà un sogno, credetemi, metter piede in Ilio. Ma molti dei Troiani li divoreranno cani e avvoltoi. Ah, come mi auguro di non sentire nulla di ciò coi miei orecchi! Se invece decidiamo di seguire la mia proposta, anche se ci è amara, ecco, durante la notte terremo il nerbo dell'esercito sulla piazza grande, e la città intanto la difenderanno le torri e le alte porte con i loro solidi battenti sono grossi, lo sapete, ben lavorati, e sbarrati con travi messe di traverso. Poi domattina all'alba, armati da capo a piedi, ci metteremo a gruppi sulle torri. E peggio per lui, se intende venir dalle navi a battagliare con noi per prendere le mura! Se ne tornerà indietro ancora una volta, - dopo aver stancato in ogni sorta di corsa i suoi cavalli dall'alta cervice, sotto la città. Non avrà il coraggio di precipitarsi d'un balzo dentro, e non la distruggerà mai! Prima lo mangeranno i cani!»E a lui, guardandolo torvo, rispose Ettore dall'elmo lampeggiante «Polidamante, non mi piace la proposta che tu qui fai consigli di tornar a rinchiuderci nella città. Ma non siete ancora stanchi di starvene, stretti stretti, dentro le torri? Un tempo, sì, vedete, la città di Priamo gli uomini civili la chiamavano tutti "la città dell'oro e del bronzo". Ora invece sono spariti dalle case molti oggetti di valore, molti tesori vengono venduti e vanno a finire in Frigia o nell'amena Meonia e questo succede dal giorno che il grande Zeus si sdegnò con noi. E adesso poi, proprio quando il figlio di Crono m'ha concesso di acquistare gloria e. di cacciar in mare gli Achei, non fare più qui, o sciocco, proposte del genere in mezzo al popolo! Nessuno dei Troiani, puoi star sicuro, ti darà retta io, sappilo, non lo permetterò. Via, seguiamo tutti i miei ordini! Ora prendete il pasto per il campo schiera per schiera, e pensate alla guardia e vegliate a turno. E se qualcuno dei Troiani si angustia troppo all'idea di perdere i suoi beni, li metta allora insieme e li distribuisca ai nostri uomini, da consumare in comune! È meglio che ne goda uno di loro che non gli Achei! Poi domattina all'alba, armati da capo a piedi, ingaggeremo una feroce battaglia presso le navi. E se è vero che Achille è balzato su, ebbene tanto peggio per lui se così vuole! Io, per parte mia, non intendo fuggire davanti a lui fuori dal frastuono della battaglia, ma gli starò di fronte. Vedremo se è lui a riportare una grande vittoria, o se, come spero, sono io. Enialio è imparziale, e spesso uccide chi ha voglia di uccidere.» Così Ettore parlava e i Troiani levarono grida di consenso, quegli insensati! Pallade Atena, si vede, gli tolse il senno. Avevano approvato Ettore con i suoi infelici consigli, e nessuno lodò Polidamante che pur aveva una proposta buona. Presero poi per il campo il pasto della sera. E intanto gli Achei piangevano Patroclo tra sospiri e gemiti durante l'intera notte. E tra loro il Pelide intonava il suo alto lamento, posando le mani sterminatrici sul petto del compagno. Si rammaricava di continuo. Pareva un leone dalla ricca giubba, a cui il cacciatore di cervi porta via di nascosto i cuccioli dal folto della selva. Ed esso si cruccia d'essere arrivato troppo tardi, e percorre varie valli nella sua ricerca dietro le piste dell'uomo, se mai lo trovasse da qualche parte e una collera selvaggia lo prende. Così lui si lagnava cupamente in mezzo ai Mirmidoni. Diceva «Ahimè, era proprio vana, sì, la promessa che facevo quel giorno in cui rassicuravo l'eroe Menezio, laggiù nel suo palazzo. Gli dicevo che gli avrei ricondotto in Opunte il figlio glorioso, dopo la distruzione di Ilio, con la sua parte giusta di preda. Ma Zeus non rende realtà tutti i sogni e i disegni degli uomini. Ecco, è destino che noi due facciamo rossa di sangue la medesima terra, qua, a Troia. Oh, lo so bene neanche me accoglierà più di ritorno il vecchio Peleo condottiero di carri in guerra, là, in casa, e neppure la madre Tetide, ma mi terrà qui, sotto di sé, questa campagna. E ora, o Patroclo, poiché verrò sotterra subito dopo di te, non voglio celebrarti gli onori funebri, se prima non ti porto qua le armi e la testa di Ettore, il tuo superbo uccisore. E davanti al rogo taglierò il collo a dodici splendidi figli di Troiani, tanta è la rabbia che ho per la tua morte. E tu intanto, o caro, starai disteso, così come sei, accanto alle curve navi - e tutte intorno, donne troiane e dardane dalla cintura lenta sulle anche, ti piangeranno giorno e notte in lacrime sì, quelle che noi conquistammo in guerra, a viva forza, con la lunga lancia, distruggendo ricche città di uomini mortali.» Così diceva. E ai compagni ordinò, il divino Achille, di mettere sul fuoco una grossa caldaia voleva che subito gli lavassero via, a Patroclo, i grumi di sangue. Ed essi posero il recipiente per il bagno sul fuoco, e dentro vi versarono l'acqua prendevano legna e ve l'accendevano sotto. La fiamma avvolgeva la pancia della caldaia, si scaldava l'acqua. E quando prese a bollire entro il rame lustro, allora lo lavarono e unsero di olio abbondantemente, e gli riempirono le ferite di un grasso d'animale, già vecchio di nove anni. Lo posavano sul letto di morte e lo avvolgevano dalla testa ai piedi in una morbida tela di lino e sopra vi stesero un drappo bianco. Così allora per tutta la notte, intorno ad Achille, i Mirmidoni piangevano Patroclo tra sospiri e lamenti. Sull'Olimpo intanto Zeus diceva a Era, sua sorella e sposa «Ci sei riuscita, eh, alla fine, o Era, a far saltare in piedi Achille! Quasi quasi si direbbe che sono nati da te gli Achei dalle lunghe chiome!» E a lui rispondeva allora l'augusta Era dai grandi occhi bovini «Un prepotente tu sei, o Cronide! Che razza di discorso qui hai fatto? Ma guarda! Un uomo, sì, ci riesce a spuntarla con un altro uomo, e pur è mortale e non ha tutta la mia sagacia. E come! proprio io che mi proclamo superiore alle altre dee, sia per nascita e sia perché ti sono sposa e tu regni fra tutti gli immortali proprio io non dovevo, nel mio rancore contro i Troiani, tramargli dei guai?» Così essi parlavano tra loro. E intanto Tetide giungeva al palazzo di Efesto. Era una costruzione immune da rovina per sempre, di uno splendore di stelle si distingueva tra le altre dimore degli dei immortali, così ricoperta di bronzo. Se l'era fabbricata da sé, il dio dal piede storto. Allora si moveva grondante di sudore intorno ai mantici, tutto affaccendato. Voleva fare dei tripodi, venti in tutto, da mettere lungo la parete, in giro, della sala grande di Zeus, di solida struttura. Aveva applicato, di sotto, al fondo di ciascuno, delle ruote d'oro. Così da soli potevano recarsi in mezzo all'adunanza degli dei, e poi far ritorno di nuovo a casa una meraviglia a vedersi! Erano quasi finiti non vi erano stati messi ancora gli artistici manichi. In quel momento il dio li stava appunto adattando, e ribatteva i chiodi. Intanto che eseguiva queste operazioni con fine senso d'arte,- giunse a casa sua la dea Tetide dal piede d'argento. Usciva la Grazia con il suo nitido velo in testa e la vide. Bellissima era, l'aveva sposata il famoso Ambidestro. La prese premurosa per mano, le si rivolgeva e disse «Come mai sei venuta qui, a casa nostra, o Tetide, nel tuo lungo peplo? Ospite venerata e cara! Prima almeno non ci venivi spesso. Ma vieni avanti con me, voglio darti ospitalità!» Così lei parlava, la divina tra le dee, e la conduceva avanti. La fece poi sedere su di un seggio dalle borchie d'argento, elegante, lavorato con gusto e sotto, per i piedi, c'era uno sgabello. Andò quindi a chiamare Efesto, l'illustre artefice, e gli diceva «Efesto, vieni qua! C'è Tetide, sai, che ti cerca». E a lei rispondeva allora il famoso Ambidestro «Ah, sì! È in casa mia una dea riverita e rispettata! Fu lei a salvarmi nei giorni che il dolore mi colpì, quando caddi lontano per colpa di mia madre, quella cagna sfacciata. Intendeva nascondermi perché ero zoppo. E allora avrei patito e sofferto a lungo, se Eurinome e Tetide non mi accoglievano nella profondità marina anche Eurinome, sì, figlia di Oceano che rifluisce su se stesso. Da loro là, per nove anni, lavoravo molti gioielli fibbie, braccialetti tortili, orecchini a forma di calice d'un fiore, e collane, dentro la grotta profonda. E intorno la corrente dell'Oceano fluiva senza fine gorgogliando schiumosa. E nessun altro lo sapeva, né degli dei né degli uomini mortali, tranne Tetide ed Eurinome. Loro mi salvarono. E lei ora è venuta nella nostra casa! Ecco, devo proprio ricompensarla largamente, Tetide dalle belle chiome, per avermi ridato la vita. Su, falle ora una buona accoglienza, intanto che io metto via tutti gli arnesi!» Disse, e staccandosi dal banco dell'incudine si rizzò, il gigante vigoroso zoppicava. Di sotto, gli stinchi sottili si movevano in fretta. Posava i mantici in disparte, lontano dal fuoco riunì dentro una cassetta d'argento i suoi strumenti di lavoro. Con una spugna si lavava, tutt'intorno, il volto e le due braccia, il collo robusto e il petto villoso. Poi indossò una tunica, prese il suo grosso bastone, e s'incamminava fuori zoppicando. Premurose accorrevano attorno al loro padrone ancelle d'oro, simili a giovinette vive. Esse avevano intelligenza, voce e forza erano esperte nei lavori delle dee immortali. E allora si affaccendavano pronte ai cenni del loro signore. Lui, trascinandosi, andava a sedersi vicino a Tetide, su di un seggio luccicante. La prese per mano, le si rivolgeva e disse «Come mai, Tetide, sei giunta qui nella nostra casa, ospite venerata e cara? Prima d'ora, almeno, non ci venivi spesso. Di' quello che hai in mente! Sono disposto a farlo, se posso fare e se è cosa da farsi.» E a lui rispondeva allora Tetide in pianto «Efesto, dillo tu, chi fra le dee che sono sull'Olimpo ha patito tanti guai e dolori, quanti ne ha dati a me, fra tutte, Zeus Cronide? Me sola, tra le altre divinità marine, sottomise a un uomo sì, a Peleo figlio d'Eaco. Ed io ne dovetti subire l'amore con profonda ripugnanza. E lui ora, vedi, sta laggiù nel suo palazzo, sopraffatto da triste vecchiaia. Ma ben altre pene ho adesso. È vero Zeus mi concesse che avessi un figlio e lo crescessi, superiore a tutti gli altri eroi. Mi veniva su che sembrava un arboscello. E io l'ho allevato come una pianta sul poggio del vigneto, e lo spedii a Ilio con le navi ricurve a guerreggiare contro i Troiani. Ma non lo accoglierò più di ritorno in patria, nella reggia di Peleo. E intanto che mi è in vita e vede la luce del sole, è sempre tra crucci e sofferenze, e io non gli posso, accorrendo là, dar aiuto. Ecco, aveva una ragazza gliel'avevano scelta come premio, in segno d'onore, i figli degli Achei. E il sovrano Agamennone gliela strappò di mano. Naturalmente il mio figliolo si struggeva per lei, tutto addolorato. E intanto i Troiani sospingevano gli Achei alle poppe delle navi, e non gli lasciavano fare una sortita. E così l'andavano a scongiurare gli Anziani degli Argivi e gli offrivano molti splendidi doni. Ma lui allora là si rifiutava di salvarli da un disastro, e poi invece rivestì Patroclo delle sue proprie armi e lo spediva sul campo di battaglia, gli diede, dietro, un esercito numeroso. Un'intera giornata combattevano nei pressi della porta Scea e avrebbero, credimi, proprio quel giorno distrutto la città, se Apollo non l'avesse ucciso, il forte figlio di Menezio, durante le sue varie stragi, nelle prime file dandone a Ettore il vanto. Per questo sono qui ora, supplice ai tuoi ginocchi, a pregarti di voler dare al mio figliolo, di vita tanto breve, uno scudo e un elmo, schinieri belli da allacciare ai malleoli con fibbie, e una corazza. L'armatura, vedi, che aveva, gliel'ha persa il fedele compagno quando fu abbattuto dai Troiani. E ora lui è là disteso per terra, desolato.» Le rispondeva allora l'illustre Ambidestro «Animo, non darti pensiero di questo! Oh, avessi il potere di sottrarlo così alla morte dolorosa - via, lontano, il giorno che gli arriva addosso il destino inesorabile - come è certo che avrà la sua bella armatura! E gliela ammireranno di nuovo in molti, a vedergliela addosso.» Così parlava e la lasciò là si recava dai suoi mantici. Li rivolse in direzione del fuoco e gl'impose di lavorare. E i mantici, venti in tutto, soffiavano sui colatoi mandando fuori un fiato variabile, a mantenere la fiamma. Lo assistevano pronti quando aveva fretta e quando no, docili al volere di Efesto, via via che l'opera veniva compiuta. Gettava dentro i crogioli, sul fuoco, il duro bronzo e lo stagno, l'oro prezioso e l'argento. E poi subito collocò un grosso incudine sul ceppo prese con una mano un robusto martello, e con l'altra afferrò la tenaglia. Faceva dapprima uno scudo grande e massiccio e lo lavorava artisticamente in ogni sua parte e intorno vi metteva un orlo lucido, a tre lamine sovrapposte, tutto uno scintillio, e vi attaccava un balteo d'argento. Cinque erano gli strati di metallo dello scudo vero e proprio e sulla sua superficie incideva molte figure in rilievo con geniale inventiva. Vi raffigurò la terra, e poi il cielo, e poi il mare, e inoltre il sole infaticabile e la luna, e tutte le costellazioni come tante corone di cui si cinge il cielo e ancora le Pleiadi e le Iadi piovose e la forza di Orione e l'Orsa maggiore che chiamano anche col soprannome di Carro. Essa gira sempre lì, nello stesso punto, e spia il cacciatore Orione e la sola stella che non prende parte ai bagni nelle acque dell'Oceano. Vi rappresentò poi due città di uomini mortali, con una fine lavorazione. In una erano nozze e conviti festivi accompagnavano spose dall'appartamento della casa paterna, al chiarore di fiaccole accese, attraverso le abitazioni, da tempo si levava incessante il canto nuziale. E giovinetti si movevano in giro danzando, in mezzo ad essi risonavano i flauti e le cetre. Sulle porte stavano ritte le donne a guardare, piene di stupore, ognuna davanti a casa. In una piazza erano riuniti i cittadini là era sorta una questione. I due contendenti litigavano per via del risarcimento di un omicidio uno proclamava di aver pagata l'intera multa e diceva al popolo le sue ragioni, l'altro sosteneva di non aver ricevuto nulla. Erano decisi, entrambi, di risolvere la faccenda davanti a un giudice. I popolani vociando applaudivano ora l'uno ora l'altro, ne prendevano le parti, divisi in due gruppi. E allora gli araldi tenevano indietro la folla su sedili di pietra liscia stavano seduti gli Anziani entro il recinto sacro, e reggevano in mano lo scettro degli araldi dalla voce sonora. E con questo poi si alzavano in piedi, e dicevano a turno la loro sentenza. Stavano là per terra, in mezzo ad essi, due talenti d'oro, da dare a chi di loro esprimeva il parere più conforme alle norme tradizionali di giustizia. L'altra città invece l'assediavano due eserciti di soldati, luccicanti nelle loro armature. I pareri erano discordi distruggerla del tutto o spartirsi a metà l'intero bottino, tutti i beni cioè che racchiudeva dentro quella incantevole roccaforte. Ma gli assediati non cedevano ancora, e in segreto si armavano per una imboscata. Le mura della città le guardavano le care spose e i teneri figli, immobili lassù, e con loro gli uomini che la vecchiaia opprimeva. I guerrieri facevano una sortita li guidava Ares e insieme Pallade Atena. Erano, gli dei, tutt'e due d'oro, indossavano vesti d'oro, e belli e grandi erano con le loro armi, e quali divinità, si distinguevano lì, isolati gli altri combattenti erano un po' più piccoli di statura. E quando giunsero nel posto in cui si potevano mettere in agguato, e cioè al fiume dove era l'abbeverata per tutte le bestie, qui subito si appostavano, avvolti nel bronzo color del fuoco. A una certa distanza dagli uomini in armi si erano messe due sentinelle, in attesa di veder arrivare le greggi e i bovini dalle corna ricurve. Ben presto gli animali furono in vista, e insieme venivano due pastori, suonando contenti la loro zampogna non avevano sospettato l'insidia. A scorgere le bestie davanti a sé, gli corsero addosso i guerrieri, e in un lampo catturarono girando loro d'attorno le mandre dei buoi e le splendide greggi di bianche pecore, e uccisero sul posto i pastori. I nemici, quando sentirono tutto quel baccano dalla parte dei buoi, stavano seduti in assemblea e subito montarono sui carri e mossero all'attacco coi cavalli scalpitanti, e ben presto li raggiunsero. Ingaggiarono la battaglia, combattevano lungo le rive del fiume gli uni colpivano gli altri con le lance dalla punta di bronzo. E là si aggiravano Eris e Tumultus là, la dea della morte violenta ora ghermiva uno ancora vivo, appena ferito, ora uno ancora illeso, e trascinava per i piedi un. altro già morto dentro la furia della lotta. Aveva addosso un vestito tutto rosso del sangue degli uomini. E là si scontravano e combattevano come se fossero persone vive, e si strappavano a vicenda i cadaveri dei caduti. Vi rappresentava poi un maggese ladino, grasso terreno lavorativo era una vasta distesa, da rompere tre volte. E qui numerosi aratori facevano muovere le loro coppie di bestie in su e in giù, e le stimolavano. E ogni volta che giravano e giungevano al limite della piana, subito un uomo si accostava e gli metteva tra le mani una tazza di vino dolce come il miele e loro si allontanavano lungo i solchi, impazienti com'erano di arrivare all'estremità del maggese, rivoltato in profondo. E la terra nereggiava dietro ad essi, pareva proprio appena arata, se pur era scolpita nell'oro davvero una meraviglia! E vi figurava una tenuta reale là mietevano braccianti con le falci affilate in mano. Da una parte cadevano a terra fitti fitti i mannelli dentro la striscia di terreno aperta in un'altra invece, i legatori li stringevano in covoni con corde di paglia intrecciata. Erano in tre e stavano là, in piedi e dietro loro i ragazzetti raccoglievano i manipoli di spighe, li trasportavano a bracciate, e li porgevano senza mai fermarsi. C'era il re in mezzo ad essi, fermo, in silenzio, con lo scettro in mano, presso la striscia mietuta, tutto contento. Gli araldi, in disparte, preparavano sotto una quercia il banchetto avevano ucciso un grosso bue e vi si affaccendavano intorno. Le donne intanto impastavano con - latte un gran mucchio di farina d'orzo, bianca, per il pranzo dei braccianti. E vi rappresentava un vigneto tutto carico di grappoli, con una bella lavorazione in oro neri erano i grappoli dappertutto, la vigna si reggeva da un capo all'altro su pali d'argento. Vi aveva, all'intorno, tracciato un fosso di smalto turchino, e una siepe, in giro, di stagno. C'era, per recarsi nel vigneto, un unico sentiero, e di lì andavano e venivano i portatori ogni volta che vendemmiavano l'uva. Giovinette e ragazzi spensierati e allegri recavano, entro canestri intrecciati di vimini, i frutti dolci come miele e in mezzo ad essi un fanciullo suonava con grazia la cetra tintinnante, e intonava soavemente, accompagnandosi, una cantilena con voce delicata. E loro là battevano il suolo in cadenza col piede, e lo seguivano ballando fra canti e grida di gioia. E vi raffigurò una mandra di bovini dalle corna diritte erano lavorate, le mucche là, in oro e in stagno, e muggendo uscivano impazienti dalla stalla verso il pascolo, lungo un fiume frusciante, vicino a un mobile canneto. Pastori incisi in oro si movevano in fila insieme alle bestie in quattro erano, e li seguivano nove cani veloci. E due terribili leoni abbrancavano, tra le prime giovenche, un toro urlante ed esso veniva trascinato via tra lunghi mugghi. Accorrevano là i cani e i giovani robusti. Ma le due fiere laceravano la pelle del grosso bue, e inghiottivano avidamente i visceri e il nero sangue. Invano i pastori gli aizzavano contro, affannosamente, i celeri cani. Questi, a dir la verità, si guardavano bene dall'azzannare i leoni, ma da fermi guaivano forte e si scansavano. E vi effigiò, l'illustre Ambidestro, un esteso pascolo con pecore bianche dentro una valle ridente, e poi stalle e baracche con il tetto di canne, e staccionate. Poi vi lavorava con molto gusto, il famoso Ambidestro, un piazzale per le danze era simile a quello che un giorno, nella vasta Cnosso, Dedalo costruì con arte per Arianna dalle belle chiome. E qui danzavano giovinetti e fanciulle splendide, tenendosi a vicenda le mani per il polso. Portavano, le vergini, sottili vesti di lino i maschi indossavano chitoni ben tessuti, d'un tenue riluccicare di olio. E ancora esse avevano nastri graziosi attorno alla testa essi invece avevano pugnali d'oro, sospesi a baltei d'argento. E alle volte correvano con abili piedi in tondo, molto agilmente -come quando un vasaio stando seduto prova la ruota, se gira scorrevole entro il palmo della mano - e alle volte poi si mettevano su due file e avanzavano di corsa gli uni verso gli altri. Tutto intorno assisteva, al delizioso spettacolo, molta gente, e si divertivano. E tra loro cantava il divino aedo sonando la cetra due giocolieri iniziavano la danza, volteggiavano là in mezzo. E vi rappresentava la forza grande del fiume Oceano, proprio lungo l'orlo estremo dello scudo di solida fattura. E dopo che ebbe fabbricato lo scudo grosso e massiccio, fece per l'eroe una corazza più risplendente della vampa del fuoco, e poi gli fece un elmo pesante, ben aderente alle tempie. Bello era, di squisita lavorazione e sopra ci mise un cimiero con fiocchi d'oro. Gli fece poi gli schinieri adorni di duttile stagno. E quando ebbe finito, l'illustre Ambidestro, l'intera armatura, la levò da terra e venne a posarla davanti alla madre di Achille. E lei come uno sparviero balzò giù dall'Olimpo nevoso, portandosi via dalla casa di Efesto le armi luccicanti. § 

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