Ma quando i Troiani arrivarono al guado del fiume dalla bella corrente, al Santo vorticoso di cui è padre Zeus immortale, qui Achille tagliò in due la massa dei combattenti. E gli uni disperdeva per la pianura verso la città, proprio dalla parte dove scappavano atterriti gli Achei il giorno prima, allorché infuriava in armi lo splendido Ettore. Ed ora per di là si rovesciavano in fuga loro, i Troiani, ed Era gli spandeva davanti una nebbia fitta in modo da intralciarli. L'altra metà invece si accalcava sul fiume profondo, dai gorghi d'argento. E vi si precipitavano dentro con grande frastuono, strepitarono le alte correnti, e le rive all'intorno risonavano forte da un lato e dall'altro. E loro con urla di spavento cercavano di nuotare di qua e di là, e venivano trascinati nei giri dei mulinelli. Come quando, all'irrompere del fuoco, si levano le cavallette svolazzando in aria per fuggire verso un fiume divampa l'incendio instancabile, sorto là all'improvviso, ed esse vanno a rannicchiarsi tutte sull'acqua così, all'assalto di Achille, il corso del Santo dai gorghi profondi si riempì, alla rinfusa, tra grida e strepiti, di carri e cavalli e guerrieri. Allora l'eroe discendente di Zeus lasciò lì la lancia sulla riva, appoggiandola a dei tamerischi poi saltò dentro il fiume, simile a un demone. Aveva in mano solo la spada non pensava che a far strage, e percoteva da ogni parte. Il lamento dei Troiani si levava miserevole sotto i colpi dell'arma, l'acqua era tutta rossa di sangue. E come davanti a un delfino dal vasto ventre gli altri pesci scappano via, e gremiscono i più riposti angoli d'un porto di facile approdo, in preda al terrore come sono ché li divora ingordo, quelli che prende così i Troiani, lungo il corso del torrente violento, cercavano scampo sotto la scarpata delle sponde. Ma quando ebbe stanche le braccia a furia di uccidere, prese vivi nel fiume dodici giovani li destinava al sacrificio, a pagare per la morte di Patroclo figlio di Menezio. Li faceva uscire dall'acqua, istupiditi di paura come cerbiatti, e gli legò le mani dietro, con le cinghie ben ritagliate che solevano portare sulle tuniche a fitte maglie ritorte e li diede ai suoi compagni, da condurre giù alle concave navi. Lui poi si avventò di nuovo ad assalire là i Troiani, nella sua smania di farne un massacro. Qui s'imbatteva in un figlio di Priamo il Dardanide mentre fuggiva dal fiume. Era Licaone, proprio quello che egli aveva, una volta, menato via prigioniero dalla vigna paterna, a viva forza, in una sua razzia notturna. Lui laggiù stava tagliando, con un'ascia affilata di bronzo, dei giovani rami da un caprifico per farne i parapetti d'un carro. Ed ecco che gli venne addosso, per sua disgrazia, all'improvviso il divino Achille. E quella volta lo faceva trasportare, con la nave, a Lemno dalle belle costruzioni, e lì lo vendette e fu il figlio di Giasone a comprarlo. Di là poi lo liberò un ospite, Eezione dell'isola d'Imbro, dando un grosso riscatto, e lo mandava nella divina Arisbe. E di là fuggiva di nascosto, e giunse così alla reggia paterna. Da undici giorni, dopo il rientro da Lemno, se ne stava felice tra i suoi cari ed ecco, nel dodicesimo, un dio lo gettò un'altra volta nelle mani di Achille, che lo doveva spedire ormai a casa di Ade. E lui non aveva davvero voglia di andarci! Quando lo ravvisò, il divino Achille dai piedi gagliardi, disarmato così, senza elmo e scudo - non brandiva neppure la lancia, ma aveva buttato via tutto a terra lo estenuava, si vede, il sudore nella smania di fuggire dal fiume, e lo sforzo gli piegava le ginocchia - diceva allora turbato al suo magnanimo cuore «Oh, sì, grande miracolo è questo che scorgo con i miei occhi! Sta' a vedere che i Troiani da me uccisi risorgeranno di nuovo dall'oscurità nebbiosa! Come appunto costui è tornato qui riuscendo a sfuggire al giorno fatale, quand'era stato portato e venduto nella divina Lemno. E non lo fermò la distesa del mare, che pur trattiene tanti, loro malgrado. Ebbene, sì, questa volta assaggerà la punta della mia lancia! Voglio così vedere se verrà via anche di là nella stessa maniera, o se la terra glielo impedirà - arresta laggiù persino i più forti.» Così pensava là fermo. E l'altro gli venne accosto, sgomento mirava ansiosamente a toccargli le ginocchia, voleva proprio sfuggire alla triste morte e al nero destino. Ed ecco, lui alzò, il divino Achille, la grossa lancia, deciso com'era a colpirlo e il troiano corse ai suoi piedi e gli abbracciò i ginocchi curvandosi tutto. Così l'asta sorvolava sul suo dorso, e si piantò in terra, nell'avida furia di mordere carne d'uomo. Licaone intanto, con una mano, gli stringeva supplichevole le ginocchia, e con l'altra tratteneva la lancia acuminata e non la lasciava. E gli rivolgeva parole «In ginocchio ti scongiuro, o Achille abbi per me riguardo e pietà. Come un supplice, o discendente di Zeus, io sono per te, e ho diritto al tuo rispetto. Vedi, tu sei il primo da cui mangiai il grano macinato di Demetra, quel giorno che mi facesti prigioniero là nella vigna ben coltivata, e mi portasti via per vendermi lontano dal padre e dalla famiglia, a Lemno e ti feci guadagnare il prezzo di cento buoi. Poi, credimi, sono stato riscattato per tre volte tanto. Ed oggi per me è il dodicesimo giorno da che son tornato a Ilio, dopo molte peripezie. Ed ora, ecco, la malasorte mi ha gettato di nuovo nelle tue mani. Devo proprio essere in odio a Zeus padre, se ancora una volta mi ha consegnato a te. Oh, sì, di breve vita m'ha fatto la madre Laotoe, la figlia del vecchio Alte Alte, sai, che regna sui Lelegi amanti della guerra, e tiene l'alta Pedaso in riva al Satnioente. E sua figlia, vedi, la sposò Priamo, tra le tante altre sue donne. Da lei siamo nati in due e tu, ecco, li sgozzerai entrambi. Sì, uno l'hai già abbattuto tra i combattenti delle prime file, ed è Polidoro l'hai colpito con la lancia aguzza. Ed ora purtroppo qui cadrà, su di me, la sventura non sfuggirò, sono certo, alle tue mani. É stato un dio davvero a condurmi da te. Ma un'altra cosa ti voglio dire e tu mettitela bene in testa. Non ammazzarmi! Non sono uscito dallo stesso ventre, non gli sono fratello, sappilo, a Ettore che ti uccise il compagno gentile e forte.» Così gli diceva lo splendido figliolo di Priamo, pregandolo vivamente. Ma spietata fu la risposta che udì «Povero ingenuo, non offrirmi riscatto, e finiscila con le tue chiacchiere! Senti prima che Patroclo giungesse al suo giorno fatale, ero anche disposto a risparmiare i Troiani, e molti ne presi vivi e poi li vendetti. Ma ora nessuno sfuggirà più alla morte nessuno di quelli che mi caccia un dio qui tra le mani, davanti ad Ilio. No, nessuno dei Troiani tutti quanti, e in particolare nessuno dei figli di Priamo! E allora, amico, muori anche tu! O perché piangi così? È morto, vedi, pure Patroclo, ed era molto più forte di te. E poi, guarda me sono grande e bello, ho un padre nobile, mia madre è una dea. Eppure, vedi, anche su di me sta la morte e l'ineluttabile destino. Verrà, lo so, un'alba o una sera o un mezzogiorno, che qualcuno in battaglia toglierà la vita anche a me, o tirandomi addosso la lancia o una freccia con l'arco, di lontano.» Così diceva. E a Licaone si sciolsero allora le ginocchia, venne meno il cuore. Lasciò andar l'asta, e si accasciava là a braccia aperte. Estraeva, Achille, la spada aguzza e lo colpi alla clavicola, presso il collo. Tutta si immerse dentro, nella carne, l'arma a doppio taglio. E il giovane giaceva a terra, disteso, con la faccia in giù. Il nero sangue colava fuori e inumidiva il suolo. Achille allora lo ghermì per un piede e lo scagliò dentro il fiume, in balia della corrente. E con aria di trionfo gli gridava queste parole «Stai lì, ora, in compagnia dei pesci! Ti leccheranno, vedrai, il sangue della ferita, senza troppi riguardi. E tua madre non può certo comporti sul letto funebre e intonare il lamento, ma lo Scamandro qui ti trascinerà, con i suoi vortici, dentro la vasta profondità del mare. E allora qualche pesce accorrerà guizzando sotto il nero incresparsi delle onde, a divorare il bianco grasso di Licaone! Sì, morte a voi tutti, fino al giorno che conquistiamo la città di Ilio! Voi in fuga ed io alle spalle, a sterminarvi! Neanche il fiume qui vi difenderà questo fiume ricco di acqua, dai limpidi gorghi, a cui sacrificate, lo so, da tempo antico tanti tori, e gettate giù vivi, dentro i vortici, cavalli dalla solida unghia. Ma anche così andrete incontro a una misera fine, finché l'avrete pagata, tutti quanti, per la morte di Patroclo e i massacri degli Achei, che facevate nei pressi delle navi durante la mia assenza dal campo.» Così diceva. E il fiume s'infuriò ancora di più, e pensava dentro di sé come metter fine alla guerra accanita di Achille, e stornar dai Troiani la rovina. Intanto il figlio di Peleo, impugnando l'asta dalla lunga ombra, si lanciò, ben deciso ad ammazzarlo, contro Asteropeo, Era il figliolo di Pelegone e Pelegone l'avevano generato l'Assio dall'ampio corso e Peribea, la maggiore delle figlie di Acessameno. Con lei appunto si era unito il dio del fiume dai gorghi profondi. Achille allora lo assaliva. L'altro, fuori dal fiume, lo affrontò con due lance. Il Santo gli mise addosso energia, sdegnato com'era dello scempio di tanti giovani che Achille andava tagliando, tra le sue acque, senza pietà. E quando i due avanzando l'uno contro l'altro furono vicini, per primo parlò il grande Achille dai piedi gagliardi «Qual è il tuo nome? di che paese sei, tu che hai il coraggio di venirmi davanti? Figli di sventurati, sappilo, sono quelli che contrastano la mia furia.» E a lui rispondeva lo splendido figlio di Pelegone «Magnanimo Pelide, perché mai domandi da chi discendo? Ecco, io sono della Peonia dalle larghe zolle - tanto lontana -e guido qui i Peoni armati di lunghe lance. E oggi, vedi, è l'undicesimo giorno che sono arrivato a Ilio. Devi sapere che la mia stirpe risale all'Assio dal vasto corso l'Assio, sì, che riversa sul paese le sue acque bellissime, e fu il padre di Pelegone, famoso nel brandire l'asta. E io sono, dicono, il figlio di lui. E ora battiamoci, o nobile Achille!» Così parlava con aria di minaccia. E lui, il divino Achille, sollevò la sua asta del Pelio l'altro, l'eroe Asteropeo, tirava contemporaneamente le due lance, era ambidestro. E con una colpì lo scudo, ma senza romperlo resistette la piastra d'oro, opera di un dio. Con l'altra invece gli scalfiva il gomito del braccio destro ne sprizzò fuori il nero sangue. L'arma andava oltre e rimase là piantata a terra, avida di addentare carne. Subito dopo Achille scagliò la sua lancia, dal volo diritto, addosso ad Asteropeo. Era impaziente di ucciderlo. Ma non lo colse e invece urtò la sponda ripida del fiume. L'arma di frassino si conficcava dentro il terreno, fino a metà asta. Pronto, il Pelide si trasse dal fianco l'aguzza spada, e si precipitava su Asteropeo con furore. E questi non riusciva a tirar fuori dalla scarpata, con la sua robusta mano, la lancia di Achille! Tre volte la scosse nella furia di strapparla via, e tre volte la forza gli mancò. Ma al quarto tentativo era proprio deciso a piegarla, a romperla, l'asta di frassino del discendente d'Eaco! Prima però gli fu sopra con la spada Achille, e gli tolse la vita. Al ventre lo colpiva, vicino all'ombelico si rovesciarono fuori a terra tutti gli intestini. Il buio l'avvolse agli occhi nel rantolo dell'agonia. Achille allora gli calcò un piede sul petto, lo spogliava dell'armatura, e diceva con un grido di trionfo «Sta' lì a terra! È dura impresa, sai, venir a battaglia coi figli del potente Cronide, anche per chi è nato da un fiume. Sì, tu proclamavi di essere il discendente di un fiume dal vasto corso ma io sono - e me ne vanto - della stirpe del grande Zeus. Mi è padre, vedi un eroe che regna su tanti Mirmidoni è Peleo l'Eacide. E lui, Eaco, era figlio di Zeus! E Zeus, persuaditi, è più forte dei fiumi che scorrono rumorosi al mare e così la discendenza di Zeus è superiore a quella di un fiume. E dire che hai qui vicino un grosso torrente ti poteva ben soccorrere! Ma contro Zeus Cronide non è possibile lottare non riesce a stargli di fronte neanche l'Acheloo sovrano, e neanche la vasta forza dell'Oceano dalle profonde correnti, da cui pure sgorgano tutti i corsi d'acqua e il mare intero e ogni fontana, ogni pozzo dentro la terra. Anche lui, credi, ha paura del fulmine del grande Zeus, ha paura del tuono orrendo quando rimbomba dal cielo.» Disse, e strappò via dalla riva a picco la sua lancia di bronzo. Asteropeo senza più vita, lo lasciava lì disteso sulla sabbia e lo bagnava la scura acqua. Anguille e pesci vi si affaccendavano intorno a divorargli, a strappi, il grasso sui reni. Lui si mosse all'inseguimento dei Peoni, valenti a battagliare dai carri. Si erano già dati alla fuga lungo il fiume, non appena avevano visto cadere, nell'aspra lotta, il più valoroso di loro sotto il braccio e la spada del Pelide, di prepotenza. Allora ammazzò Tersiloco, Midone e Astipilo, e via via Mneso, Trasio, Enio e Ofeleste. E ancora di più ne avrebbe ucciso, di Peoni, il veloce Achille, se il fiume vorticoso non andava su tutte le furie e non gli rivolgeva la parola. Assumeva aspetto umano e fece così sentire la sua voce dal profondo gorgo «Achille, tu domini, è vero, in campo su tutti gli altri guerrieri, ma scellerate sono le tue imprese e sempre, vedo, ti proteggono gli dei. Però se il figlio di Crono ti ha concesso di sterminare i Troiani dal primo all'ultimo, cacciali almeno fuori dal mio letto, e vai a compiere le tue prodezze laggiù, per la pianura. Ecco, guarda sono piene di cadaveri le mie belle acque, e non riesco più a versar la corrente nel mare divino per l'ingombro di tanti morti. E tu continui a uccidere e a trucidare. Su, smettila, ti dico, una buona volta mi fai orrore, o condottiero di popoli!» E a lui rispondeva Achille dai rapidi piedi «Farò come vuoi tu, o Scamandro discendente di Zeus! Ma i Troiani qui arroganti non cesserò di massacrarli, finché non li chiudo dentro la città e non mi scontro con Ettore in duello. E là si vedrà o lui abbatte me o son io a uccidere lui.» Così parlava e si lanciò addosso ai Troiani, simile a un demone. E allora diceva ad Apollo il fiume dai vortici profondi «Ohimè, o dio dall'arco d'argento, figlio di Zeus non hai certo seguito la volontà del Cronide ! Ti raccomandava vivamente, lo sai, di assistere e difendere i Troiani, fino a che venisse la sera dal tardo tramonto e coprisse d'ombre la fertile campagna.» Disse. E Achille famoso per la sua lancia balzava in mezzo al fiume spiccando un salto dalla sponda ripida. Allora gli fu addosso lo Scamandro con la furia della sua piena, e sommoveva tutte le acque in un torbo rimescolamento. Travolse così il mucchio dei cadaveri che gli sbarravano il corso - erano le vittime di Achille - e li buttava fuori del suo letto, sulla riva, mugghiando come un toro. I vivi invece li salvava dentro la bella correntia, nascondendoli nel fondo dei suoi vortici immensi. Terribile intorno ad Achille si alzava l'onda torbida lo urtava la massa delle acque rovesciandosi contro lo scudo. Non riusciva più, l'eroe, a star saldo sui piedi. Allora afferrò con le mani un olmo rigoglioso, bel grosso. Ma la pianta si sradicava e cadeva, facendo franare l'intera scarpata. E così si stese sopra la bella fiumana con i suoi fitti rami, e formò un ponte tra le due rive crollandovi dentro in tutta la sua lunghezza. Lui, Achille, fu d'un salto fuori dal gorgo, e si lanciava di corsa per la piana volando con i rapidi piedi era in preda allo sgomento. Ma non desisteva il grande dio, e si buttava su di lui con la sua cresta nereggiante voleva metter fine alla guerra accanita di Achille, e stornare la rovina dai Troiani. Il Pelide si distanziò, d'un balzo, un tiro di lancia. Aveva l'impeto dell'aquila nera, l'aquila cacciatrice, che è la più forte ad un tempo e la più veloce dei volatili. Simile ad essa era Achille nei suoi scatti. Sul petto il bronzo risonava spaventosamente. Gli sgusciava via di traverso e fuggiva sempre. Alle sue spalle scorreva il fiume, lo inseguiva con un vasto fragore. Non è raro vedere l'uomo che irriga muoversi da una bruna sorgente e far la strada a un rivolo d'acqua verso le piantagioni e gli orti. Con la zappa in mano, va gettando fuori dal canale via via ogni intoppo. Corre avanti il rigagnolo, rotolano sul fondo tutti i ciottoli. Ed ecco a precipizio scivola giù e gorgoglia sul terreno in pendio, e sorpassa anche il contadino che gli apre il percorso. Così ad ogni istante il flutto del torrente raggiungeva Achille, per quanto fosse agile e pronto. Gli dei sono davvero più potenti degli uomini! Ogni volta che il grande Achille dai piedi gagliardi cercava di piantarglisi arditamente di fronte, e così sapere se gli davano la caccia tutti gli immortali che abitano l'ampio cielo subito la grossa ondata del fiume nutrito di piogge lo investiva dall'alto, dilagando sulle sue spalle. E lui, l'eroe, dava un gran balzo in avanti, con l'angoscia in cuore. Ma il torrente gli legava le ginocchia scorrendo violento, gli mangiava il terreno polveroso sotto i piedi. Gettò un grido di lamento, il Pelide, volgendo gli occhi verso il vasto cielo. Diceva «Zeus padre, guarda, nessuno degli dei ha avuto cuore di salvarmi, nella mia disavventura, dal fiume qui. E allora venga pure la fine! Ma non uno degli dei celesti, ai miei occhi, ha colpa mia madre sola è responsabile, lei che mi lusingava con false promesse! Sì, mi diceva che sarei perito sotto le mura dei Troiani per i rapidi dardi di Apollo. Ah, mi avesse ammazzato Ettore, che almeno è il più valoroso degli uomini cresciuti da queste parti! Così mi avrebbe ucciso un prode, e avrebbe spogliato delle armi un altro prode. Ora invece è destino che sia colto da una morte miserevole, preso in mezzo a una massa di acque. Proprio come capita a un giovane porcaro che un torrentaccio trascina lontano, mentre tenta di guardarlo in un giorno di burrasca.» Così diceva. E prontamente vennero a mettersi accanto a lui Posidone e Atena avevano l'aspetto di uomini mortali. Gli stringevano le mani, s'impegnavano a proteggerlo. E tra loro prendeva a parlare Posidone l'Ennosigeo «Pelide, non scappare più, non aver paura! Vedi, siamo qui noi due, tra gli dei, a soccorrerti, io e Pallade Atena, con il consenso di Zeus. Non è destino per te, sappilo, esser abbattuto da un fiume, ma lui qui ben presto si calmerà, lo vedrai da solo. A te poi vogliamo suggerire una cosa saggia, se ci dai retta non desistere dai tuoi assalti, in questa lotta implacabile, prima di aver rinserrato dentro le mura di Ilio la massa dei combattenti troiani, quelli che riusciranno a scampare! Tu togli ad Ettore la vita e torna indietro alle navi! Noi ti concediamo di acquistarti gloria.» Così là dicevano e se n'andarono, tutt'e due, tra gli immortali. Lui allora si avviò, lo stimolava l'ordine degli dei correva verso la pianura. L'intera campagna era coperta dall'acqua straripata vi galleggiavano tante belle armature di giovani fatti a pezzi, e tanti cadaveri. Faceva alti salti nell'avanzare diritto, in lotta con la corrente e non lo fermava più la distesa tumultuosa delle acque. Una grande energia gli aveva messo addosso Atena. Ma lo Scamandro non diminuiva la sua veemenza, anzi montava in furia ancora di più contro il Pelide, e levava la cima tempestosa del flutto ergendosi in alto. Veniva chiamando a gran voce il Simoenta «Fratello mio, freniamo, almeno in due, la prepotenza di un uomo! Ben presto, credi, distruggerà la grande città del re Priamo i Troiani non gli resisteranno nello scontro. Via, alla riscossa, subito! Ingrossa il tuo corso con l'acqua delle sorgenti! Risveglia tutti i ruscelli! Solleva un gran flutto e suscita un vasto fragore di tronchi e sassi! Così faremo fuori questo selvaggio guerriero che ora, vedi, domina in campo e presume di essere uguale a un dio. Ma né forza né bellezza, ti assicuro, gli saranno di aiuto, né quelle sue armi splendide che devono giacere qui, in fondo alla palude, coperte di fango. E lo voglio avvolgere nella sabbia, rovesciargli addosso una quantità di ghiaia a non finire. E neanche le sue ossa sapranno più, gli Achei, dove raccoglierle, tanta melma gli butterò sopra. Là sarà anche la sua tomba e non occorrerà fabbricargli un tumulo, quando gli Achei celebreranno le sue solenni esequie.» Disse e piombò su Achille con le sue acque torbide gonfiandosi alto con furore, in un gorgogliare di schiuma e sangue e cadaveri. L'onda incupita del fiume caduto dal cielo montava insorgendo e stava per abbattere il Pelide. Ma ecco che Era mandò un lungo grido, in apprensione per Achille aveva paura che lo travolgesse il grande fiume dai gorghi profondi. Subito si rivolgeva ad Efesto, il suo caro figlio «Su, storpietto, creatura mia! Senti un avversario degno di te abbiam sempre creduto fosse in battaglia il Santo vorticoso. Via allora, presto, alla riscossa! Fa' divampare una larga fiamma! Intanto io andrò a suscitar, dalla parte del mare, una violenta burrasca di Zefiro e di Noto, che arderà i corpi dei Troiani caduti e le loro armature portandovi l'incendio devastatore. E tu, lungo le rive del Santo, brucia le piante, avvolgi anche lui tra le fiamme, e non lasciarti distogliere né da parole cortesi né da imprecazioni! E non sospendere la tua furia sin a quando non ti chiamo con un grido! Solo allora tu devi arrestare l'infaticabile fuoco.» Così diceva. Ed Efesto dava avvio a un incendio straordinario. E la fiammata bruciava prima nel piano, bruciava i numerosi cadaveri che ingombravano la corsa del fiume - erano le vittime di Achille. L'intera pianura si disseccò si arrestava l'acqua balenante. Come quando in autunno Borea asciuga in un attimo un terreno coltivo, irrigato di fresco ed è ben contento chi lo deve sarchiare così là si inaridì tutta la campagna e il fuoco ardeva i cadaveri. Poi Efesto rivolse la fiamma divampante verso il corso del fiume. Bruciavano allora gli olmi, i salici e i tamerischi, bruciava il trifoglio e il giunco e il cipero - che crescevano intorno alle belle acque del fiume in abbondanza. Soffrivano le anguille e i pesci dentro i gorghi, e saltavano qua e là nella correntia, tormentati dall'alito di Efesto, il dio versatile e ingegnoso. Si ustionava il fiume nella sua vitalità, e a lui si rivolgeva e disse «Efesto, nessuno, lo so, degli dei ha la forza di mettersi contro di te, e neanch'io ho voglia di combatterti, con questo tuo ardore rovente. Così desisti ora dalla lotta! E Achille cacci pure dalla città, anche subito, i Troiani.! Che m'importa ormai di guerra e di soccorso?» Parlava e il fuoco intanto lo scottava e si levavano gorgogliando le sue acque. Come quando una caldaia bolle in fretta a un gran fuoco mentre fa sciogliere il grasso di un tenero porcello, traboccando da ogni parte al di sotto stanno i pezzi di legna secca così le correnti del Santo si scaldavano a quell'incendio, l'acqua andava ribollendo. E non riusciva più a procedere a valle, sostava stagnante. L'opprimeva la vampa della gagliarda violenza di Efesto, l'industre dio. Allora lui, il Santo, pregava vivamente Era, le rivolgeva parole «Era, come mai tuo figlio si è buttato sul mio corso a rovinarlo a preferenza degli altri? Io, in fondo, non sono colpevole nella stessa misura di tutti quanti gli altri sostenitori dei Troiani. Da parte mia, ti assicuro, desisterò, se tu lo vuoi. Ma la smetta anche lui qui! E inoltre voglio farti un giuramento no, non porterò mai aiuto ai Troiani per stornar da loro il giorno della sventura, neppure quando brucerà Troia intera tra le fiamme di un fuoco violento, e a incendiarla saranno i bellicosi figli degli Achei.» Non appena ebbe sentito ciò la dea dalle candide braccia Era, subito si rivolgeva ad Efesto, il suo caro figlio «Efesto, ora basta, mia nobile creatura! Credi, non è giusto maltrattare così un dio immortale, per amore di uomini destinati a perire.» Così diceva. Ed Efesto spense l'incendio prodigioso. Tornava l'acqua a discendere per il suo bellissimo corso. Quando fu domata la furia del Santo, i due avversari si misero in pace Era, si è visto, fermava il figlio, pur covando sempre la sua collera. Ma tra gli dei scoppiava una pesante crucciosa baruffa soffiavano in loro passioni contrarie. Si avventarono gli uni addosso agli altri con un forte frastuono, risonava la vasta terra, e tutto all'intorno l'ampio cielo mandò i suoi squilli. Sentiva Zeus, seduto sull'Olimpo e gli rideva il cuore dalla gioia al vedere azzuffarsi gli dei. Allora essi non stavano più tanto tempo a distanza. E cominciava Ares, foratore di scudi fu il primo a lanciarsi su Atena con la lancia di bronzo e le disse parole ingiuriose «Perché provochi ancora, o cagna mosca, gli dei alla lotta con insolenza sfrenata? Avevi molta voglia, si vede, di venir alle mani! Di', non ricordi quando hai spinto il Tidide Diomede a ferirmi? ed eri tu, sotto gli occhi di tutti, che gli reggevi l'asta, e la cacciasti dritta contro di me, e mi lacerasti la bella persona? Così ora te la farò pagare, penso, la tua prodezza.» Così diceva e la colpì sull'egida ricca di frange, paurosamente abbagliante, che neppure il fulmine di Zeus riesce a trapassare. Là, con la lunga lancia, Ares la toccò - il dio sempre lordo di sangue. Lei si traeva indietro e afferrò con la robusta mano un sasso scuro lì a terra, tutto a punte, enorme, che uomini di altro tempo avevano posto quale confine di podere. Con quello percosse al collo Ares impetuoso e gli sciolse le membra. Crollò al suolo, il dio, occupando sette pletri, e s'impolverava tutta la capigliatura le armi risonarono all'intorno. Scoppiò in una risata Pallade Atena, e con aria trionfante gli rivolgeva parole «Sei proprio un bamboccio! E non hai ancora capito quanto ti sia superiore - e me ne vanto. E tu, ecco, ti metti alla pari con me per la forza e il valore. Così ora sconterai le maledizioni di tua madre che è in collera con te e medita la tua rovina, perché hai abbandonato gli Achei e porti aiuto ai superbi Troiani.» Così parlava e distolse da lui gli occhi balenanti. Voleva, Afrodite, la figlia di Zeus, prenderlo per mano e menarlo via. Lui là si lamentava forte senza posa, a stento riusciva a ripigliare la conoscenza. Ma la vide la dea dalle bianche braccia, Era, e subito rivolgeva ad Atena queste parole «Ah, figlia di Zeus egioco, Atritone! Guarda la cagna mosca là cerca di condurre via Ares sterminatore di mortali fuori dalla furia della lotta, attraverso la mischia. Su, valle addosso!» Così diceva e Atena le si lanciò dietro con vera gioia. L'affrontava, e con la salda mano la colpì al petto si sciolsero ad Afrodite le ginocchia, venne meno il cuore. Giacevano allora tutt'e due, stesi a terra e con aria di trionfo Atena gridava «Questa sia la sorte di tutti i protettori dei Troiani, per la guerra che fanno agli Argivi armati di corazza! E si mostrino sempre così animosi e resistenti, come è stata Afrodite qui nel venire in soccorso di Ares e nell'opporsi alla mia furia! Oh, allora già da un bel pezzo avremmo messo fine alla lotta, con la distruzione della solida città di Ilio!» Così diceva e sì mise a sorridere la dea dalle candide braccia, Era. Intanto il potente Ennosigeo parlava ad Apollo «Febo, perché mai noi due ci teniamo a distanza? Non sta bene gli altri, vedi, già attaccano. Sarà una vergogna, se senza scontrarci ritorniamo all'Olimpo, nella reggia di Zeus dalla soglia di bronzo. Su, allora, incomincia! Tu, vedi, sei più giovane. E per me non è bello, penso, iniziare il combattimento sono nato prima, lo sai, ed ho maggiore esperienza. Però, che ingenuo sei! quanto stordito! Proprio non ti ricordi dei torti che patimmo intorno ad Ilio, noi due soli tra gli dei! Per ordine di Zeus, sai bene, andammo a lavorare per un anno dal superbo Laomedonte, a una paga convenuta e lui, da padrone, comandava. Sì, io ai Troiani costruii, intorno alla città, le mura ed erano larghe e belle davvero. Volevo che Ilio fosse inespugnabile. Tu invece, Febo, andavi pascolando i tardi buoi dalle corna ricurve, là nelle convalli dell'Ida selvosa, piena di gole. Ma quando finalmente veniva il tempo sospirato della retribuzione, quel violento di Laomedonte ci defraudò dell'intera mercede e ci mandava via con minacce. Sì, ci minacciò di legarci mani e piedi e di traghettarci in isole lontane e aveva tutta l'aria di voler tagliarci gli orecchi con un'arma di bronzo. E allora noi due facevamo ritorno con animo sdegnato, furenti per via del salario che ci aveva promesso e non pagato. Ed ecco, tu ora favorisci le genti di costui, e non ti sforzi, insieme a noi, di far scomparire gli arroganti Troiani - a precipizio, malamente, con i loro figli e le auguste spose.» E a lui rispose allora il sovrano arciere Apollo «Ennosigeo, non mi diresti sensato, se mi battessi proprio con te per amore di poveri mortali. Essi, credi, somigliano alle foglie oggi sono pieni di vigore e mangiano i frutti della campagna, e domani periscono senza più vita. E allora desistiamo subito dalla lotta e loro qui si azzuffino da soli!» Così parlava e si allontanò di là non voleva evidentemente venire alle mani con lo zio paterno. Ma duramente lo rimproverava sua sorella, la signora delle fiere, Artemide selvaggia, e gli rivolgeva parole offensive «Scappi, eh, Arciere, e dai così piena vittoria a Posidone gli concedi un trionfo senza battaglia! Stupido, perché porti l'arco allora, se non ti serve? Che non ti senta più d'or innanzi nel palazzo del padre, fra gli dei immortali, vantarti, come facevi prima, che ti saresti scontrato con Posidone faccia a faccia!» Così diceva nulla le rispose Apollo arciere. Ma andava su tutte le furie la veneranda sposa di Zeus, e investì la Saettatrice con parole ingiuriose «Come hai il coraggio, o cagna sfrontata, di tenermi testa? Ti sarà ben difficile contrastare alla mia forza, anche se porti arco e frecce. Già, e vero, Zeus ti fece una leonessa tra le donne mortali e ti concesse di ammazzare quelle che vuoi. Ma è meglio, vedrai, uccidere per i monti le belve e le cerve selvatiche, che non entrare in lotta aperta con chi è più forte. E se ora vuoi imparare cosa sia la guerra, ecco, prova! Così saprai quanto ti sono superiore, visto che mi stai di fronte!» Disse, e con la sinistra le afferrava, al polso, tutt'e due le mani con la destra le strappava da tracolla l'arco e la colpiva in faccia, presso gli orecchi - e intanto rideva. L'altra si divincolava cadevano a terra i dardi. In lacrime alla fine riuscì, la dea, a scappar via di sotto come fa la colomba inseguita da uno sparviero, che si rifugia a volo in un buco della rupe, dentro un crepaccio - non era ancora destino che fosse ghermita. Così lei piangendo fuggì via e lasciò lì arco e frecce. Allora disse a Latona il messaggero Argicida «Latona, senti, non ho voglia di combattere con te. È pericoloso, lo so, battersi con le spose di Zeus adunatore di nembi. E tu, fra gli dei immortali, vantati pure, a tuo piacimento, di avermi vinto con la tua forza gagliarda!» Così parlava Ermes. E Latona raccoglieva al suolo l'arco ricurvo e i dardi, che erano disseminati qua e là in mezzo al turbinio della polvere. Poi se ne andava via, con le armi in mano di sua figlia. E lei, Artemide, giungeva all'Olimpo, nella reggia di Zeus dalla soglia di bronzo, e tutta in pianto si sedeva, la giovinetta, sulle ginocchia del padre. Addosso le tremava la veste divina. Se la trasse accanto il padre Cronide, e le domandava con un dolce sorriso «Chi degli dei del cielo, figlia mia, ti ha trattata così, senza una ragione, come se qualcosa di male avessi fatto sotto gli occhi di tutti?» E a lui rispose la dea dalla bella corona, amante della caccia strepitosa «Tua moglie è stata, o padre, a maltrattarmi Era, sì, dalle bianche braccia. Sempre da lei derivano risse e rancori tra gli immortali.» Così essi parlavano tra loro. Intanto Febo Apollo penetrò nella sacra Ilio pensava alle mura della città ben fabbricata, temeva che i Danai le distruggessero quel giorno, contro il destino. Gli altri dei sempiterni giungevano all'Olimpo, chi crucciato e chi trionfante e si mettevano a sedere ai lati del padre, il dio delle nuvole oscure. Frattanto Achille, laggiù, faceva strage di Troiani insieme e di cavalli dalla solida unghia. Come quando si leva il fumo da una città che brucia, arrivando all'ampio cielo è stata la collera degli dei a suscitare l'incendio e tutti mette in faccende, a molti inoltre apporta guai così Achille dava briga e dolori ai Troiani. Stava il vecchio Priamo sulla torre divina, e scorse laggiù Achille gigantesco e davanti a lui fuggivano in disordine i Troiani spaventati, e non c'era più nessuna resistenza. Allora, con un grido di lamento, scendeva dalla torre e dava ordini ai bravi guardiani là lungo il muro «Tenete spalancate le porte con le mani, fino a che i nostri combattenti arrivano atterriti, in rotta, alla città. Sì, Achille è già qui, sappiatelo, a due passi e li incalza. Ora, lo sento, sarà la rovina. E quando son tutti dentro le mura a riprender fiato, rinchiudete bene i battenti! Ho paura, vi dico, che quel guerriero funesto salti dentro le mura.» Così parlava ed essi aprirono le porte spingendo indietro i catenacci. E queste, a spalancarsi, fecero apparire la luce della salvezza. Allora Apollo si lanciò fuori per stornare dai Troiani la rovina. E loro fuggivano difilato verso la città e le alte mura, arsi di sete, coperti della polvere del piano. Senza tregua Achille gli dava la caccia con la lancia in pugno una rabbia brutale lo possedeva di continuo, era smanioso di procurarsi gloria. In quel giorno i figli degli Achei avrebbero preso Troia dalle alte porte, se Febo Apollo non incitava alla battaglia il grande Agenore, eroe irreprensibile e gagliardo, figlio di Antenore. Gli mise in cuore ardimento, gli si pose da presso, appoggiato là al faggio voleva tenergli lontano le feroci dee della morte. Era avvolto da una densa nebbia. Ma quando Agenore scorse Achille il distruttore di città, si fermò e il cuore gli batteva forte nell'attesa. E allora diceva turbato dentro di sé «Ahimè! se scappo davanti al forte Achille dalla parte dove si disperdono atterriti gli altri, lui mi prenderà e mi taglierà la gola come a un vile. Ma potrei anche, loro qui in rotta, lasciarli inseguire dal Pelide Achille, e io intanto scostarmi dalle mura e darmela a gambe in un'altra direzione, verso la pianura d'Ilio e così arrivare fra le gole dell'Ida e buttarmi dentro le macchie. A sera, poi, faccio un bagno nel fiume, mi asciugo il sudore e ritorno in Ilio... Oh, ma perché mi lascio andare a questi pensieri? C'è sempre il pericolo che lui mi veda sgattaiolar via dalla città verso il piano, e che mi corra dietro e mi raggiunga rapidamente a piedi. E allora non ci sarà più modo di schivare la morte e il destino è molto vigoroso, lo so, più di tutti gli altri uomini. Ma se lo affrontassi qui, davanti alla città? Anche lui, penso, ha, sì, una pelle vulnerabile da punta di bronzo e mortale lo dice la gente. Intanto però Zeus Cronide gli concede la gloria.» Così diceva e aspettava Achille, tutto raccolto dietro lo scudo era ben deciso a venire a battaglia con lui. Come un leopardo sbuca da una folta macchia ad affrontare un cacciatore, e non ha paura né scappa a sentir i latrati dei cani e se anche l'uomo lo ferisce per primo o lo raggiunge con un tiro da lontano, non desiste dal suo attacco, pur trafitto com'è dall'asta, finché non s'azzuffa con lui o viene atterrato così il figlio del nobile Antenore, il divino Agenore, era risoluto a non fuggire prima di misurarsi in armi con Achille. Si teneva davanti al petto lo scudo rotondo, ben equilibrato da ogni parte, e con la sua lancia lo prendeva di mira e gridava a gran voce «Oh, sì, tu covi certo dentro dite, o splendido Achille, la speranza di distruggere in questo giorno la città dei Troiani. Povero illuso! Avrete ancora, te lo dico, molti guai da patire per essa. Siamo in molti qui, sappilo, e tutti valorosi guerrieri e difendiamo Ilio per i nostri genitori, e le spose e i figlioli. Ma tu andrai incontro, su questa terra, al destino di morte, anche se sei un guerriero così terribile e ardimentoso.» Disse, e scagliò con la gagliarda mano la lancia acuminata. Allo stinco lo colpì, sotto il ginocchio non sbagliava il bersaglio. Risonò forte all'intorno lo schiniere di stagno, lavorato di recente ma l'arma rimbalzò indietro a quell'urto, senza trafiggere. Resistette l'opera del dio. Subito dopo Achille si avventò sul divino Agenore. Ma Apollo non gli permise di aver la vittoria sottrasse Agenore, l'avvolse in una fitta nebbia, e lo avviava al sicuro, via dal campo di battaglia. Poi il dio con un inganno allontanava il Pelide dalla massa dei Troiani prendeva, l'Arciere, l'aspetto di Agenore in tutto e per tutto, e gli si mise davanti. E lui, Achille, si lanciò a rincorrerlo. L'uno inseguiva l'altro per la pianura fertile di frumento, in un ampio giro lungo il fiume Scamandro dai vortici profondi. Gli correva davanti, Apollo, di poco, e con malizia lo illudeva nella speranza continua che riuscisse a raggiungerlo coi propri piedi. Gli altri Troiani intanto, in preda al panico, arrivarono in folla dentro la città, con un senso di sollievo e Troia si riempì di una moltitudine di guerrieri. Non avevano il coraggio di aspettarsi a vicenda fuori delle mura, e sapere così chi era riuscito a scappare e chi era morto in combattimento ma erano ben felici di riversarsi dentro la città - quanti almeno piedi e ginocchi avevano portato in salvo. §