Così loro, i Troiani, facevano la guardia. E intanto gli Achei erano in preda a una folle smania di fuggire, quale si accompagna al gelo della paura. Tutti i più valorosi stavano là abbattuti, in una costernazione intollerabile. E come due venti sconvolgono il mare ricco di pesci, Borea ad esempio e Zefiro essi soffiano dalla Tracia arrivando all'improvviso, ed ecco l'onda si accavalla nera e rovescia fuori molta alga lungo la spiaggia agitato così era il cuore in petto agli Achei. L'Atride, con una grande angoscia dentro, girava qua e là a dar ordini agli araldi dalla voce sonora gli diceva di chiamare all'assemblea i guerrieri, uno ad uno, per nome, senza gridare però. E anche lui si dava da fare per primo. Sedevano in adunanza, avviliti. E allora si levò Agamennone piangeva. Sembrava una fonte profonda che giù dalla roccia scoscesa riversa acqua scura. Così lui, tra pesanti sospiri, parlava in mezzo agli Argivi «Amici, condottieri e capi degli Argivi! Zeus Cronide mi ha preso bene nei lacci di una grave sciagura, quel malvagio. Una volta mi promise e m'assicurò che avrei distrutto Ilio dalle belle mura e poi fatto ritorno ed ora invece mi ha tramato un brutto inganno, e mi costringe ad andarmene ad Argo senza gloria, dopo che ho fatto perire tanta gente. Così, a quanto pare, piace al potente Zeus, che già in passato disfece le rocche di molte città e ne abbatterà ancora la sua forza, lo sapete, è veramente grande. Via allora, seguiamo tutti i miei ordini! Tanto, vedete, non prenderemo più Troia dalle ampie strade.» Così diceva e tutti restarono muti, in silenzio. A lungo, senza parole, rimanevano là abbattuti, i figli degli Achei. Alla fine parlò Diomede, valente nel grido di guerra «Atride, sarò io il primo ad oppormi alla tua sconsideratezza, come ho diritto, o sovrano, in assemblea. E allora tu non arrabbiarti! Ecco, hai recato offesa, un giorno, per primo al mio valore in mezzo ai Danai dicevi che sono imbelle e vigliacco. Ma la verità gli Argivi qui la conoscono, giovani e vecchi. A te invece il figlio di Crono ha fatto i suoi doni a metà ti ha concesso, è vero, di essere onorato in virtù dello scettro al di sopra di tutti, ma il valore non te lo diede ed è il potere più grande. Disgraziato! Credi proprio, di', che i figli degli Achei siano così fiacchi e vili, come pare dalle tue chiacchiere? Se tu hai tanta voglia di far ritorno, va' pure! Hai via libera, accanto al mare stanno le navi che ti accompagnarono numerose da Micene. Ma rimarranno qui gli altri Achei, finché avremo saccheggiato Troia. Su, via, scappino anche loro con le navi verso la terra dei padri! Combatteremo noi due, io e Stenelo, sin al giorno che troviamo la conclusione finale per Ilio. Con il favore di un dio, lo sapete, siamo arrivati qua.» Così diceva e loro tutti acclamavano ad alte grida, i figli degli Achei, approvando il discorso di Diomede domatore di cavalli. E tra loro si levava a parlare Nestore, condottiero di cocchi «Tidide, molto gagliardo tu sei in battaglia, e sei il migliore in Consiglio fra tutti i tuoi coetanei. E nessuno, penso, qui tra gli Achei intende criticare il tuo discorso né contraddirti ma non sei venuto alla conclusione! È vero, sì, tu sei giovane, potresti essere anche mio figlio, l'ultimo per età eppure dici cose assennate ai principi degli Argivi. Hai proprio parlato giusto. Ma via, senti io sono più vecchio di te e voglio andar fino in fondo e dire tutto. E nessuno, spero, terrà in poca considerazione la mia proposta, nemmeno il sovrano Agamennone. Ecco, non ha legami con la sua fratria, è un incivile, senza un suo focolare, chi ama gli orrori della guerra intestina. Su, allora, cediamo per adesso alla notte scura, e prepariamo il pasto della sera! E intanto i singoli corpi di guardia si dispongano lungo la fossa profonda, fuori del muro. Questo è per i giovani il mio ordine. Quanto al resto poi, o Atride, prendi tu l'iniziativa tu sei, lo riconosciamo, il re supremo. Devi offrire un banchetto ai capi è un'occasione buona, non certo inopportuna. Le tue baracche sono piene di vino, te lo portano dalla Tracia le navi degli Achei ogni giorno, su per il vasto mare. E per accogliere ospiti hai tutto quello che ci vuole comandi su tanti! E in quella riunione di diverse persone tu puoi dar retta a chi suggerisce l'idea migliore. Ne hanno, sì un grande bisogno, tutti gli Achei, di un consiglio illuminato e avveduto. Vedi, i nemici sono qui, vicino alle navi tengono accesi numerosi fuochi. C'è da star allegri in una situazione simile? O questa notte distruggerà l'esercito o lo salverà.» Così parlava ed essi l'ascoltarono attenti ed ubbidirono. Le guardie allora balzavano fuori in armi uscivano al seguito del Nestoride Trasimede pastore di popoli, e poi di Ascalafo e di Ialmeno figli di Ares, e via via di Merione e di Afareo e di Deipiro, e infine del divino Licomede figliolo di Creonte. Sette erano i condottieri delle sentinelle e insieme a ognuno di loro marciavano cento giovani con le lunghe aste in pugno. Andarono a mettersi tra il fosso e il muro e là accesero il fuoco e si preparavano, ciascun drappello, la cena. L'Atride intanto menava tutti, in gruppo, i capi degli Achei nel suo alloggio, e imbandiva loro un gustoso pranzo. Ed essi stendevano le mani sui cibi pronti che avevano davanti. E dopo che ebbero cacciato via la voglia di mangiare e bere, tra loro per primo cominciava a esporre il suo pensiero il vecchio Nestore, il cui consiglio anche prima si era rivelato sempre il migliore. Davanti a loro, da persona saggia, prese la parola e disse «Atride glorioso, Agamennone signore di guerrieri, voglio prender l'avvio da te e concludere il mio discorso ancora con te. Sì, tu sei sovrano di tante genti, e a te Zeus mise tra le mani lo scettro e le norme sacre della tradizione. E così tu devi provvedere per loro qua. Ecco quindi che hai l'obbligo, più di tutti, di dire la tua e di prestar ascolto, e poi di eseguire la proposta anche di un altro, se hai inteso parlare per il bene comune. Dipenderà da te che abbia valore di legge. Dirò allora come, secondo me, sia meglio fare. E nessun altro, son convinto, può avere un'idea più valida di questa che ho in mente da tempo, e non solo oggi fin dal giorno cioè, o discendente di Zeus, che sei andato a portar via dalla baracca di Achille la giovane Briseide, nonostante la sua collera, e non certo con la nostra approvazione. A lungo, lo sai, io te ne sconsigliavo. Ma tu hai ceduto al tuo cuore orgoglioso, e hai offeso un prode e forte guerriero, che perfino gli immortali onorano. Gli hai preso, devi ammettere, il suo premio, e te lo tieni. Ma almeno adesso troviamo la maniera di placarlo e fargli cambiar parere, con doni di suo gradimento e parole persuasive!» E a lui rispose Agamennone, signore di guerrieri «O vecchio, hai esposto con schietta franchezza i miei errori. Sì, mi lasciai accecare e non lo nego. Adesso me n'accorgo vale ben più di una folla di combattenti l'eroe che Zeus prende ad amare di cuore, come fa ora con lui gli rende onore ed abbatte l'esercito degli Achei. Ma siccome mi son lasciato accecare ubbidendo a una ispirazione funesta, sono pronto qui a dar soddisfazione e a offrire regali a non finire. Ecco, davanti a voi tutti voglio qui enumerare gli splendidi doni. Sentite sette tripodi non toccati dal fuoco; dieci talenti d'oro; e poi venti bacili lustri di rame e dodici cavalli solidi e robusti, tagliati per le gare, che già riportarono premi nella corsa. Oh, vi assicuro, non può rimanere senza campi di grano e neanche restar sprovvisto di oro prezioso, chi avesse tutto quello che mi procurarono, con le loro vittorie, questi destrieri! Poi gli voglio dare sette donne, abili nell'eseguire lavori impeccabili di Lesbo sono. Le sceglievo per me, quando lui conquistò quella città con le sue belle costruzioni battevano per leggiadria tutte le altre. Sì, gliele darò e con loro ci sarà la figlia di Briseo, che gli ho tolto un giorno. E inoltre son pronto a giurare con un solenne giuramento che non sono mai salito sul suo letto e non mi sono unito con lei in amore, come è normale tra uomini e donne. Ecco, tutto questo egli l'avrà immediatamente. E ancora, se gli dei ci concedono di distruggere la grande città di Priamo, si presenti là a caricare la nave di oro e di bronzo fin che ne vuole, quando noi Achei ci spartiremo il bottino. E poi si scelga, per suo conto, venti donne troiane, quelle che saranno le più belle dopo Elena argiva. E infine, al nostro ritorno nella fertile terra dell'Argolide achea, può ben diventare mio genero. Lo onorerei al pari di Oreste, che ora mi vien allevato, in tenera età, tra tanti agi. Ho tre figlie, lo sapete, nella mia reggia di solida costruzione Crisotemi, Laodicea e Ifianassa. Ebbene, si meni via come sua, senza doni, quella che vuole, al palazzo di Peleo. Io, vedete, la colmerò di regali in abbondanza, come nessuno finora ne ha dati a sua figlia. Poi intendo dargli sette borghi popolosi Cardamile, Enope e Ire là in mezzo alle erbe; Fere la santa e Antea dai folti prati; la bella Epea e Pedaso ricca di vigneti. Sono tutte cittadine vicino al mare, confinano con Pilo la sabbiosa. Laggiù abitano uomini provvisti di molte pecore e molti buoi, che gli renderanno omaggio con le loro offerte come a un dio, e sotto il suo scettro pagheranno ricchi tributi. Ecco, questo son disposto a dargli, se rinunzia alla sua ira. Su, si lasci convincere! Ade solo, purtroppo lo sappiamo, è duro e irriducibile, e per questo appunto, per i mortali, è il più odioso di tutti gli dei. Via, si sottometta a me! Io sono un re più potente di lui, e poi sono anche più anziano.» Gli rispondeva allora Nestore il Gerenio, condottiero di cocchi «Atride glorioso, Agamennone signore di guerrieri, non c'è nulla da ridire sui doni che offri al principe Achille. Su, allora, inviamo subito degli ambasciatori, che vadano in fretta all'alloggio del Pelide Achille. Via, quelli che designo con un'occhiata, obbediscano pronti. Ecco, prima di tutti, Fenice caro a Zeus sia lui la guida! E subito dopo il grande Aiace e il divino Odisseo. E tra gli araldi vadano con loro Odio ed Euribate. E ora portate acqua per le mani e ordinate il silenzio! Così invocheremo con preghiere Zeus Cronide. Vediamo se ha pietà di noi!» Così egli parlava. E a tutti piacque la sua proposta. Subito gli araldi versarono l'acqua sulle mani i servi riempirono i crateri, fino all'orlo, di vino, e a tutti distribuirono in giro le coppe ricolme. E dopo che ebbero libato e bevuto a loro voglia, si avviavano fuori della baracca dell'Atride Agamennone. Dava molti consigli il Gerenio Nestore e faceva con gli occhi cenni d'intesa verso ognuno di loro, in particolare ad Odisseo cercassero in ogni maniera di convincere l'irreprensibile Pelide! Ed essi s'incamminarono lungo la riva del mare risonante, e pregavano vivamente lo Sposo della Terra, l'Ennosigeo, di riuscire a persuadere con facilità l'animo orgoglioso dell'Eacide. Giunsero così alle capanne e alle navi dei Mirmidoni. Lo trovarono, l'eroe, che suonava con gioia la cetra sonora. Bellissima era, lavorata con arte aveva la sua traversa in argento. Se l'era presa per sé tra il bottino di guerra, quando aveva distrutto la città di Eezione. Così là si divertiva cantava le imprese gloriose degli eroi. Solo, di fronte a lui, sedeva Patroclo in silenzio, aspettando che l'Eacide cessasse di cantare. Essi venivano innanzi era in testa il divino Odisseo. Si fermarono davanti a lui. Balzò su, per la sorpresa, Achille con la cetra in mano, lasciando il seggio su cui era seduto. Anche Patroclo si alzava al vederli. Porgeva loro, Achille, la mano in segno di saluto e disse «Salve! Oh, sì, la vostra venuta mi è gradita! Ci deve essere, certo, qualche urgente necessità, se siete qui voi, i più cari amici tra gli Achei, non ostante il mio risentimento.» Così diceva il divino Achille e li menava avanti poi li fece sedere su seggi ricoperti di tappeti purpurei. E subito diceva a Patroclo che gli stava vicino «Su, figlio di Menezio, sistema qui un cratere più grande, mescola vino puro con meno acqua e prepara una coppa per ciascuno. Sono veramente amici, sai, questi che si trovano sotto il mio tetto.» Così parlava e Patroclo ubbidiva al suo compagno. Allora lui, Achille, collocò un grosso tavolo al chiarore del focolare, e ci mise sopra un dorso di pecora e un altro di grassa capra, e poi una schiena di porco ben nutrito, tutta florida di lardo. Gli teneva fermo Automedonte lui tagliava, il divino Achille, la carne. La veniva troncando con abilità in pezzi e li infilava negli spiedi. Intanto il figlio di Menezio pari a un dio accendeva un grande fuoco. E quando questo finì di ardere e la fiamma si spense, Achille spianava la brace e vi posò sopra gli spiedi appoggiandoli agli alari, e spargeva il sale divino sulla carne. Terminava di arrostirla, e la rovesciò su piatti di legno. Patroclo allora prendeva il pane e lo distribuì sulla mensa, in leggiadri canestri di vimini le carni invece le spartì Achille. Sedeva l'eroe di fronte al divino Odisseo, accanto alla parete di fondo, e invitava Patroclo, il suo compagno, a sacrificare agli dei questi buttava sul fuoco le offerte. Ed essi stendevano le mani sui cibi pronti che avevano davanti. E dopo che ebbero cacciato via la voglia di mangiare e bere, ecco che Aiace fece cenno a Fenice. Ma se n'accorse Odisseo, si riempiva la coppa di vino e brindava ad Achille «Salute, o Achille! Non manchiamo davvero della nostra porzione giusta, così nell'alloggio dell'Atride Agamennone come pure qui, ora. Ecco, ci stanno davanti tante buone vivande! Non è però il pensiero di un banchetto delizioso che abbiamo per la testa, adesso ma noi ci vediamo, o discendente di Zeus, sotto gli occhi, con costernazione, una ben grave sciagura. Ed è incerto se salveremo o no le nostre navi, a meno che tu non ti rivesta del tuo valore. I Troiani arditi, sai, e i loro famosi alleati stanno a bivacco, là, vicino alla flotta e al muro, e tengono accesi tanti fuochi per il campo. E sono convinti di non fermarsi più, ma di riuscir a piombare sulle nere navi. Zeus Cronide poi, lampeggiando, gli manda presagi favorevoli. Ed Ettore, fiero e superbo della sua forza, imperversa spaventosamente confidando in Zeus e non ha più riguardi né per gli uomini né per gli dei, una rabbia brutale lo ha invaso. E si augura che appaia al più presto la divina Aurora e va minacciando, sai, di tagliar via dalle navi la sommità degli aplustri, di appiccar alla flotta il fuoco distruggitore e di massacrare gli Achei là accanto, nella confusione provocata dal fumo. Così ho una gran paura che gli dei avverino le sue minacce, e che per noi sia destino di perire qui, nella terra di Troia, lontano da Argo. Su, via, balza in piedi, se vuoi tirar in salvo, benché sia tardi, i figli degli Achei, fuori dal frastuono dell'assalto troiano; in difficoltà come sono. Anche tu ne avrai dolore un domani, ma non ci sarà modo di trovar un rimedio, dopo la completa disfatta. Pensa allora adesso a stornare dai Danai il giorno della sventura. O caro, sì, anche tuo padre Peleo, ricordi, ti faceva delle raccomandazioni, quel giorno che da Ftia ti mandava in aiuto di Agamennone. Diceva "Figlio mio, la vittoria in campo te la daranno Atena ed Era, se vogliono ma tu devi tener a freno il tuo orgoglio. La buona amicizia, credimi, vale di più. Desisti da ogni contesa, non procura che guai. Così gli Argivi ti onoreranno maggiormente, sia i giovani che gli Anziani." Questo ti raccomandava il vecchio, e tu te ne scordi. Via, sei in tempo ancora cessa dall'ira, lascia andare la collera che ti tormenta! Ecco, Agamennone ti offre dei doni di valore, se rinunzi ad ogni risentimento. Su, ascoltami, te li voglio enumerare tutti, i regali che Agamennone ti ha promesso là nella sua baracca. Senti sette tripodi non toccati dalla fiamma; dieci talenti d'oro; e poi venti bacili lustri di rame e dodici cavalli solidi e robusti, tagliati per le gare, che già riportarono premi nella corsa. Oh, non può rimanere, te l'assicuro, senza campi di grano e neanche restar sprovvisto di oro prezioso, chi avesse tutto quello che guadagnarono i corsieri di Agamennone con agili piedi. Poi ti vuol dare sette donne, brave nell'eseguire lavori impeccabili. Di Lesbo sono le sceglieva per sé, quando tu conquistasti quella città ben costruita. Superavano in bellezza tutte le altre. Sì, te le darà e con loro ci sarà la figliola di Briseo, che ti ha tolto un giorno. E inoltre è pronto a giurare, con solenne giuramento, che non è mai salito sul suo letto e non si è unito con lei in amore, come è normale, o sovrano, tra uomini e donne. Ecco, tutto questo l'avrai, dice, immediatamente. E ancora, se gli dei ci concedono di distruggere la grande città di Priamo, presentati pure là a caricare la nave di oro e di bronzo fin che ne vuoi, quando noi Achei procederemo alla spartizione del bottino di guerra. E poi scegli per tuo conto venti donne troiane, le più leggiadre che ci siano dopo Elena argiva. E infine al nostro rientro nella fertile terra di Argo achea, puoi ben diventare, come lui si augura, suo genero. Ti terrebbe in palmo di mano al pari di Oreste, che ora, sai, gli viene allevato, in tenera età, tra tanti agi. Egli ha, vedi, tre figlie nella sua solida reggia e sono Crisotemi, Laodicea e Ifianassa. Ebbene, puoi menarti via come tua, senza offrire doni nuziali, quella che vuoi, al palazzo di Peleo. Lui, capisci, la colmerà di regali a non finire, come nessuno finora ne ha mai dati a una sua figlia. Poi intende darti sette città popolose Cardamile, Enope, e Ire là in mezzo alle erbe; Fere la santa e Antea dai folti prati; la bella Epea e Pedaso ricca di vigneti. Sono tutte, sai, vicino al mare, confinano con Pilo la sabbiosa. Laggiù, lui assicura, abitano uomini provvisti di molte pecore e molti buoi, che ti recheranno omaggio con le loro offerte come a un dio, e sotto il tuo scettro verseranno ricchi tributi. Ecco, tutto questo è disposto a darti, se rinunzi alla tua ira. Se però l'Atride ti riesce odioso ancora di più, lui e i suoi doni, abbi almeno pietà di tutti gli Achei, nei guai come sono nel campo. Ed essi ti onoreranno come un dio. Sì, son sicuro, acquisterai ai loro occhi una grande gloria. Ora, credimi, puoi uccidere Ettore, quando ti viene sotto con la sua rabbia di sterminio. Sai, dice che uguale a lui non c'è nessuno tra i Danai portati qui dalle navi.» E a lui rispondeva Achille dai rapidi piedi «Figlio di Laerte, discendente di Zeus, Odisseo versatile e scaltro, bisogna proprio che esponga la cosa senza riguardi di sorta, come la penso io e come si avvererà senz'altro. Così voi non starete a insistere qui con le vostre chiacchiere minute, chi da una parte e chi dall'altra. Sappiatelo odioso mi è come le porte di Ade chi tiene dentro di sé una cosa e ne dice un'altra. Io invece intendo parlar chiaro ed è, secondo me, molto meglio. Ebbene, non penso che l'Atride Agamennone riuscirà a convincermi, e neanche gli altri Danai. Ne ho già fatta esperienza non c'è proprio gusto a battagliare coi nemici senza tregua, sempre. Già è uguale la parte del bottino per chi sta lontano dal campo e per chi combatte da forte ha lo stesso onore, ripeto, il vile e il prode. E alla fine, vedete, si muore tanto a rimaner inerti che ad adoprarsi molto. E poi non ho nulla in mano, dopo fatiche e pene e di continuo arrischio la mia vita in guerra. Capita, vedete, come quando un uccello porge l'imbeccata ai suoi piccoli implumi non appena la trova, e intanto esso stenta e patisce così anch'io ho passato tante notti insonni, ho trascorso giornate di sangue, sul campo, a guerreggiare coi nemici, per prendere le loro donne. Sì, dodici città popolose ho saccheggiato con le mie navi e per terra, lo dico chiaro, ben undici, qui nella fertile regione di Troia. E in ognuna conquistai tanti oggetti preziosi e di valore, e tutti glieli portavo in dono all'Atride Agamennone. E lui stava indietro, presso alle navi, e prendeva ne distribuiva un po', ma sì teneva il molto. E poi, il resto, lo assegnava come premio ai nobili e ai principi. E così loro se li conservano intatti a me invece, solo tra gli Achei, ha tolto la cara moglie e se la tiene. E ci dorma con lei, e se la goda! Ma per che cosa, dite, vanno battendosi gli Argivi? per che cosa ha menato qui, l'Atride, per mare un esercito di soldati? Non è stato per Elena argiva dalle belle chiome? O sono i soli Atridi, mi domando, tra gli uomini mortali, ad amare le loro spose? Ma ogni uomo, si sa, di cuore e di buon senso, ama la sua donna e se la tien cara. E così anch'io le volevo bene, con tutta l'anima, anche se era una prigioniera di guerra. E ora che lui mi ha strappato il mio premio d'onore e m'ha fatto questo tiro, non ci si provi più con me! Ormai lo conosco. Non ci riuscirà. Ma ci pensi lui, o Odisseo, insieme con te e gli altri principi ad allontanare dalle navi il fuoco distruttore. Sì, davvero, non lo nego, ha lavorato tanto senza di me ha già costruito un muro e vi ha scavato accanto una fossa bella larga, grande, e ci ha piantato dentro dei solidi pali! Ma nemmeno così riesce a trattenere l'irruenza di Ettore sterminatore di guerrieri! Quando invece c'ero io a lottare insieme agli Achei, non aveva il coraggio, Ettore, di spingersi in battaglia lontano dalle mura, ma arrivava fino al faggio della porta Scea. E là una volta mi attendeva. Ero da solo a stento riuscì a sfuggire al mio assalto. Oggi invece, vedete, non sono disposto a scontrarmi con Ettore! E domani voglio fare sacrifici a Zeus e a tutti gli dei, e poi tirar in mare le mie navi e far il carico per bene. E così le vedrai, se hai voglia e se la cosa ti interessa, solcare di buon mattino l'Ellesponto, le mie navi, con gli uomini dentro a vogar di buona lena. E se il glorioso Ennosigeo mi concede una felice navigazione, potrei giungere a Ftia in tre giorni. Là ho moltissimi beni, e li ho dovuti lasciare venendo qui per mia disgrazia. E via di qua porterò altro oro e altro rosso bronzo, e donne dalle belle cinture e grigio ferro tutta roba che ebbi in sorte. E quanto al premio d'onore, lui me l'ha dato e lui me l'ha tolto, il sovrano Agamennone figlio di Atreo. E allora a lui là dite tutto apertamente, come v'impongo così s'indigneranno anche gli altri Achei, se ha in animo ancora di giocare qualcuno dei Danai, vestito di spudoratezza com'è sempre. Ma almeno me, quel cane, non oserà guardarmi in faccia. No, non l'aiuterò né con consigli né tanto meno con le mie braccia. Mi ha già imbrogliato e offeso, vedete, una volta. E una seconda non m'ingannerà con le sue ciarle. Ne ho già abbastanza di lui! Che vada alla malora, se gli piace! Il provvido Zeus, è chiaro, gli ha tolto il senno. Sì, mi sono odiosi i suoi regali, e non li stimo un bel niente. E se anche mi offrisse dieci o venti volte tanto di quello che ora possiede, e altro ancora che gli può venire da via e poi tutte le merci che affluiscono in Orcomeno, e poi ancora quelle di Tebe d'Egitto, dove sono moltissime le ricchezze nelle case - ci sono là, lo sapete, cento porte, e da ciascuna escono in campo duecento guerrieri con carri e cavalli - no, neanche se mi desse tanti tesori quanti sono i grani di sabbia e di polvere, no, neppure così Agamennone rabbonirebbe il mio cuore! Prima deve scontare intera la dolorosa offesa che mi ha fatto. E quanto a sua figlia poi, non la sposerò, nemmeno se gareggiasse per bellezza con l'aurea Afrodite, e nei lavori da donna fosse pari ad Atena dagli occhi lucenti. No, neanche così la sposerò! Se ne scelga un altro, lui, tra gli Achei, che sia del suo rango e un re più grande di me. Se gli dei, vedete, mi lasciano in vita e io torno a casa, ci penserà Peleo allora a procurarmi una moglie. Ci sono tante Achee in Ellade e a Ftia, figlie di principi che difendono e governano le proprie città. Fra loro mi prenderò la mia sposa, quella che mi piace. Là tante volte ho avuto voglia di sposare una donna adatta al mio grado, e di godermi i beni che mi procacciò il vecchio Peleo. Non c'è nulla, credete, per me, che valga come la vita neppure tutti i tesori che possedeva, come è fama, Ilio nel passato, in tempo di pace, prima che arrivassero i figli degli Achei e neanche quelli che racchiude la soglia di pietra del dio arciere, di Febo Apollo sì, là nella Pito rocciosa. Già lo sapete anche voi ci si procura, con una razzia, buoi e grasse pecore, si possono acquistare tripodi e cavalli di bionda criniera, ma la vita di un uomo non ritorna più indietro, non si può riavere né come preda né per acquisto, una volta varcata la chiostra dei denti. Mia madre, vedete, la dea Tetide dal piede d'argento, me lo dice ci sono due destini che mi portano verso la morte. Se io resto qui a combattere intorno alla città dei Troiani, ecco, è perduto per me il ritorno, ma avrò gloria immortale. Se invece vado a casa, nella cara terra dei padri, è perduta per me la grande fama, ma avrò vita lunga, e la morte non può raggiungermi tanto presto. Sì, anche a voi altri qui, ecco, io vorrei consigliare di salpar verso la patria tanto non ce la farete a veder la fine dell'alta Ilio. Ormai è certo Zeus tiene la sua mano su di essa, e i suoi guerrieri hanno ripreso coraggio. Su, voi andate a comunicare ai capi degli Achei il mio messaggio tale è, in fin dei conti, la prerogativa degli Anziani. Così potranno trovare qualche espediente migliore che salvi la flotta e l'esercito degli Achei, là accanto alle navi. Questa loro trovata di oggi, vedete, non approda a nulla io persisto nella mia ira. Fenice qui può restare a dormire da me. E domani mi potrà accompagnare in patria su una nave, se ne ha voglia. Io non intendo menarlo via per forza.» Così diceva. E tutti restarono muti, in silenzio, per la sorpresa di quel linguaggio aveva parlato con molta durezza. Solo più tardi prendeva la parola il vecchio Fenice, condottiero di carri in guerra scoppiava in lacrime, tanta paura aveva per le navi degli Achei. Diceva «Se pensi davvero al ritorno, o Achille, e non intendi assolutamente tener lontano il fuoco distruttore dalla flotta, tanta è la collera che t'invade, come potrò allora senza te, figliolo caro, rimanere qui da solo? Per te, lo sai, mi faceva partire il vecchio Peleo, quel giorno che da Ftia ti mandava in aiuto di Agamennone. Eri un ragazzo, non conoscevi ancora la battaglia che non perdona, e neppure le assemblee dove si fanno notare i guerrieri. Per questo lui mi ha mandato. Dovevo insegnarti tutto qui, a esser buon parlatore e un prode in campo. Così, credi, figlio mio, non me la sento di restare qua lontano da te, neppure se un dio mi promettesse di raschiarmi via d'addosso la vecchiaia e rendermi un giovane fiorente, com'ero quando lasciai Ellade dalle belle donne. Fuggivo, vedi, allora, le ire di mio padre, Amintore figlio di Ormeno. Si era arrabbiato con me per via della sua amante dalle belle chiome, di cui era innamorato, e trascurava così sua moglie mia madre, sì. E lei di continuo mi supplicava, prendendomi le ginocchia, di unirmi in amore con la concubina così questa prendeva in antipatia il vecchio. Le diedi retta e passai ai fatti. Ma mio padre se n'accorse subito, e mi malediva a lungo. Invocò le odiose Erinni si augurava che mai avesse a sedere sulle sue ginocchia un figlio nato da me. E gli dei, sai, avverarono le imprecazioni sì, Zeus sotterraneo e la tremenda Persefone. Allora io meditai di ammazzarlo con un'aguzza arma di bronzo ma qualche dio frenò la mia rabbia, e mi pose in cuore il pensiero delle chiacchiere della gente e della riprovazione generale. E così non divenni patricida in mezzo agli Achei. Allora non mi rassegnai più a girare per la casa di un padre in collera. È vero a lungo parenti e cugini, standomi intorno, cercavano con preghiere di trattenermi là nel palazzo. E uccidevano tante grasse pecore e tanti buoi lenti, dalle corna ricurve e tanti porci prosperosi e pingui erano distesi ad abbrustolire alla fiamma di Efesto. E molto vino veniva bevuto, lo si prendeva dai vasi di terracotta del vecchio. Così per nove notti stavano a vegliare intorno a me. E si davano là il cambio a farmi la guardia, e non si spense mai il fuoco. Ce n'era uno sotto il portico della corte ben chiusa, e un altro nell'atrio, davanti alla porta della stanza. Ma quando venne la decima notte col buio, infransi la solida struttura della porta e fuggii dalla stanza. Scavalcai la cinta del cortile con facilità, senza farmi vedere dai guardiani né dalle ancelle. E poi scappai lontano, attraverso la regione di Ellade dalle ampie piazze, e arrivai alla fertile Ftia madre di greggi, dal sovrano Peleo. E lui mi accolse volentieri e mi trattò con bontà, come un padre tratta amorosamente il suo unico figlio, nato tardi, in mezzo a molte ricchezze. E mi rese ricco, mi affidò molta gente da governare. Abitavo ai confini di Ftia, ed ero signore dei Dolopi. E ti ho fatto così come sei ora, o Achille simile agli dei, amandoti di cuore. Ricordi? Tu non volevi, con altri, recarti ai pranzi fuori, e neanche in casa mangiavi. Ti dovevo prendere sulle mie ginocchia, tagliarti le vivande cotte, saziarti e porgerti il vino. E ben più di una volta mi hai bagnato la tunica qui sul petto, sbruffandomi di vino nei tuoi capricci d'infanzia. Così per te ho penato e patito tanto, al pensiero che gli dei non mi concedevano un figlio, proprio mio. E invece, ecco, di te, o Achille, venivo facendo il mio figliolo così un giorno mi avresti tenuto lontano oltraggi e guai. Su, Achille, domina il tuo grande cuore! Non devi essere così irriducibile. Si lasciano piegare, sai, perfino gli dei e pure hanno più potenza, onore e forza. E riescono, gli uomini, a placarli con aromi da bruciare e dolci preghiere, con libagioni e fumo di carne arrostita, quando li vengono supplicando dopo qualche trasgressione o errore. Ed esistono, credimi, le Litè imploranti, figlie del grande Zeus sono zoppe, grinzose, hanno occhi storti, ed eccole, si affannano a correre dietro ad Ate. Lei invece, Ate, è gagliarda, ha piedi vigorosi e così corre avanti a loro tutte, di un bel tratto, e se ne va per il mondo a far del male alla gente. Esse poi rimediano, dopo. E chi rispetta le figlie di Zeus al loro avvicinarsi, queste gli fanno del gran bene, e ne ascoltano le preghiere. Ma se uno le disdegna e le respinge duramente, allora esse vanno a supplicare Zeus Cronide di mandar Ate sui passi di lui, perché abbia ad espiare con suo danno. Via, Achille, rendi anche tu, alle figlie di Zeus, il dovuto onore, come già si è piegato il volere di altri prodi. Ascolta se l'Atride non ti portasse doni e non facesse cenno a quelli che avrai un domani, ma continuasse a covare il suo sdegno e risentimento allora io, credi, non ti direi di lasciar perdere la tua ira e di correre in aiuto degli Argivi, per quanto in gravi difficoltà. Ora invece, vedi, ti dà già molto subito e si prende impegno per dopo e ti invia qui a supplicarti i più valorosi guerrieri scegliendoli fra tutto l'esercito acheo, e che sono anche per te i più cari degli Argivi. E tu non respingere le loro parole, non rendere vani i loro passi. Non ti si può disapprovare, se eri in collera, prima. Così era anche degli antichi eroi - ne abbiamo sentito contare le gesta - quando, qualcuno, una rabbia violenta lo invadeva restavano sensibili ai doni, si lasciavano rabbonire dalle preghiere. Ecco, ricordo un fatto di altri tempi, non certo di ieri, proprio come avvenne e ve lo voglio narrare, a tutti, o amici. Una volta i Cureti e gli intrepidi Etoli battagliavano intorno alla città di Calidone e si uccidevano a vicenda gli Etoli a difesa dell'incantevole Calidone, e i Cureti con la smania di abbatterla in guerra. Era stata Artemide, sapete, a mandar loro un flagello, indignata perché Eneo non le aveva offerto le primizie sulla pendice del vigneto. Gli altri dei invece avevano il loro solenne sacrificio a lei sola, figlia del grande Zeus, il re degli Etoli non aveva immolato niente. O si dimenticò o non ci pensò fu preso da un grave accecamento. E lei, infuriata, la Saettatrice, gli inviò un mostro era un cinghiale selvatico, gagliardo, dalle candide zanne, e faceva di continuo tanti danni nella vigna di Eneo. Aveva così divelto e buttato a terra grosse piante, con tutte le radici e la loro bella fiorita di frutti. Ma il figlio di Eneo, Meleagro, l'ammazzò aveva radunato da molte città cacciatori e cani. Non fu certo abbattuta, credete, quella bestia, da pochi uomini tanto grossa era, ne aveva spediti parecchi sulla triste pira. Allora la dea fece sorgere tra i Cureti e i magnanimi Etoli un grande tumulto e grida di guerra, per il possesso della testa del cinghiale e della sua pelle setolosa. Ebbene, finché combatteva Meleagro caro ad Ares, per i Cureti andava male, e non ce la facevano a restare fuori delle loro mura; sebbene fossero in tanti. Ma un giorno Meleagro, ecco, l'invase la collera anche ad altri, vedete, essa sconvolge la mente, pur se sono assennati. Sì, era irritato con sua madre Altea e se ne stava là inerte, accanto alla legittima sposa, la bella Cleopatra. Era, costei, la figlia di Marpessa d'Eveno dalle belle caviglie, e di Ida. E questi fu il più gagliardo degli uomini sulla terra ai suoi tempi e giunse fino ad impugnare il suo arco contro il sovrano Febo Apollo, per amore della sua sposa. Lei, Cleopatra, allora, il padre e la madre in casa la chiamavano, per soprannome, Alcione ma era, bisogna chiarire, sua madre che aveva avuto la sorte dell'alcione lamentosa, e non faceva che piangere, quando l'aveva portata via Febo Apollo arciere. Orbene, vicino a Cleopatra lui, Meleagro, se ne stava coricato, covando una rabbia tormentosa era indispettito per le maledizioni della madre. A lungo essa imprecava nel suo dolore per l'uccisione del fratello, a lungo batteva con le mani la fertile terra invocando Ade e la tremenda Persefone - rannicchiata là sulle ginocchia, le si bagnavano di lacrime i veli. Voleva che dessero la morte al figlio. E l'Erinni che si aggira tra le tenebre, l'ascoltò dall'Erebo, con il suo cuore impietoso. E immediatamente intorno alle porte della città si levava tumulto e strepito, venivano colpite le torri. E allora gli Anziani degli Etoli lo supplicavano, mandando i migliori sacerdoti degli dei, di saltar fuori e di soccorrerli, gli promettevano un grande dono. Ecco, dove era la piana più grassa di Calidone, là lo autorizzavano a scegliersi un tratto bellissimo del terreno in comune, una cinquantina di iugeri, metà piantati a vigna e metà da coltivare, senza piante. A lungo poi lo scongiurava il vecchio Eneo condottiero di cocchi, stando sulla soglia della stanza di lui, dall'alto soffitto scuoteva i solidi battenti della porta, implorava il figlio. E a lungo lo pregavano le sorelle e l'augusta madre lui insisteva ancor più nel suo rifiuto. E vivamente glielo chiedevano i compagni d'armi, che gli erano i più vicini e cari fra tutti. Ma neppure così persuasero il suo cuore. Finché anche la sua camera fu sotto i colpi violenti erano loro, i Cureti, che scalavano le mura e incendiavano la grande città. E allora fu sua moglie dalla bella cintura a supplicare Meleagro, in lacrime. E gli enumerava tutte le disgrazie che capitano alla, popolazione, quando la città viene presa uccidono gli uomini, il fuoco riduce in cenere le costruzioni, stranieri menano via i figli e le mogli dalla cintura lenta sulle anche. E gli si commosse il cuore nel sentire quegli orrori, e partì indossava armi luccicanti. Così lui allontanò dagli Etoli il giorno della rovina, cedendo all'impulso del suo animo. Ma non lo ricompensarono più con doni numerosi e di valore, aveva stornato la sciagura anche senza. Tu però, ascoltami, non pensarla così! Non ti spinga un dio su questa strada, o caro! Sarà, credi, ben peggio correre in difesa di navi in fiamme. Via, accetta i regali e va'! Vedrai, ti onoreranno gli Achei al pari di un dio. Se invece non prendi i doni e ti butterai un giorno nella battaglia tra le stragi, non avrai più uguale onore, pur respingendo l'assalto.» E a lui rispondeva Achille dai rapidi piedi «Fenice, mio vecchio buon pa', non ho proprio bisogno, sai, di un tale onore. Io ho già la mia gloria, penso, per volontà di Zeus. E l'otterrò qui accanto alle navi, finché ho fiato in petto e si muovono le mie ginocchia. E un'altra cosa ti voglio dire e tu mettitela bene in mente! Non mi turbare il cuore con lamenti e sospiri, per far piacere all'Atride. No, tu non devi volergli bene, se non vuoi divenirmi odioso, pur con tutto il mio affetto. Il tuo dovere è stare con me e far del male a chi mi fa del male. Hai da essere sovrano alla pari con me, e dividere a metà la mia dignità regale. Ecco, loro qui possono portare il messaggio ma tu resta qua a dormire in un letto morbido. E domani, con l'apparire dell'aurora, decideremo se far ritorno alle nostre case o rimanere.» Disse, e a Patroclo fece cenno in silenzio, con il capo e le sopracciglia, di preparare per Fenice un solido letto non vedeva l'ora che se ne andassero via al più presto dalla baracca. Ma ecco che Aiace Telamonio pari a un dio si mise là a dire «Odisseo, andiamocene! Lo vedi anche tu quanto ci proponevamo con le nostre parole, non sarà conseguito, penso, per questa via. E dobbiamo poi riferire la risposta ai Danai anche se non è buona. Loro certo stanno là ad aspettarci. Ecco, Achille si è fatto irriducibile nella sua ira, il testardo! Non cambia idea in nome dell'amicizia dei compagni d'armi, di noi che lo onoravamo, accanto alle navi, al di sopra di tutti gli altri. È senza pietà! E sì che si accetta, di solito, un indennizzo per l'uccisione di un fratello o di un proprio figliolo caduto in battaglia! E uno rimane là nel suo paese dopo aver pagato abbondantemente, l'altro si placa a ricevere l'ammenda. Ma a te gli dei hanno messo in cuore una rabbia ostinata e perversa e tutto per amore di una ragazza, una sola, sì! Quando oggi te ne offriamo sette bellissime senza confronto, e oltre a quelle tanti altri doni. Su, fatti una buona volta remissivo, abbi riguardo della tua casa! Siamo qui sotto il tuo tetto, a nome di una massa di Danai, e vogliamo più di tutti gli altri esserti amici e cari tra gli Achei.» E a lui rispondeva Achille dai rapidi piedi «Aiace Telamonio, discendente di Zeus, signore di popoli, hai parlato, vedo, con aperta franchezza. Ma a me si gonfia il cuore dalla collera, quando mi ricordo come mi trattò là, villanamente, in mezzo agli Argivi, l'Atride, quasi fossi un vagabondo qualunque senza dignità. Su, voi ora andate e riferite il mio messaggio! Non penserò, vi dico, alla guerra sanguinosa, prima che il grande Ettore figlio di Priamo non sia giunto alle capanne e alle navi dei Mirmidoni, tra la strage degli Argivi e l'incendio della flotta. Ma nei pressi del mio alloggio e della mia nave si arresterà, Ettore, sono certo, pur nella sua frenesia di battagliare.» Così diceva. E loro là prendevano in mano, ciascuno, una coppa a due manichi e facevano una libagione. Poi ritornavano lungo le navi andava avanti Odisseo. Patroclo allora diede ordine ai compagni e alle ancelle di preparare alla svelta, per Fenice, un solido letto. Ed esse ubbidivano e stendevano il letto, come aveva comandato pelli lanose di pecora, una coperta colorata e un panno sottile di lino. Là il vecchio si coricò e attendeva l'aurora divina. Achille invece riposava nella parte più interna della salda baracca e accanto a lui si pose a giacere una donna che aveva menato via da Lesbo. Era la figliola di Forbante, Diomeda dalle belle guance. Patroclo andò a dormire dall'altro lato e al suo fianco si metteva Ifide dalla bella cintura. Gliel'aveva data Achille, dopo la conquista dell'alta Sciro, la roccaforte di Enieo. Gli altri là intanto, appena furono dentro l'alloggio dell'Atride, ecco che li salutavano, i figli degli Achei, con le coppe d'oro levandosi in piedi da una parte e dall'altra, e chiedevano notizie. E il primo a far domande era Agamennone signore di guerrieri «Su, dimmi, o molto lodato Odisseo, grande vanto degli Achei! È disposto ad allontanare dalle navi il fuoco divoratore? o si rifiuta, e la collera domina ancora il suo animo?» E a lui allora rispose il paziente divino Odisseo «Atride glorioso, Agamennone signore di guerrieri, lui là non vuole smorzare la sua ira, anzi si riempie di rabbia sempre più, e respinge te e i tuoi doni. Ci devi pensare tu, ha detto, tra gli Argivi, a salvare la flotta e l'esercito degli Achei. E ha minacciato di tirar in mare, domani all'alba, le sue navi. E pure agli altri, son sue parole, consiglia di salpar verso la patria "tanto non ce la farete a veder la fine dell'alta Ilio. Ormai è certo Zeus tiene la su a mano su di essa e i suoi guerrieri hanno ripreso coraggio". Proprio così diceva. E lo possono testimoniare anche loro qui, che mi accompagnarono, Aiace e i due araldi, entrambi assennati. Il vecchio Fenice poi è rimasto là a dormire fu lui, sai, a invitarlo. Così lo potrà seguire in patria su una nave, domani, se ha voglia. Non intende menarlo via per forza.» Così diceva. E tutti restarono muti, in silenzio, per la sorpresa di quel linguaggio aveva parlato con energica franchezza. A lungo, senza parole, rimanevano là abbattuti, i figli degli Achei. Alla fine parlò Diomede, valente nel grido di guerra «O glorioso Atride, Agamennone signore di uomini, no, non lo dovevi pregare, il Pelide, offrendogli tanti doni. È già così orgoglioso per suo conto. Ora poi lo hai spinto ancora di più all'alterigia. Ma lasciamolo stare, lui, sia che vada sia che resti! Combatterà quando ne ha voglia, o lo fa balzar su un dio. Via allora, seguiamo tutti i miei ordini! Adesso andate a dormire, ben sazi come siete di pane e di vino ché qui sta, lo sapete, la forza e il vigore. E non appena appare la bella Aurora, tu devi, o Agamennone, disporre in fretta davanti alle navi i soldati a piedi e quelli coi carri, e incitarli alla lotta. E anche tu combatti in prima linea!» Così parlava e i principi approvavano tutti quanti, ammirando il discorso di Diomede domatore di cavalli. E allora facevano una libagione e se ne andarono, ciascuno alla propria baracca. E là si mettevano a dormire e si presero il dono del sonno. §