Libro XIX

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Aurora nel peplo color arancione sorgeva dalle correnti dell'Oceano, a portar luce agli immortali e agli uomini e lei, Tetide, arrivava alle navi recando i doni da parte del dio. Trovò il suo caro figliolo che stava abbracciato a Patroclo piangeva forte. E intorno a lui erano in lacrime numerosi compagni. Ella si presentava, la divina tra le dee, in mezzo ad essi. Lo prese premurosa per mano, gli si rivolgeva e disse «Figlio mio, lui qui lasciamolo riposare disteso, anche se ci è doloroso! Lo sai anche tu fu abbattuto per volontà degli dei. E ora prendi, da parte di Efesto, queste magnifiche armi, tanto belle! Nessun guerriero ne portò mai addosso di uguali.» Così parlava la dea, e posò giù a terra le armi davanti ad Achille e squillarono là - una meraviglia d'arte come erano tutte quante. I Mirmidoni allora li afferrò il tremito, tutti nessuno ebbe cuore di fissarle a lungo, ma si ritrassero. Invece Achille, solo a vederle, l'invase la collera ancora di più, i suoi occhi sotto le palpebre balenarono terribilmente come fiamma. E maneggiava con gioia gli splendidi doni del dio. E quando fu sazio di rimirare quel miracolo d'arte, subito rivolgeva a sua madre tali parole «Madre mia, le armi qui me le ha fornite davvero un dio e sono come devono essere i lavori degli immortali, un uomo non li sa fare. Ecco, ora io mi armerò! Ma ho una grande paura che le mosche penetrino intanto dentro il corpo del forte figlio di Menezio, attraverso le ferite aperte dai colpi del bronzo, e vi facciano nascere vermi e guastino così il cadavere. La vita, vedi, ormai è spenta e può imputridire in tutta la sua carne.» E a lei rispondeva allora la dea Tetide dal piede d'argento «Figlio, non darti pensiero di questo! Vedrò io di tenergli lontano i selvaggi sciami delle mosche, che divorano, è vero, gli eroi uccisi in battaglia. E se anche dovesse giacere, te l'assicuro, per un anno intero, sempre lui qui avrebbe il corpo intatto, anzi più fresco che non ora. Ma tu, via, chiama all'adunanza i guerrieri achei, metti fine al tuo risentimento contro Agamennone pastore di popoli, e armati subito per la battaglia! Rivestiti del tuo valore!» Così parlava e gli mise addosso energia e una grande baldanza. A Patroclo poi istillò giù per le narici ambrosia e rosso nettare in tal modo le sue membra restavano inalterate. Allora lui andò, il divino Achille, lungo la riva del mare, levando un fiero interminabile grido, e fece accorrere i guerrieri achei. Perfino quanti, sin a quel tempo, solevano rimanere nel campo dove stavano le navi, e cioè quelli che erano piloti e reggevano il timone seguendo la rotta, e quelli che erano dispensieri e distribuivano alle truppe la razione di vivande, si recavano tutti quel giorno all'assemblea era ricomparso Achille! da tanto ormai s'era tenuto lontano dalla triste guerra! E si avviarono zoppicando i due servitori di Ares, il Tidide intrepido in battaglia e il grande Odisseo si appoggiavano all'asta, avevano ancora le ferite doloranti. Andarono a sedersi là in mezzo, ai primi posti. Per ultimo poi venne Agamennone, signore di guerrieri anche lui era ferito, in un aspro combattimento l'aveva colpito Coone, figlio di Antenore, con la lancia dalla punta di bronzo. Quando si furono riuniti tutti gli Achei, in piedi là in mezzo a loro parlò Achille «Atride, lo vedi, fu proprio un bene per tutt'e due qui - dico per me e per te - che noi, sì, crucciati c'infuriassimo in una contesa mortale per via di una ragazza? Oh, magari l'avesse, Artemide, uccisa con una freccia sulle navi, quel giorno che la catturai durante la distruzione di Lirnesso! Così non avrebbero morso la terra tanti Achei sotto le braccia dei nemici, dopo lo scoppio della mia collera. Per Ettore, sì, e per i Troiani fu un buon affare gli Achei invece se la ricorderanno a lungo, penso, la nostra lite. Ma via, quel che è stato è stato lasciamo perdere, anche se ci costa, e dominiamo il nostro animo! È necessario. Ecco, oggi io metto fine all'ira. Non è giusto davvero che stia ostinatamente in collera sempre. Ma tu, via, presto, incita gli Achei alla battaglia! Voglio affrontare ancora una volta i Troiani, e vedere così se intendono passar la notte nei pressi delle navi! E più d'uno, penso, stenderà ben volentieri al riposo le ginocchia, se pur riesce a scampare alla furia dello scontro, di sotto alla nostra lancia.» Così parlava. Ed esultarono di gioia gli Achei dai buoni schinieri all'udire che il magnanimo Pelide poneva fine al suo risentimento. E tra loro prese a parlare Agamennone signore di uomini, là dal suo posto, senza levarsi in piedi in mezzo all'assemblea «Amici, guerrieri danai, servitori di Ares! É bello, sì, star a sentire uno qui in piedi, e non sta bene interromperlo dà fastidio, è chiaro, anche a chi sa parlare. Ma in mezzo al chiasso di una folla numerosa, come è possibile, ditelo voi, dar ascolto o parlare? Si confonde, penso, pure un oratore eloquente. Ora io voglio, è ben vero, spiegarmi con il Pelide ma state attenti anche voi altri Argivi, e intendete bene, uno per uno, il mio discorso! Ecco, più di una volta gli Achei mi buttarono là mezza parola e se la prendevano con me. Ma io, credete, non ho colpa! Responsabili sono invece Zeus e il Destino e l'Erinne che si aggira tra le tenebre loro, sì, mi misero addosso un selvaggio accecamento, quel giorno che rapii di mia iniziativa il premio d'onore di Achille. Ma che ci potevo fare? È la divinità che porta a compimento ogni cosa. Sì, è la veneranda figlia di Zeus, Ate, la quale offusca tutti, quella maledetta! Leggeri ha i piedi, non struscia, sapete, per terra, ma se ne va sulle teste degli uomini a ottenebrargli la mente e uno su due almeno, vi dico, l'accalappia. Perfino Zeus, dovete sapere, essa riuscì una volta ad annebbiarlo Zeus, sì, che pur è, come dice la comune credenza, superiore agli uomini e agli dei. Proprio, anche lui e fu Era con la sua sottile malizia di femmina ad ingannarlo, Era il giorno che Alcmena doveva mettere al mondo il fortissimo Eracle, là a Tebe dalla bella corona di mura. Orbene, per vanteria egli diceva allora a tutti gli dei "Ascoltatemi, o dei e dee tutti quanti intendo comunicarvi una cosa, me l'impone il cuore. Ecco, oggi Ilitia, la dea dei parti, farà venire alla luce un maschio che è destinato a regnare su tutti i vicini e della stirpe degli eroi che discendono dal mio sangue." E a lui diceva, con una sua mira segreta, Era sovrana "Un bugiardo sei, e lo si vedrà! Alle parole non farai seguire i fatti. Su, giurami allora subito, o Olimpio, con un solenne giuramento, che davvero è destinato a regnare su tutti i vicini chi cadrà in questo giorno fra i piedi di una donna - se appartiene alla razza degli eroi che discendono dal tuo sangue." Così parlava Zeus non vide affatto la malizia, ma pronunciò un grande giuramento e prese così un grosso abbaglio. Era allora, d'un volo, lasciò la cima dell'Olimpo e in tutta fretta giunse ad Argo di Acaia là appunto, lo sapeva, stava la robusta sposa di Stenelo figlio di Perseo. Questa portava in grembo un maschio, ed era nel settimo mese. E lei, la dea, lo trasse fuori alla luce prima del tempo, sebbene non fosse al mese giusto e ritardava intanto il parto di Alcmena, ne sospese le doglie. Poi andava lei, di persona, a dargli la notizia, a Zeus Cronide "Zeus padre, signore del fulmine abbagliante, ho da dirti una cosa. È già nato l'eroe valoroso che regnerà sugli Argivi! É Euristeo, figlio di Stenelo il Perside sangue tuo. Non è poi una sconvenienza che sia il sovrano degli Argivi!" Così diceva. E allora un feroce dolore colpì il dio nel profondo dell'animo. Subito afferrava Ate alla testa per le morbide chiome, in preda alla rabbia com'era, e giurò con solenne giuramento che mai più sarebbe tornata all'Olimpo e al cielo stellato lei, sì, Ate, la dea dell'errore, che fa tutti errare. E così dicendo la faceva rotear col braccio per aria e la scaraventò giù dal cielo ed essa giunse d'un volo sui campi lavorati degli uomini. E di lei poi sempre si ricordava sospirando, ogni volta che vedeva suo figlio faticare miseramente per via delle imprese imposte da Euristeo. E così è successo a me quando il grande Ettore faceva strage di Argivi accanto alle poppe delle navi, non riuscivo a dimenticarmi di Ate che mi aveva reso stordito. Ma siccome mi lasciai accecare e Zeus mi tolse il lume della ragione, sono disposto a fare ammenda e a offrirti regali a non finire. Via, tu scendi in campo ora, e incita alla battaglia gli altri combattenti! E per i doni, eccomi qui pronto a darteli, tutti quelli che Odisseo è venuto ieri a prometterti nel tuo alloggio. E se non ti dispiace, aspetta qua, anche se sei impaziente di guerreggiare; e i miei aiutanti possono andare intanto a prendere i regali dalla mia nave e portarteli. Così li vedrai saranno di tuo pieno gradimento.» E a lui rispondeva Achille dai rapidi piedi «Atride glorioso, Agamennone signore di guerrieri, quanto ai doni, se vuoi, offrimeli, come è giusto o se no, tienteli! Fa' quel che ti pare! Ma ora pensiamo alla battaglia, subito, adesso! Non si deve stare qui a far chiacchiere né a perder tempo la grande impresa, vedete, non è ancora compiuta. E come Achille lo si vedrà di nuovo, in prima fila, sterminare le schiere dei Troiani con la lancia di bronzo, così ciascuno di voi pensi solo a battersi con il suo avversario!» Gli rispondeva il saggio Odisseo «No, Achille! Un valoroso, è vero, tu sei, ma non voler così spingere verso Ilio, digiuni come sono, i figli degli Achei a battersi coi Troiani! A lungo, lo sai bene, durerà la lotta, non appena si scontrano le schiere dei guerrieri e un dio infonde energia agli uni e agli altri. Piuttosto da' ordine agli Achei di prendere il loro pasto di pane e vino presso le navi ché qui sta, lo sappiamo, la forza e il vigore. Credetemi nessun uomo a stomaco vuoto ce la farà a combattere per l'intera giornata a corpo a corpo, fino al tramonto del sole. E se anche, vedete, ha tutta la buona voglia di lottare, a poco a poco gli si appesantiscono le membra, sopraggiunge la sete e poi la fame, gli vacillano le ginocchia ad ogni passo. Quando invece uno è ben sazio di cibo e di vino, può star in campo contro i nemici anche tutto il giorno e ha cuore ardito, non si sente addosso la spossatezza, fin al momento che tutti si ritirano dalla battaglia. Su, allora, sciogli l'adunanza e da' l'ordine di preparare il pasto! E intanto Agamennone farà qui portare, in piena assemblea, i doni così tutti gli Achei hanno modo di vederli, sotto i loro occhi. E tu ne avrai gioia e conforto. E inoltre egli deve giurarti, in piedi qua tra gli Argivi, che non è mai salito sul letto di lei e non le si è unito in amore, come è normale, o sovrano, tra uomini e donne. E così anche tu ti metti il cuore in pace! E poi ancora deve riconciliarsi sinceramente con te, nella sua baracca, con un sontuoso banchetto. Avrai così intera soddisfazione. E tu, Atride, d'ora innanzi sarai più giusto, anche nei riguardi degli altri! È doveroso, credo, che un re risarcisca un guerriero, quando è stato il primo a offenderlo.» E a lui rispose Agamennone signore dì uomini «Ho sentito, o Laerziade, con piacere, queste tue parole hai trattato ed esposto bene, credimi, ogni punto. Sì, sono pronto a giurare, anzi me l'impone il cuore, e non voglio essere spergiuro di fronte alla divinità. Intanto Achille rimanga qui, anche se è impaziente di guerreggiare! E restate pure riuniti voi altri tutti, in attesa che arrivino dal mio alloggio i doni, e stringiamo con un sacrificio un accordo leale. A te poi, Odisseo, ecco cosa ordino e dico scegli i migliori giovani fra tutti gli Achei e porta dalla mia nave i regali, quelli che ieri abbiamo promesso di dare ad Achille e mena qui le donne! E Taltibio andrà subito a procurare, per l'accampamento, un cinghiale intendo sacrificarlo a Zeus e al Sole.» Gli rispondeva Achille dai rapidi piedi «Atride glorioso, Agamennone signore di guerrieri, in altro momento, mi pare, potete occuparvi più opportunamente di tali faccende quando ci sarà qualche tregua di guerra, ed io non avrò tanta smania addosso. Ora i caduti stanno là per terra, straziati li ha abbattuti Ettore il Priamide, nei giorni che Zeus gli concedeva la gloria ed ecco, voi due volete mandar l'esercito a mangiare! Sia chiaro io, per parte mia, subito li farei scendere in campo, i figli degli Achei, così, digiuni, affamati e al tramonto del sole, gli farei preparare una grande cena, dopo che avremo vendicato l'onta. Ma prima, in nessuna maniera, a me almeno, andrà giù per la gola bevanda o cibo, al pensiero che l'amico è morto e mi giace là, nella baracca, lacerato dall'acuta arma di bronzo, rivolto verso la porta con i piedi; e intorno, i compagni sono in lacrime. Per questo non mi preme il mangiare e il bere, ma sogno solo strage e sangue e lo straziante lamento dei guerrieri.» E a lui rispondeva il saggio Odisseo «Achille figlio di Peleo, senza eguali per prodezza tra gli Achei! Tu sei più forte di me e più gagliardo, e non di poco davvero, a vibrare col braccio la lancia ma io ti potrei battere in sagacia, e di molto! Vedi, sono nato prima e ho maggiore esperienza. Perciò abbi pazienza e ascolta i miei consigli! Ben presto, credimi, viene a noia la lotta, se molta è la paglia che l'arma di bronzo rovescia a terra, e ben poca è la messe. E lo si vede al momento decisivo, quando Zeus fa piegare la sua bilancia è lui l'arbitro, tra gli uomini, della guerra. Non possono gli Achei piangere i morti con la fame in corpo purtroppo, vedi, ne cadono tanti, uno dopo l'altro, tutti i giorni. E quando si avrebbe respiro dalla pena? Nostro dovere è dare sepoltura a chi è caduto, con animo impassibile, e piangerlo un giorno solo. E d'altra parte quelli che sopravvivono agli orrori della battaglia, devono pensar a bere e a mangiare così combatteremo ancora meglio contro i nemici, senza mai tregua, sempre, rivestiti di duro bronzo. E nessuno dei nostri si fermi poi ad aspettare un altro appello! Eccola qui, ricordatevela, la consegna guai a chi resta indietro, accanto alle navi! avanti, tutti uniti, addosso ai Troiani, a ingaggiare un'aspra lotta!» Disse, e si prese con sé i figli del glorioso Nestore, il Filide Megete, Toante, Merione, Licomede di Creonte e Melanippo. E poi insieme si mossero per andare all'alloggio dell'Atride Agamennone. Detto fatto portavano fuori dalla baracca i sette tripodi promessi, i venti bacili lucidi di rame e i dodici cavalli. Poi conducevano fuori in fretta le donne, abili nell'eseguire lavori impeccabili sette erano, e otto con la Briseide dalle belle guance. Odisseo pesava i talenti d'oro, dieci in tutto, e si avviò avanti per primo. I doni li portavano dietro a lui gli altri, i giovani achei, e li posarono giù in mezzo all'assemblea. Allora Agamennone si levava in piedi. Gli si metteva vicino, al pastore di popoli, con il cinghiale tra le braccia l'araldo Taltibio, somigliante a un dio nella voce. L'Atride traeva fuori il largo coltello che gli stava sempre appeso a tracolla, accanto al grande fodero della spada, e recideva dalla testa del cinghiale un ciuffo di peli poi levando le mani verso Zeus pregava. E loro tutti, al proprio posto, gli Argivi, sedevano in silenzio, come era dovere, e ascoltavano il re. Diceva pregando, con gli occhi rivolti verso l'ampio cielo «Mi sia ora testimone prima di tutto Zeus, il supremo degli dei e il più grande e la Terra e il Sole, e le Erinni che puniscono gli uomini sotterra, chiunque fa un giuramento falso! No, io non ho mai messo le mani addosso alla giovane Briseide, né per voglia di amore né per altra ragione ma lei è rimasta, nel mio alloggio, intatta. E se la mia dichiarazione è in parte falsa, mi mandino gli dei i guai a non finire che danno a chi li offende con uno spergiuro!» Disse, e tagliò la gola al cinghiale con la spietata arma di bronzo. Poi Taltibio roteava per aria la bestia, e la scagliò nel vasto abisso del mare biancheggiante, in pasto ai pesci. Allora Achille si levò in mezzo ai bellicosi Argivi e diceva «Zeus padre, è proprio vero che tu dai agli uomini grandi sciagure! Se no, mai, io penso, avrebbe, l'Atride, provocato il mio sdegno così profondamente, né avrebbe portato via la ragazza a mio dispetto, nella sua irriducibile ostinazione. Ma purtroppo Zeus voleva che a molti Achei venisse la morte. E ora andate a mangiare! Poi attaccheremo battaglia.» Così parlò e sciolse immediatamente l'assemblea. E loro si disperdevano, ognuno verso la propria nave. I magnanimi Mirmidoni si affaccendavano intorno ai doni, e andarono a portarli alla nave del divino Achille. Posarono gli oggetti nella baracca, e qui sistemavano anche le donne i cavalli, i nobili scudieri li cacciarono in mezzo alla mandra. E allora appunto la Briseide, simile all'aurea Afrodite, appena vide Patroclo straziato così dall'acuta arma di bronzo, si abbandonava su di lui singhiozzando forte, e si graffiava con le mani il seno e il collo delicato e il bel volto. E diceva, in pianto, la donna eguale alle dee immortali «Patroclo, oh! povera me, che mi eri tanto caro! Vivo io ti lasciavo, andando via da questo alloggio, e ora ti trovo morto, o condottiero di combattenti, al mio ritorno qui. Ah, come per me una disgrazia vien dietro all'altra, sempre! Ecco, il marito che mi avevano dato il padre e la madre, me lo son visto lacerare, davanti alla città, dal bronzo aguzzo e così i tre fratelli, nati dalla mia stessa madre - gli volevo tanto bene, e tutti hanno trovato la morte. Ma tu, no, non volevi che io piangessi, quel giorno che Achille ammazzò mio marito Minete, e ne distrusse la città e mi dicevi che mi avresti fatta legittima sposa di Achille, mi avresti menata a Ftia con le navi, avresti imbandito tra i Mirmidoni il banchetto di nozze. Per tutto questo ti piango qui morto, senza darmi pace eri sempre così buono.» Così diceva piangendo le rispondevano coi loro sospiri e gemiti le altre donne, in apparenza per via di Patroclo, ma per la propria infelicità, ciascuna. Intanto gli Anziani degli Achei si stringevano attorno ad Achille e lo pregavano di prender cibo. Ma lui si rifiutava sospirando. Diceva «Vi supplico, se qualcuno di voi, cari amici, vuol farmi un piacere, non ditemi di saziarmi di cibo e di bevanda, prima della battaglia. Vedete, ho qui una feroce angoscia. Voglio resistere e tener duro fino al tramonto del sole, ad ogni costo.» Così parlava e accomiatò gli altri re. Restarono là i due Atridi e il divino Odisseo, e inoltre Nestore, Idomeneo e Fenice, il vecchio condottiero di carri. Cercavano di consolarlo del suo profondo dolore. Ma egli non poteva trovar conforto prima di cacciarsi in bocca alla guerra sanguinosa. E a un improvviso ricordo trasse un lungo sospiro e disse «E pensare che una volta eri tu, o infelice, il più caro dei miei compagni, a mettermi davanti qui nella baracca, con le tue mani, un pasto gustoso e ti movevi svelto e pronto, quando gli Achei avevano fretta di dar battaglia ai Troiani. Ora invece tu giaci lì straziato, ed io non tocco, tra tanta roba qua dentro, cibo né bevanda, per il dolore della tua perdita. Altra sventura più grave, credetemi, non poteva capitarmi. Neppure se sapessi morto mio padre, che ora a Ftia è in lacrime per la lontananza del figlio qui ed io intanto in terra straniera vado battagliando con i Troiani per via di Elena, quell'odiosa. No, neanche se venissi a conoscere la scomparsa del mio figliolo laggiù, che mi cresce a Sciro se pur vive ancora, Neottolemo pari a un dio. Prima, vedi, pensavo che soltanto io sarei perito lontano da Argo, qui, a Troia, e che tu avresti fatto ritorno a Ftia. E così me lo potevi condurre, il figlio, via da Sciro con la nave, e potevi mostrargli ad uno ad uno i miei beni, la proprietà, le ancelle e la vasta casa dall'alto tetto. Ormai, sapete, Peleo, purtroppo - me lo sento - e morto o ha forse ancora poco da vivere, tra i guai della triste vecchiaia e l'attesa continua di una brutta notizia, quella della mia fine. E un giorno o l'altro la apprenderà.» Così diceva lamentandosi e gli rispondevano con sospiri e gemiti gli Anziani, al ricordo delle persone care che ognuno aveva lasciato a casa. Ma a vederli sciogliersi in lacrime così, ne ebbe compassione il Cronide, e subito rivolgeva ad Atena tali parole «Figlia mia, sì tu hai abbandonato quel valoroso eroe. Ma dimmi, non pensi proprio più ad Achille? Eccolo là davanti alle sue navi dalle alte corna se ne sta a piangere il suo compagno. E mentre gli altri tutti sono andati a mangiare, lui è digiuno e non assaggia nulla. Su, vai a istillargli in petto nettare e ambrosia deliziosa così non avrà fame.» Con queste parole sollecitò Atena che già era ansiosa di partire. E lei, simile a falco dalle larghe ali e dallo stridulo grido, si lanciava giù dal cielo attraverso il puro sereno. E intanto gli Achei si armavano in gran fretta per tutto il campo. Ed ecco, ad Achille, ella istillò in petto nettare e ambrosia deliziosa non voleva che l'ingrata fame lo troncasse alle ginocchia. Poi se ne andava alla solida casa del padre suo onnipotente. E loro là si riversavano fuori dalle celeri navi. Come quando fitti fitti cadono giù svolazzando dal cielo i fiocchi di neve, freddi gelidi sotto la furia di Borea figlio dell'Etere così allora in gran numero venivano portati fuori dalle navi elmi lustri e scintillanti, scudi ombelicati, corazze fatte di robuste piastre e lance di frassino. Il bagliore arrivò fino al cielo, e rise tutta la terra intorno al balenio del bronzo un sordo rumore si levava ai passi dei guerrieri. E là in mezzo si armava il divino Achille. Stridevano i suoi denti gli occhi gli lampeggiavano come vampa di fuoco, in cuore gli penetrava un'ambascia intollerabile. Così pieno di furore contro i Troiani indossò l'armatura, dono del dio, che gli aveva fabbricato Efesto con arte. Prima si mise alle gambe gli schinieri eleganti e se li allacciava alla caviglia con fibbie d'argento. Poi vestì la corazza. Si appese a tracolla la spada dalle borchie d'argento, tutta di bronzo, e prese lo scudo grande e massiccio ne veniva a distanza un chiarore come di luna. In aperto mare a volte apparisce ai naviganti il lume di un fuoco acceso esso arde in alto, sui monti, dentro una stalla solitaria. E loro là, le raffiche di vento li portano via, loro malgrado, per la vasta distesa delle acque, lontano dai propri cari. Così era il luccicare che usciva dallo scudo di Achille giungendo fino al cielo, tanto era bello, e di squisita lavorazione. Poi prendeva su l'elmo pesante e se lo mise in testa. Come un astro brillava questo elmo adorno di una criniera di cavallo, si agitavano i fiocchi d'oro che Efesto aveva messo, foltissimi, intorno al cimiero. Provò allora il divino Achille, le sue armi per vedere se gli andavano bene e se ci si poteva muovere liberamente dentro. Erano per lui come ali, lo sollevavano da terra! Infine trasse fuori dalla sua custodia la lancia paterna pesante era, enorme, massiccia. Nessun altro degli Achei riusciva a brandirla, ma solo lui la sapeva, Achille, vibrare. Era un'asta di frassino del Pelio, che Chirone aveva dato a suo padre portandola di sulla cima del monte - destinata a far strage di eroi. Intanto Automedonte e Alcimo si prendevano cura dei cavalli e li legavano al giogo cinsero loro i bei pettorali, gli misero tra le mascelle i freni e tirarono a sé le briglie indietro, verso la solida cassa del carro. Automedonte prendeva la lucida frusta in mano, ben agevole, e balzò sul cocchio e dietro a lui salì Achille rivestito di bronzo, tutto rilucente nella sua armatura come il raggiante Iperione. Allora con voce terribile gridò ai cavalli di suo padre «Santo e Balio, nobilissimi figli di Podarge, pensate questa volta a ricondurre salvo il vostro auriga indietro, tra le file dei Danai, non appena saremo sazi di battagliare! E non lasciatelo là morto sul campo, come avete fatto con Patroclo!» E a lui, di sotto al giogo, parlava Santo, il cavallo dagli agili piedi si chinò ad un tratto con la testa, tutta la criniera gli cadeva giù fuori dal collare, lungo il giogo, e arrivava a terra. Fu Era a dargli la parola, la dea dalle candide braccia. Diceva «Sì, sta' pur sicuro, per questa volta ti porteremo in salvo ancora, o gagliardo Achille. Ma ti è da presso il giorno della morte e noi, credi, non ne abbiamo colpa, ma un dio grande, sì, e il destino ineluttabile. E, sappilo, non per nostra lentezza e pigrizia i Troiani tolsero le armi d'addosso a Patroclo, ma il fortissimo dio l'uccise, il figlio di Latona, là nelle prime file e ne diede ad Ettore il vanto. Noi due, vedi, ci sentiremmo di correre anche alla pari con il soffio di Zefiro, che pur è, dicono, il più leggero dei venti. Ma anche tu hai la sorte segnata devi essere abbattuto, di prepotenza, da un dio e da un uomo.» Così allora diceva e le Erinni gli troncarono la parola. E a lui, vivamente sdegnato, rispose Achille dai rapidi piedi «Santo, perché mi predici la morte? Non ce n'è proprio bisogno. Lo so bene anche da me che il mio destino è di morire qua, lontano dal padre e dalla madre. Ma pure, anche così, non desisterò prima di aver cacciato i Troiani dentro la guerra fino alla sazietà.» Disse, e alla testa dei suoi con un urlo lanciava al galoppo i cavalli. § 

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