Libro X

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Così, allora, tutti gli altri principi degli Achei, accanto alle navi, dormivano la notte intera, vinti da un molle sopore. Ma l'Atride Agamennone, pastore di popoli, non lo teneva in suo potere il dolce sonno. Aveva tanti pensieri. E come quando il marito di Era dalle belle chiome lampeggia in cielo e va preparando un rovescio di pioggia senza fine - o grandine, o una nevicata nei giorni che le campagne si coprono di bianco - oppure anche da qualche parte la guerra dolorosa con la sua grande bocca spalancata proprio così sospirava Agamennone di frequente dal profondo del cuore, e gli tremavano, dentro, le viscere. Ecco, ogni volta che guardava in direzione della pianura troiana, si stupiva dei molti fuochi che ardevano davanti a Ilio, e dello strepito dei flauti e delle zampogne, e del vociare degli uomini. Poi, quando girava gli occhi verso le navi e l'esercito degli Achei, si strappava di testa i capelli a ciocche, fin dalle radici, rivolgendosi a Zeus là in alto, e gemeva forte. Alla fine, questa gli parve l'idea migliore andare da Nestore il Nelide, prima che da ogni altro, e vedere insieme a lui di studiare un piano perfetto, capace di stornar la rovina da tutti i Danai. Si levava allora e si metteva indosso la tunica si allacciò i bei calzari ai bianchi piedi. Poi si avvolse dentro la pelle sanguigna di un grosso fulvo leone, che gli arrivava fino a terra, e afferrò una lancia. Anche Menelao, nella stessa maniera, lo possedeva il tremore neppure a lui il sonno si posava sulle palpebre. Temeva un disastro per gli Achei proprio per causa sua erano venuti, sull'ampia distesa di acque, lì a Troia, decisi a muovere ardita guerra. Dapprima si coprì le larghe spalle con una pelle screziata di pantera, poi prendeva l'elmo di bronzo e se lo mise in testa. E afferrò un'asta con la mano robusta. Si mosse per andar a svegliare suo fratello, che era il grande comandante di tutti gli Argivi e veniva onorato dal popolo come un dio. Lo trovò che si metteva indosso la bella armatura, vicino alla poppa della nave. Gradita fu la sua venuta. Gli rivolse per primo la parola Menelao, valente nel grido di guerra «Come mai, caro, ti armi così? Intendi mandare qualcuno dei compagni in esplorazione fra i Troiani? Ho però una grande paura, credimi, che non ci sarà nessuno disposto a sobbarcarsi a una tale impresa, a voler andar da solo a spiare i nemici nella notte divina. Dovrà avere certo del coraggio!» E a lui rispondeva il sovrano Agamennone «Abbiamo qui bisogno, io e tu, o Menelao, di un provvedimento sagace, che sottragga al pericolo e metta in salvo gli Argivi e le navi. Lo vedi anche tu l'animo di Zeus si è cambiato. Ecco, ora si volge, con palese preferenza, a gradire i sacrifici che gli fa Ettore. Mai, te lo confesso, ho visto fino ad oggi, mai ho sentito contare che un guerriero da solo abbia provocato tanti danni in un unico giorno, quanti ne ha fatto Ettore, caro a Zeus, ai figli degli Achei. Proprio così e non è figliolo né di una dea e neppure di un dio! Sì, ha compiuto imprese che gli Argivi, ti assicuro, se le ricorderanno per molto tempo e ben a lungo tanti guai, credi, ha procurato agli Achei! E ora, su, vai a chiamare Aiace e Idomeneo! Corri alla svelta lungo le navi! Io intanto andrò da Nestore e lo farò levare. Spero che voglia recarsi dalla forte schiera delle sentinelle a dar ordini. A lui, sono certo, ubbidiranno di più c'è là suo figlio, lo sai, al comando delle guardie, e con lui c'è Merione, il compagno d'armi d'Idomeneo. A loro, ricordi, demmo questo incarico speciale.» Gli rispondeva allora Menelao, valente nel grido di guerra «Di', cosa intendi di preciso con questo ordine? Devo rimanere là con loro in attesa del tuo arrivo, o correre di nuovo da te, dopo avergli riferito, come vuoi, il tuo comando?» E a lui rispose Agamennone, signore di guerrieri «Resta là! Potremmo non incontrarci nel nostro cammino sono tante, lo sai, le strade per il campo. Ma tu grida dappertutto dove arrivi, e falli star svegli! Chiama ogni guerriero anche con il nome del padre e della stirpe, e rendi onore a tutti. Non hai da mostrarti altezzoso, ma anche noi qui dobbiamo darci da fare. È così, lo vedi bene Zeus ci ha mandato, fin dalla nascita, guai e sventure.» Così parlava, e spedì via il fratello con questi ordini precisi. Lui intanto si avviò per recarsi da Nestore, pastore di popoli. Lo trovava accanto alla baracca e alla nera nave, nel suo morbido letto. Gli stavano appresso le armi ricche di fregi lo scudo, due lance, e l'elmo lucido a quattro creste. E poi c'era vicino la cintura tutta scintillante, che il vecchio si metteva quando si armava per la battaglia sterminatrice di uomini, a capo della sua gente non si arrendeva proprio alla triste vecchiaia. Si drizzava su di un gomito, sollevò la testa, si rivolgeva all'Atride e gli domandava «Ehi tu, chi sei, che vai solo per il campo tra le navi, nel buio della notte, quando dormono gli altri mortali? Cerchi una mula o qualcuno dei compagni? Su, parla! Non accostarti a me in silenzio. Via, cosa vuoi?» E a lui rispondeva allora Agamennone, signore di guerrieri «O Nestore figlio di Neleo, grande gloria degli Achei, sono io, l'Atride Agamennone. Non mi riconosci? Ecco qui Zeus mi caccia nei guai, più di tutti, continuamente, finché ho fiato in petto e si muovono le mie ginocchia. E così vado in giro vedi, non mi si posa sugli occhi il dolce sonno, ma sono in gran pensiero per la guerra e le tribolazioni degli Achei. Ho molta paura, sai, per i Danai, e non trovo pace sono qui angosciato, il cuore mi salta fuori dal petto, mi tremano le membra. Ma se vuoi fare qualcosa, ora che non dormi neanche tu, via, andiamo dai corpi di guardia a vedere! Non vorrei che loro là, disfatti dalla stanchezza e dal sonno, si addormentassero senza più pensare a star all'erta. I nemici, capisci, sono accampati vicino. E noi non sappiamo se hanno in mente di combattere anche di notte.» Gli rispondeva allora Nestore il Gerenio, condottiero di carri «Atride glorioso, Agamennone signore di guerrieri, no, credimi, non gli porterà a compimento, il provvido Zeus, a Ettore, tutti quanti i suoi piani, come certo lui ora spera. Sono convinto, anzi, che avrà da arrabattarsi tra difficoltà e guai anche più di prima, se un giorno Achille distoglie il suo animo dal rancore tormentoso. Eccomi, son pronto a seguirti ben volentieri. Ma destiamo anche qualcun altro il Tidide per esempio, famoso per la lancia, e Odisseo, e poi Aiace il veloce, e il forte figlio di Fileo E magari fosse possibile andar a chiamare pure quelli laggiù, Aiace pari a un dio e il principe Idomeneo. Le loro navi, lo sai, stanno ben lontano, non proprio a due passi. Sì, mi è caro Menelao e lo rispetto ma lo devo rimproverare, anche se tu te la prendi, e non posso tacere. Ecco, lui dorme e ha lasciato a te solo ogni briga. Doveva lui, ora, darsi da fare presso tutti i capi, e supplicarli. Le difficoltà sopraggiunte, lo vedi, sono al di sopra delle nostre forze.» E a lui rispose Agamennone, signore di guerrieri «Vecchio, in altre occasioni te l'ho detto io di strapazzarlo. Più di una volta, lo sappiamo, si lascia andare, e non è pronto a mettercisi d'impegno. E non lo fa per pigrizia o leggerezza, ma sta a guardare me e aspetta un mio cenno. Ora invece è stato lui il primo a svegliarsi e a venire da me. E io l'ho mandato a chiamare gli uomini che cerchi. Via, andiamo! Li troveremo davanti alla porta fra le sentinelle è là, sai, che ho detto di radunarsi.» Gli rispondeva allora Nestore il Gerenio, condottiero di cocchi «In tal caso nessuno degli Argivi può prendersela con lui o disubbidire, quando li sprona e comanda.» Così parlava e si metteva indosso la tunica s'allacciò i bei calzari ai bianchi piedi. Poi, intorno alle spalle, si affibbiò un mantello color porpora era doppio, bel largo, vi spuntava al di sopra la peluria della grossa lana. Prese infine una robusta lancia dalla punta di bronzo, e si mosse per andare tra le navi degli Achei vestiti di rame. E allora destava dal sonno per primo Odisseo, eguale a Zeus per senno. Gli diede una voce e subito il grido arrivò al cuore di lui. Veniva fuori dalla baracca e rivolgeva loro la parola «Perché girate così da soli per il campo, tra le navi, nella notte divina? Che bisogno c'è, dite, tanto urgente?» Gli rispondeva allora Nestore il Gerenio, condottiero di carri «Figlio di Laerte, discendente di Zeus, Odisseo versatile e scaltro, non irritarti! Una grande ansia, credi, opprime gli Achei. Su, seguimi! Abbiamo da svegliare anche un altro. È giusto che pure lui esprima il suo parere, se dobbiamo fuggire o batterci.» Così diceva. Ed egli rientrava nel suo alloggio, l'accorto Odisseo. Si appese a tracolla lo scudo adorno di figure, e si avviò dietro a loro. Andavano dal Tidide Diomede. Lo trovarono fuori, un po' discosto dalla sua baracca, in armi. Intorno a lui dormivano i suoi compagni, con gli scudi sotto la testa. Le loro lance stavano piantate al suolo sui puntali di ferro, ben diritte il bronzo in cima luccicava da lontano, come il lampo del padre Zeus. Anche lui dormiva, l'eroe giaceva sopra una pelle di bue selvatico, ma sotto la sua testa era disteso uno splendido tappeto. Gli si accostava Nestore il Gerenio condottiero di cocchi, e lo svegliò lo smoveva percotendolo col piede, gli faceva fretta e lo sgridava di fronte a tutti «Levati, figlio di Tideo! Cosa dormi, tutta la notte? Non ti rendi conto che i Troiani sono accampati nei pressi delle navi, sopra un rialzo della pianura? e che poco spazio ormai li separa da noi?» Così diceva. E lui, di colpo, balzò su dal sonno alla svelta, e gli rivolgeva parole «Instancabile tu sei, o vecchio! Non la smetti mai di affaccendarti. Di', non ci sono altri più giovani, tra gli Achei, per andar da ogni parte a destare, ad uno ad uno, i capi? Ma con te non c e niente da fare, o vecchio!» E a lui rispondeva Nestore il Gerenio, condottiero di carri «Sì, tutto questo che dici, o amico, è giusto. Ho certo dei figli di cui non mi posso lagnare ho anche soldati, e tanti. E uno di loro potrebbe andarli a chiamare. Ma ben grave è la situazione che abbatte gli Achei. Ora, vedi, la sorte di tutti è sul filo di un rasoio o fare una brutta fine o salvarsi. Su allora, vai a svegliare adesso Aiace il veloce e il figlio di Fileo, visto che sei più giovane e hai commiserazione per me.» Così diceva. E lui si avvolse, intorno alle spalle, la pelle di un grosso fulvo leone, che gli arrivava fino ai piedi, e afferrò una lancia. Poi si avviava e faceva alzare, l'eroe, gli altri e li menava con sé. Quando i principi giunsero dai corpi di guardia, non trovarono i capi delle sentinelle addormentati, ma stavano là tutti all'erta, in armi. Come i cani fanno, inquieti, la guardia intorno alle pecore, dentro il muro di cinta, al sentire la belva dal cuore feroce che avanza per la boscaglia attraverso i monti; e un grande frastuono si leva allora, di uomini e di cani, e il sonno gli va via così a loro là era sparito dalle palpebre il dolce sonno, nel vigilare in quella brutta notte. Ed erano rivolti verso la pianura continuamente, in ansia di sentire l'avanzata dei Troiani. E a vederli, si rallegrò il vecchio e gli faceva coraggio e rivolgeva loro queste parole «Continuate pure, ragazzi, a stare sul chi vive, così! E nessuno si lasci prendere dal sonno, se no susciteremo le risate tra i nemici.» Così diceva e varcò il fossato. Gli andavano dietro i principi degli Argivi, che erano stati chiamati a consiglio. E insieme a loro si avviavano anche Merione e lo splendido figlio di Nestore erano stati invitati a prender parte alla riunione. Passata la fossa profonda, si mettevano a sedere in un luogo sgombro, dove si apriva uno spiazzo tra i cadaveri dei caduti. Di là si era ritirato il grande Ettore dopo il massacro degli Argivi, quando la notte lo aveva avvolto tutto all'intorno. Quivi sedevano e si scambiavano i loro punti di vista. E tra loro prendeva a parlare Nestore il Gerenio, guidatore di carri «Amici, c'è uno che ha voglia e coraggio di andare in mezzo ai Troiani, e vedere là di catturare qualcuno dei nemici tra gli avamposti, o anche solo cogliere qualche discorso tra i soldati? Dobbiamo conoscere i loro piani, se intendono rimanere lì nelle vicinanze delle navi, fuori dalle mura, o se torneranno di nuovo in città, dopo il loro successo sugli Achei. E andato là in ricognizione, deve venir indietro sano, e salvo da noi. Grande sarà allora la sua gloria sotto il cielo, tra tutti gli uomini e riceverà inoltre una buona ricompensa. Ecco, tutti i principi che comandano le navi, gli daranno, uno per uno, una pecora nera con il suo agnello sotto è un dono, credete, che non ha l'eguale. E poi sarà sempre presente in ogni banchetto e convito festivo.» Così diceva e tutti restarono muti, in silenzio. E in mezzo ad essi parlò Diomede, valente nel grido di guerra «Nestore, me la sento io di penetrare nel campo dei nemici qui vicini tra i Troiani, sì. Ma vorrei che mi fosse compagno un altro avrei più sicurezza e fiducia. Ad andar in due, se non è l'uno, è l'altro a vedere come è meglio fare. E se anche uno da solo ha occhi, la sua vista va meno lontano, e scarso è il suo intuito.» Così parlava e volevano là in molti seguire Diomede. Erano pronti i due Aiaci, servitori di Ares era disposto Merione, e così pure il figlio di Nestore. Ne aveva voglia l'Atride Menelao, famoso per i suoi tiri di lancia. E pure il paziente Odisseo intendeva penetrare tra la massa dei Troiani sempre il suo cuore amava le imprese ardite. E tra loro parlò Agamennone, signore di guerrieri «Figlio di Tideo, Diomede, amico caro, sì, puoi sceglier per compagno chi vuoi tu il più bravo di quelli che si offrono. Guardali sono in tanti qui impazienti. E non lasciar da parte, per un senso di riguardo, il migliore, e non prenderne uno da meno per semplice cortesia, in considerazione della sua stirpe si trattasse pure di un re più potente degli altri.» E tra loro parlò Diomede, valente nel grido di guerra «Ebbene, dato che m'invitate a scegliermi, da solo, il compagno, come non pensare subito al grande Odisseo? È prudente e risoluto più che mai in ogni sorta di imprese, e poi lo protegge Pallade Atena. Se lui viene con me, faremo tutt'e due ritorno, anche di mezzo a un incendio, tanto sa bene sbrigarsela.» E a lui allora rispose il paziente divino Odisseo «Tidide, non star qui a far lodi o riserve nei miei riguardi! Le cose che dici, credi, gli Argivi già le sanno. Via, andiamo! Guarda la notte ormai sta per finire, è vicina l'aurora. Sì, le stelle sono ben avanti nel loro giro, è trascorsa la notte per più di due terzi. Ci rimane ormai poco.» Così essi dicevano, e si vestirono di armi spaventose. Al figlio di Tideo, l'intrepido Trasimede dava una spada a due tagli - la sua, l'eroe, l'aveva lasciata presso la nave -e il proprio scudo. Poi gli pose in capo un elmo in pelle di toro, senza cimiero e senza pennacchio, che è detto «casco» e protegge la testa dei giovani robusti. Merione, a sua volta, dava ad Odisseo l'arco e la faretra e la spada. Poi gli mise in capo un elmo fatto di cuoio. Nella parte interna era saldamente intrecciato di molte corregge al di fuori, bianche zanne di cinghiale stavano fitte fitte da un lato e dall'altro, disposte con arte e abilmente il fondo era foderato di feltro. Questo elmo l'aveva portato via un giorno Autolico dalla città di Eleone, penetrando, attraverso un buco nella parete, dentro la solida casa di Amintore figlio d'Ormenio. Poi l'aveva dato ad Anfidamante di Citera da portar a Scandea. E Anfidamante l'aveva offerto a Molo come dono ospitale. Questi a sua volta lo lasciava portare a suo figlio Merione in guerra, e così allora coprì e protesse il capo di Odisseo. Dopo che i due prodi si furono rivestiti delle paurose armi, si mossero per andare, e lasciarono là tutti quegli eroi. Ed ecco che da destra Pallade Atena gli mandò un airone, vicino alla loro strada ma essi non lo scorsero coi propri occhi nel buio della notte, lo sentirono solo gridare. Era lieto Odisseo di quel presagio e invocava Atena «Ascoltami, figlia di Zeus egioco, tu che sempre mi stai al fianco in ogni sorta di imprese, e non mi perdi mai di vista, quando mi metto in cammino. Ora, sì, soprattutto, proteggimi, o Atena! Concedici di ritornar gloriosi alle navi, dopo aver compiuto una grande impresa. I Troiani non se la dovranno scordare.» Subito poi pregava Diomede, valente nel grido di guerra «Senti adesso anche me, o figlia di Zeus, Atritone! Accompagnami come già accompagnasti, un giorno, a Tebe, il grande mio padre Tideo, quando si recava messaggero a nome degli Achei. Li lasciava sulla riva dell'Asopo, gli Achei dalle tuniche di bronzo e lui recava là una parola di pace ai discendenti di Cadmo. Ma poi al ritorno compì fiere gesta insieme a te, o nobile dea, che lo soccorresti benigna. Così ora degnati di star vicino a me e difendimi! Io ti sacrificherò una giovenca di un anno una splendida bestia dalla larga fronte, non domata, che l'uomo non ha messo ancora sotto il giogo. E te la voglio immolare con le corna indorate.» Così dicevano pregando e li ascoltò Pallade Atena. E dopo che ebbero supplicato la figlia del grande Zeus, si avviarono come due leoni nella notte buia, tra la strage e i cadaveri, le armi e il sangue nero. Ma neanche i superbi Troiani Ettore li lasciò dormire convocava in uno stesso luogo tutti i più valorosi, quanti erano capi e condottieri tra le truppe. E là in adunanza avanzava una sua proposta scaltra. Diceva «C'è uno che s'impegna a compiere un'impresa qui, dietro una buona ricompensa? Sì, avrà il suo premio sicuro. Sentite intendo dargli un carro e due cavalli dall'alta cervice, i migliori che ci siano presso le navi degli Achei, se ne ha il coraggio e poi si acquisterà gloria. Ecco, deve andare accosto alla flotta e informarsi se gli Achei la guardano come in passato, o se vinti ormai dalle nostre braccia meditano tra loro la fuga, e non hanno più voglia di star là a vigilare durante la notte, disfatti come sono da una stanchezza tremenda.» Così diceva e tutti rimasero muti, in silenzio. C'era tra i Troiani un certo Dolone, figlio di Eumede araldo divino possedeva molto oro e molto bronzo. Era brutto sì di aspetto, ma veloce di piedi l'unico maschio in casa, in mezzo a cinque sorelle. E allora parlò ai Troiani e ad Ettore «Ettore, me la sento io di andar presso le navi a spiare. Ma via, alza per me lo scettro e giurami di darmi per davvero i cavalli e il carro con i fregi in bronzo, che trasportano l'irreprensibile Pelide. E io sarò per te una buona spia e non ti deluderò. Voglio avanzare, sai, difilato fino al campo e giungere alla nave di Agamennone, dove di certo i più prodi devono consultarsi se scappare o dar battaglia.» Così diceva. E lui prese in mano lo scettro e giurò «Sia qui testimone Zeus, il tonante marito di Era, che nessun altro dei Troiani salirà su quel carro. Solo tu, te l'assicuro, ne andrai fiero per sempre.» Così diceva. E lui prese in mano lo scettro e giurò «Sia andare.» Subito Dolone si metteva a tracolla il curvo arco si copriva con una pelle di grigio lupo, si pose in testa un berrettone di martora, afferrò un giavellotto aguzzo e parti. Si allontanava dal campo troiano nella direzione delle navi ma non doveva far più ritorno, a riferire le notizie ad Ettore. Ben presto si lasciò indietro il grosso dei guerrieri e dei cavalli, e si avviava impaziente per la sua strada. Ma lo sentì avvicinarsi Odisseo, discendente di Zeus, e diceva a Diomede «C'è qualcuno là, o Diomede, che vien dal campo troiano non so se a spiar le nostre navi o per spogliare soldati caduti. Su, lasciamolo prima passar avanti un po' nel piano poi gli saremo, d'un balzo, addosso e lo cattureremo di volo. E se ci scappa. davanti di corsa, tu caccialo di continuo verso le navi, ben lontano dal campo, incalzandolo con la lancia. Non vorrei che riuscisse a salvarsi, rifugiandosi in città.» Così parlavano tra loro e si distesero per terra, fuori della strada, in mezzo ai cadaveri e lui passò oltre correndo rapidamente nella sua storditaggine. Ma quando fu distante la lunghezza di un solco fatto d'impeto dalle mule - esse sono migliori dei buoi nel tirare il solido aratro in un maggese profondo - ecco che i due si misero a rincorrerlo. Egli allora, a sentire rumore, si fermò credeva evidentemente che fossero amici e venissero, da parte dei Troiani, a richiamarlo indietro, per un contrordine di Ettore. Non appena però furono a un tiro di lancia o anche meno, riconobbe in loro guerrieri nemici, e moveva di scatto le ginocchia per scappare. E quelli pronti dietro a inseguirlo! Come quando due cani dai denti aguzzi, bravi da caccia, rincorrono o un cerbiatto o una lepre senza tregua, sempre, per una località boscosa, e la bestia fugge avanti gridando così il Tidide e Odisseo distruttore di città gli tagliavano la strada verso il campo, incalzandolo senza sosta, di continuo. Già stava per giungere, da un momento all'altro, dagli uomini di guardia nella sua fuga verso le navi, quand'ecco che Atena infuse energia al Tidide non voleva che uno degli Achei vestiti di bronzo avesse il vanto di colpirlo per primo, e lui arrivasse dopo. Gli dava addosso con l'asta puntata, il gagliardo Diomede, e diceva «Alto là o tiro! Non la scampi più ormai, t'assicuro.» Disse e scagliò la lancia falliva il colpo apposta. La punta della liscia asta gli sorvolava la spalla destra e si conficcò in terra e lui si arrestò, terrorizzato. Balbettava, gli si sentiva in bocca stridere i denti era verde dalla paura. E quei due ansimando lo raggiunsero e lo afferrarono per le braccia. Lui scoppiava in lacrime e diceva «Pigliatemi vivo e io poi mi riscatterò! Ho là, sapete, a casa, bronzo e oro e ferro ben lavorato. E mio padre vi darà un mucchio di oggetti preziosi per liberarmi, se viene a sapere che sono ancora in vita presso le navi degli Achei.» Gli rispose allora l'accorto Odisseo «Animo, su, e non pensare alla morte! Via, dimmi una cosa e parla con franchezza perché vai tutto solo, lontano dal campo, verso le navi nel buio della notte, quando dormono gli altri mortali? Forse per spogliare qualcuno dei soldati caduti? O t'ha mandato Ettore a far un'ispezione accurata, accanto alla nostra flotta? Oppure sei qui di tua iniziativa?» E a lui rispondeva allora Dolone, gli tremavano le ginocchia «Sì, è stato Ettore a farmi uscir di testa con le sue grandi promesse. Mi assicurava di darmi i cavalli e il carro con i fregi in bronzo del nobile figlio di Peleo. E mi spingeva a partire attraverso la notte qui scura che passa tanto presto. Dovevo venir sotto ai nemici e informarmi se le navi sono guardate come in passato, o se vinti ormai dalle nostre braccia meditate tra voi la fuga, e non avete voglia di star a vigilare durante la notte, disfatti come siete da una stanchezza tremenda.» E a lui sorridendo diceva l'accorto Odisseo «Avevi proprio gola, vedo, di grandi doni. Figurarsi, i cavalli del battagliero Eacide! Ma è una dura impresa, sai, reggerli e guidarli, per uomini destinati a morire, ad accezione di Achille che ha una madre immortale. Via dimmi una cosa e parla con franchezza dove hai lasciato ora Ettore, venendo qui? e dove stanno le sue armi da guerra? e dove sono i suoi cavalli? E come son dislocati i corpi di guardia degli altri Troiani, e i loro alloggiamenti? E che piani hanno? intendono rimanere là nelle vicinanze delle navi, fuori dalle mura, o ritorneranno di nuovo in città, dopo il loro successo sugli Achei?» Gli rispose allora Dolone, figlio di Eumede «Ebbene, ti conterò con esattezza ogni cosa. Ettore tiene consiglio là, insieme ai capi, accanto al monumento sepolcrale del divino Ilo, lontano dal rumore dell'esercito. E quanto alle sentinelle di cui mi domandi, non c'è nessun distaccamento speciale a protezione e a guardia del campo. Tutti quelli là sono fuochi di bivacco dei Troiani tocca ad essi tenerli accesi. Sono loro che stanno svegli, e si incitano a vicenda a tener gli occhi aperti mentre invece gli alleati, fatti venire da ogni parte, se la dormono. Lasciano ai Troiani, vedete, l'incombenza di far la guardia. Non hanno figli, loro, sapete, qui vicino né donne.» E a lui rispondeva l'accorto Odisseo «Ancora una cosa dormono a quest'ora, alla rinfusa, tra i Troiani, o in un luogo a parte? Spiegati chiaro, tanto per saperlo.» Gli rispondeva allora Dolone, figlio di Eumede «Ecco, ti esporrò con esattezza ogni cosa. Dalla parte del mare ci sono i Cari, e i Peoni dagli archi ricurvi, e noi i Lelegi, i Cauconi e i Pelasgi divini. Verso Timbre invece stanno i Lici e i fieri Misi, e inoltre i Frigi domatori di cavalli e i Meoni coi loro carri da guerra. Ma perché mai mi domandate tutti questi particolari? Se intendete, penso, penetrare tra la massa dei Troiani, ecco, ci sono qui vicino, in disparte, i Traci arrivati da poco, proprio all'estremità del campo e tra loro c'è il re Reso, figlio di Eioneo. Ha i cavalli più belli, sì, e più grossi che abbia mai visto sono più bianchi della neve, uguagliano i venti nella corsa. E poi ha un cocchio lavorato artisticamente in oro e argento. E giunse qui con armi d'oro, straordinarie, una meraviglia a vedersi armi, sì, quali devono portare non uomini destinati alla morte, ma gli dei immortali. Su, adesso conducetemi tra le navi! O lasciatemi qui, legato stretto con una corda senza pietà! Così vedrete, al vostro ritorno, se ho detto la verità o no.» Ma a lui, guardandolo torvo, rispose il gagliardo Diomede «Non metterti in testa, o Dolone, di scamparla! Preziose sono le tue notizie ma tu sei incappato, ricordati, nelle nostre mani. Vedi, se ora ti liberiamo e ti lasciamo andare, son sicuro che un domani verrai ancora tra le navi degli Achei, o per spiare o per combattere in campo aperto. Se invece sei abbattuto sotto il mio braccio e perdi la vita, allora non sarai più, un giorno o l'altro, di danno agli Argivi.» Disse. E l'altro stava per toccargli il mento con la mano e supplicarlo ma lui lo colpì di scatto con la spada alla nuca, in pieno, e gli recise tutt'e due i tendini. Cercava ancora di parlare, e la sua testa rotolò giù tra la polvere. Gli tolsero il berrettone di martora dal capo, la pelle di lupo, l'arco flessibile e la lunga lancia. E queste spoglie, il divino Odisseo le levava in alto con la mano, in onore di Atena predatrice, e diceva pregando «Accetta volentieri, o dea, le armi qui! Tu sei la prima, sai, a cui intendiamo far offerte, tra tutti gli immortali dell'Olimpo. E ora guidaci ai cavalli e agli alloggiamenti dei Traci!» Così diceva a chiara voce e con un lancio per aria mandava tutto sopra un tamerisco. Vi fece poi un segnale ben riconoscibile, stringendo insieme delle canne e i rami rigogliosi della pianta non poteva loro sfuggire, al ritorno, nel buio della notte che trascorre rapida. E i due là camminavano attraverso le armi e il sangue nero, e ben presto giunsero, di buon passo, al manipolo dei Traci. Essi dormivano disfatti dalla fatica le loro belle armi gli stavano lì accanto, posate a terra ben in ordine, in tre file. Ciascuno aveva da presso una pariglia di cavalli. Reso dormiva al centro della schiera vicino a lui i veloci destrieri erano legati per le redini al parapetto del cocchio, all'estremità. Lo scorgeva Odisseo per primo e lo indicò a Diomede «Ecco qui, Diomede, il guerriero, ecco qui i cavalli di cui ci parlava quel Dolone che abbiamo ucciso. Su, metti fuori ora la tua gagliarda energia! Non devi star qua, in armi, senza agire. Via, slega i cavalli! Oppure fa' strage di soldati, e alle bestie ci penserò io.» Così parlava. Ed ecco, Atena dagli occhi lucenti mise addosso a Diomede un furore battagliero, e lui uccideva all'impazzata qua e là. Si levava un lamento miserevole a quei colpi di spada, diveniva rossa di sangue la terra. Come un leone si fa sotto, di sorpresa, a un gregge di capre o pecore senza pastori, e si avventa in mezzo ad esse con ferocia così assaliva, il figlio di Tideo, i guerrieri traci. Dodici ben presto ne ammazzò. E l'accorto Odisseo, di mano in mano che il Tidide si accostava a uno e lo colpiva con la spada, prendeva, dietro a lui, per un piede il cadavere e lo tirava da parte. Veniva pensando ai cavalli dalla bella criniera, voleva che potessero passare facilmente, senza inalberarsi dallo spavento a calpestar dei morti. Non ci erano ancora abituati. Quando alla fine il figlio di Tideo giunse al re, fu quello il tredicesimo a cui tolse la dolce vita. Andava allora smaniando un brutto sogno gli stava sopra la testa, quella notte, ed era la visione del figlio dell'Enide. Così voleva Atena. Intanto il paziente Odisseo scioglieva i cavalli di solida unghia, li legava insieme con le redini, e li spingeva fuori dalla calca battendoli con l'arco non aveva pensato a prender su la lucida frusta dal carro adorno di fregi. Poi con un fischio avvertiva il grande Diomede. Lui stava là indeciso. Non sapeva quale altra bravata compiere, se afferrare il carro, su cui stavano quelle armi variamente lavorate, e tirarlo via per il timone, o anche portarselo fuori di peso, oppure togliere la vita a tanti Traci ancora. Mentre rimuginava così, Atena gli si metteva accanto, al divino Diomede, e diceva «Ora pensa a far ritorno alle navi, o figlio del magnanimo Tideo! Non vorrei che tu ci arrivassi in fuga. Guarda che qualche altro dio può ben svegliare anche i Troiani.» Così diceva e lui riconobbe, a quelle parole, la voce della dea. Prontamente allora saltava sopra i cavalli Odisseo li batté con l'arco. Ed essi volavano di galoppo alle celeri navi degli Achei. Ma non faceva la guardia come un cieco Apollo dall'arco d'argento. Quando vide Atena assistere il figlio di Tideo, si arrabbiava con lei e penetrò tra la folla numerosa dei Troiani. Qui destava un principe dei Traci, Ippocoonte, il valoroso cugino di Reso. E lui si riscoteva dal sonno. Ma appena vide deserto il luogo dove stavano i veloci cavalli, e i guerrieri dibattersi in mezzo al sangue dell'atroce strage, prorompeva allora in urli di lamento, e chiamava per nome il caro compagno. Si levò in mezzo ai Troiani un vociare e un trambusto senza fine. Accorrevano là in massa, e stavano a mirare l'impresa orrenda che avevano compiuto i guerrieri, fuggendo poi verso le concave navi. Loro intanto giungevano al luogo dove avevano ucciso la spia di Ettore. Lì Odisseo caro a Zeus fermò i rapidi cavalli. Saltava a terra il Tidide, e gli metteva tra le mani le spoglie insanguinate poi balzò di nuovo in groppa. Una sferzata alle bestie, e loro di buona voglia volarono fino alle concave navi. Non vedevano l'ora di arrivare là. Era Nestore il primo a sentire lo scalpitio e disse «Amici, condottieri e capi degli Argivi, mi sbaglierò, ma lo voglio dire. Ecco, mi giunge all'orecchio lo scalpitio di cavalli in corsa. Oh, se fossero Odisseo e Diomede a menarli qui, di volata, dal campo troiano! Ma ho una grande paura che gli sia successo qualcosa, ai più prodi degli Argivi, nel frastuono di un assalto nemico.» Non aveva ancora finito di parlare che arrivarono loro. Balzavano giù a terra ed essi in festa li accoglievano con abbracci e con parole cordiali. E il primo a far domande era Nestore il Gerenio, guidatore di carri «Su, dimmi, o glorioso Odisseo, grande vanto degli Achei, come avete fatto a prendere questi cavalli? Vi siete cacciati tra la massa dei Troiani, o vi è venuto incontro, a offrirveli, un dio? Sì, mi richiamano, tanto sono splendidi, i raggi del sole. Sempre, lo sapete, mi scontro coi Troiani e non me ne sto, mi pare, accanto alle navi, anche se sono un guerriero anziano ma cavalli uguali mai finora ne ho visti o notati. Penso proprio che vi sia venuto incontro un dio a darveli. Tutt'e due, lo so bene, vi ama Zeus, come pure la figlia di Zeus egioco, Atena dagli occhi lucenti.» E a lui rispondeva allora il saggio Odisseo «O Nestore Nelide, grande gloria degli Achei, sì, certo, un dio, se vuole, può facilmente regalare cavalli anche migliori di questi essi sono, si sa, molto più potenti di noi. Ma i destrieri qui, o vecchio, se vuoi saperlo, son arrivati da poco della Tracia sono. E il bravo Diomede ha ucciso là il loro padrone, e inoltre dodici suoi compagni, tra i più valorosi. E il tredicesimo lo facemmo fuori accanto alle navi era una spia. L'aveva mandato in ricognizione al nostro campo Ettore insieme agli altri nobili Troiani.» Così diceva e cacciò oltre la fossa i cavalli dalla solida unghia, esultando di gioia e con lui andavano allegri gli altri Achei. E quando giunsero alla baracca ben costruita del Tidide, legarono le bestie con buone corde di cuoio alla greppia, dove già stavano i cavalli dai rapidi piedi di Diomede, intenti a mangiare il saporoso frumento. Odisseo metteva le spoglie insanguinate di Dolone sopra la poppa della sua nave, in attesa di approntare il sacrificio promesso ad Atena. Poi i due eroi s immergevano nel mare, a detergersi l'abbondante sudore dalle gambe, dal collo e dalle cosce, tutto all'intorno. E dopo che l'onda del mare gli ebbe tolto dalle membra il molto sudore e si furono ristorati, entravano in vasche levigate e fecero il bagno. Così si lavavano e ungevano abbondantemente di olio, e quindi si sedevano a banchetto e attingendo dal cratere pieno, facevano ad Atena libagioni di dolce vino. § 

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