Così là nella baracca il forte figlio di Menezio curava Euripilo ferito e loro intanto, Argivi e Troiani, battagliavano in massa. Ma non doveva più trattenere i nemici la fossa dei Danai né il muro sovrastante. Era, esso, bel largo l'avevano costruito a difesa della flotta scavandovi tutto all'intorno il fossato, - e non avevano offerto solenni sacrifici agli dei -mirando a chiuder dentro e proteggere le celeri navi e il grande bottino di guerra. Ma era stato eretto senza il volere degli immortali, e perciò non rimase saldo per molto tempo. Fintanto che era in vita Ettore e durava l'ira di Achille, e la città di Priamo sovrano non veniva distrutta, anche il grosso muro degli Achei restò in piedi. Ma quando caddero i più valorosi dei Troiani, e dei molti Argivi alcuni furono abbattuti ed altri sopravvissero, e dopo dieci anni la città di Priamo andò saccheggiata, s'imbarcavano gli Achei alla volta della loro patria. E allora Posidone e Apollo pensarono di demolire il muro, e gli rovesciavano addosso la furia dei fiumi che scorrono giù dalle cime dell'Ida verso il mare il Reso, l'Ettaporo, il Careso e il Rodio, e poi il Granico e l'Esepo divino e lo Scamandro, e inoltre il Simoenta - là dove tanti scudi di cuoio ed elmi erano caduti nella polvere, e con essi la stirpe degli eroi semidei. Di tutti questi torrenti Febo Apollo deviò lo sbocco verso un unico punto e per nove giorni sospingeva la correntia contro il muro. E Zeus intanto faceva piovere senza mai posa, deciso a sommergere la costruzione nel mare. E l'Ennosigeo con in mano il tridente era là davanti, e con le ondate scalzava tutte le fondamenta di pali e di pietre, che vi avevano messo a gran fatica gli Achei. Fece così una spianata lungo l'Ellesponto dalla impetuosa corrente. Poi ricopriva di nuovo con la sabbia la spiaggia vasta ed estesa, dopo la distruzione totale del muro. E tornò a far scorrere i fiumi nel loro letto, per dove prima inviavano in giù la bella acqua fluente. Così dovevan fare Posidone ed Apollo in avvenire. Ma allora divampava la battaglia tra alte grida intorno al solido muro, e risonavano le travi delle torri sotto l'urto dei tiri. Percossi dalla sferza di Zeus, gli Argivi si stringevano a ridosso delle concave navi e tenevan duro avevano il terrore di Ettore che provocava, da gagliardo, la rotta. Lui si batteva come sempre, sembrava una bufera. Come quando in mezzo ai cani e ai cacciatori si aggira un cinghiale o un leone fiero della sua forza si serrano quelli a formare un muro, gli si piantano di fronte e gli tirano addosso una massa di giavellotti ma il suo cuore generoso non trema di paura e non fugge, e finisce così col restare vittima del suo ardimento va e viene senza sosta, attacca lo schieramento degli uomini, e dove si avventa diritto, subito lì ripiegano le linee dei cacciatori tale era Ettore. E si moveva tra la folla a scongiurare i compagni e li spronava a traversar la fossa. Ma neppure i suoi cavalli ne avevano il coraggio, velocissimi com'erano, e nitrivano forte puntando i piedi sull'orlo estremo. Li spaventava il largo scavo non era facile passar di là con un balzo, né attraversarlo sul fondo. Vi erano rive ripide in tutta la sua lunghezza, da una parte e dall'altra. E al di sopra del pendio opposto, era munito, il fossato, di pali con la punta li avevano piantati i figli degli Achei, ed erano fitti e grossi, una buona difesa contro i nemici. Là, all'altra sponda, non sarebbe arrivato facilmente un cavallo tirando un carro dalle buone ruote a piedi invece pensavano di farcela. Fu allora che Polidamante si avvicinava all'ardito Ettore e disse «Ettore e voi altri condottieri dei Troiani e degli alleati, è una pazzia lanciare i cavalli traverso la fossa. Passarla è molto difficile. Ci sono, guardate, quei pali aguzzi, e vicino ad essi sta il muro degli Achei. Lì non è in alcun modo possibile discendere né ingaggiare battaglia con i carri è un luogo stretto, lo vedete, e vi avremo di sicuro la peggio. Se Zeus, credetemi, intende nella sua collera sterminarli là, e ha proprio voglia di dar aiuto ai Troiani... oh, sì, vorrei avvenisse anche subito, che senza gloria perissero qui, gli Achei, lontano da Argo! Ma se fanno un ritorno offensivo, se parte dalle navi il contrattacco e noi ci troviamo qui impigliati in fondo al fossato, neppure uno, penso, tornerà più indietro verso la città a darne la notizia, sotto l'incalzare degli Achei. Via allora, seguiamo tutti il mio consiglio! Gli aurighi trattengano i cavalli all'orlo della fossa, e noi a piedi, armati di tutto punto, andiamo dietro ad Ettore in massa, uniti e compatti! Così, vedrete, gli Achei non resisteranno. Per loro stanno ormai annodati i lacci della morte.» In tal modo parlava Polidamante e piacque ad Ettore la sua proposta avveduta. Subito allora saltò giù dal carro in armi a terra. E anche gli altri Troiani non insistevano più ad addensarsi là sui loro cocchi, ma tutti balzarono al suolo dietro l'esempio del divino Ettore. Poi ognuno ordinava al suo auriga di tener i cavalli ben in ordine al margine del fossato. Si dividevano quindi in gruppi serrando le file, e dispostisi in cinque schiere seguivano i loro capi. Alcuni andavano con Ettore e l'irreprensibile Polidamante, ed erano i più numerosi e prodi, ben decisi a far una breccia nel muro e a dare battaglia presso le concave navi. Come terzo condottiero si accompagnava a loro anche Cebrione accanto al suo carro Ettore aveva lasciato uno da meno di lui. Della seconda schiera era a capo Paride, insieme ad Alcatoo e ad Agenore. In testa al terzo reparto erano Eleno e Deifobo simile a un dio, tutt'e due figli di Priamo. L'altro comandante era il guerriero Asio Asio, sì, l'Irtacide, che da Arisbe avevano menato là grossi cavalli, fulvi di mantello, di sulle rive del fiume Selleente. A capo della quarta squadra era Enea, il valoroso figlio di Anchise e insieme a lui i due figlioli di Antenore, Archeloco e Acamante, bravi in ogni sorta di combattimento. Sarpedone infine guidava i famosi alleati, e si era preso con sé Glauco e il battagliero Asteropeo gli parevano decisamente i più prodi tra gli altri là, dopo di lui. Egli campeggiava davvero su tutti. Quando questi guerrieri serrarono le file con gli scudi di cuoio ben lavorati, subito movevano diritti contro i Danai, pieni di smania. Erano convinti di non fermarsi più, ma di riuscir a piombare sulle nere navi. Allora tutti gli altri Troiani e i famosi alleati seguivano il consiglio dell'irreprensibile Polidamante. Solo l'Irtacide Asio, condottiero di guerrieri, non volle lasciare lì i cavalli e l'auriga, ma si spinse avanti con il cocchio verso le celeri navi. Povero sciocco! non doveva scampare alle dee malvage della morte e, orgoglioso com'era dei suoi destrieri e del suo carro, far ritorno dalla flotta là verso Ilio battuta dai venti. L'avvolse prima il destino dal nome odioso con la lancia d'Idomeneo, il nobile figlio di Deucalione. Avanzava verso il lato sinistro delle navi, dove gli Achei solevano rientrare dalla pianura con i destrieri e i carri. Per di là appunto spinse i cavalli e il cocchio. E non trovò i battenti della porta chiusi con una grossa sbarra, ma c'erano dei soldati a tenerli spalancati, pronti a salvare i compagni in fuga dal campo. Qui lui dirigeva difilato i cavalli e i suoi gli venivano dietro con alte grida, sicuri che gli Achei non li avrebbero arrestati più, e che loro sarebbero piombati sulle nere navi. Illusi! sull'entrata incontrarono due guerrieri fortissimi, magnanimi figli dei Lapiti armati di lancia. Uno era Polipete, il gagliardo figliolo di Piritoo, e l'altro era Leonteo, pari ad Ares sterminatore di mortali. I due stavano davanti alla vasta porta parevano querce dall'alta cima sopra i monti, che resistono al vento e alla pioggia ogni giorno, abbarbicate come sono con profonde e ampie radici. Così loro là confidavano sicuri nella forza delle braccia, e attendevano l'assalto del grande Asio senza fuggire. Gli altri avanzavano diritto contro il saldo muro, tenendo levati in alto gli scudi di pelle bovina disseccata e cacciando un forte grido di guerra. Venivan dietro al re Asio e a Iameno e a Oreste, dietro all'Aside Adamante e a Toone e ad Enomao. Quei due per un po' restavano sull'entrata, e spingevano tutti gli Achei a battersi in difesa della flotta. Quando però videro i Troiani buttarsi sul muro tra le urla e lo spavento dei Danai, allora si lanciarono fuori dalla porta e battagliavano là. Parevano cinghiali che sui monti sentono avvicinarsi lo strepito degli uomini e dei cani, e scattano di traverso rompendo intorno a sé le frasche e stroncandole dalle radici e via via si leva lo stridore sordo delle zanne, finché un cacciatore gli toglie con un tiro la vita. Così a loro due strideva sul petto il lucido bronzo, a ogni colpo che li raggiungeva davanti. Si battevano davvero da gagliardi contavano sui compagni là, sopra di loro, e sulle proprie forze. Quelli dalle solide torri scagliavano pietre e si difendevano; difendevano le baracche e le navi dalle rapide traversate. Cadevano i sassi al suolo come fiocchi di neve che un vento furioso riversa, nell'agitare nuvole oscure, fitti fitti sulla fertile terra. Così volavano i proiettili dalle mani degli Achei e dei Troiani e da una parte e dall'altra, all'urto dei macigni, sonavano con un secco rumore gli elmi e gli scudi ombelicati. Levava allora un grido di lamento l'Irtacide Asio, e si batté le cosce e diceva tutto irritato «Zeus padre, oh, sì, anche tu ti sei fatto grande amico della menzogna! Vedi, io pensavo che i guerrieri achei non avrebbero tenuto, davanti al nostro impeto e alle nostre braccia irresistibili. E invece, eccoli qui, son come le agili vespe e le api che quando si fanno, sai, la casa su una strada scoscesa, non abbandonano il loro nido dentro il buco, ma si piantano là a difendere i figli contro chi vuole derubarle. Così sono anche loro qua benché in due soli, non intendono ritirarsi dalla porta, pronti a uccidere o a morire.» Così diceva, ma non toccava il cuore di Zeus con le sue parole. Era deciso, il dio, a concedere ad Ettore la gloria di far irruzione per primo. Intanto si battagliava duramente presso alle altre porte. Ed è difficile per me narrare tutto qui non sono un dio. In ogni parte divampava un'accanita lotta intorno al muro di pietra. E gli Argivi erano costretti a battersi con ogni impegno per le navi. Si rammaricavano tutti gli dei, quelli almeno che soccorrevano i Danai in campo. I Lapiti avevano allora impegnato un furioso combattimento e facevano una carneficina. Ecco, Polipete, il robusto figlio di Piritoo, colpiva con la lancia Damaso, attraverso l'elmo dalle guance di bronzo esso non resistette e la punta vi passò da parte a parte e ruppe l'osso, il cervello dentro gli si spappolava tutto. Così lo abbatté, cogliendolo nella furia del suo assalto. Poi uccideva Pilone ed Ormeno. Leonteo, il bellicoso rampollo di Ares, ammazzava con l'asta il figlio di Antimaco, Ippomaco, raggiungendolo nella cintura sul ventre. Quindi estraeva dal fodero l'acuta spada e con un balzo attraverso la calca ferì da presso Antifate, che stramazzava all'indietro al suolo. Poi abbatteva via via, l'uno sull'altro, a terra, Menone e Iameno e Oreste. Mentre i due Lapiti spogliavano i caduti delle loro armi luccicanti, i giovani che seguivano Polidamante ed Ettore - ed erano i più numerosi e prodi, tutti impazienti di sfondare il muro e attaccar fuoco alle navi - ecco, stavano ancora là indecisi all'orlo della fossa. Un prodigio era loro comparso, proprio nel momento che non vedevan l'ora di passar di là un'aquila volava alta in cielo lasciandosi l'esercito a sinistra. Teneva tra gli artigli un serpente mostruoso, rosso sangue, ben vivo, che si divincolava ancora, non aveva rinunciato alla lotta. E così la colpiva di tra la stretta al petto, vicino al collo, ritorcendosi all'indietro. Ed essa lo lasciò andare a terra, per la fitta e lo spasimo lo buttava giù in mezzo alla massa dei guerrieri, e con uno strido volava via insieme ai rapidi soffi del vento. Rabbrividirono i Troiani al vedere il serpe guizzante là al suolo, in mezzo a loro era un segno del volere di Zeus egioco! Allora Polidamante si accostò all'intrepido Ettore e disse «Ettore, sempre, non so come, nelle assemblee tu mi dai contro eppure do pareri sensati. No, secondo te, non è giusto che uno del popolo esprima un'opinione diversa, né in Consiglio né sul campo mai, ma deve accrescere in ogni occasione il tuo prestigio. Ora però voglio dire francamente ciò che mi pare sia il meglio. Non avanziamo a combattere con i Danai per impadronirci delle navi! Ecco, credimi, come finirà l'impresa, sono certo se è vero che il prodigio qui è comparso per i Troiani, proprio quando smaniavano di passar di là. L'aquila volava alta in cielo lasciandosi il nostro esercito a sinistra, e teneva tra gli artigli un grosso serpente rosso sangue, ancora vivo ad un tratto l'ha mollato giù prima di giungere al suo nido, e non è arrivata a portarlo in dono ai suoi piccoli. Così sarà di noi se anche riusciamo ad abbattere con grande sforzo le porte e il muro degli Achei, e loro cedono, non faremo ritorno dalle navi in buon ordine per la stessa strada. E tanti Troiani, sappilo, li lasceremo sul campo, trucidati dagli Achei nella loro difesa delle navi. Ecco come ti potrebbe rispondere un indovino, se sa interpretare esattamente i prodigi e se gli altri son disposti a credergli.» E a lui, guardandolo torvo, rispondeva Ettore dall'elmo lampeggiante «Polidamante, non mi piace la proposta che tu qui fai. Sai ben trovare qualche altra idea migliore di questa. Ma se parli così davvero, sul serio, allora, te lo dico, gli dei ti hanno tolto il senno. Ecco, mi consigli di scordarmi della decisione di Zeus tonante, di quanto mi ha promesso e assicurato, e poi m inviti a prestar fede agli uccelli in volo ad ali spiegate! No, non ci bado e non me ne do pensiero. Possono ben andare a destra, verso l'aurora e il sole, come a sinistra, verso l'oscuro occidente! Noi, vedi, ubbidiamo al volere del grande Zeus, che regna sovrano su tutti i mortali e su gli dei immortali. C'è un solo presagio per me veramente buono combattere per la patria! Ma tu perché hai paura della guerra e della strage? Senti, se anche noi altri cadiamo tutti presso le navi degli Argivi, non c'è pericolo che tu perisca non hai, lo sappiamo, un cuore da tener duro di fronte al nemico, né voglia di combattere. Se tu però cerchi di tenerti lontano dalla carneficina e di distogliere con le tue chiacchiere qualcun altro dalla lotta, subito qui sotto i colpi della mia lancia perderai la vita.» Così parlava e si avviò avanti gli altri lo seguivano con un gridare straordinario. E allora Zeus fulminatore suscitò dai monti dell'Ida una burrasca di vento, che trasportava la polvere diritto contro le navi e così avviliva il morale degli Achei, mentre concedeva gloria ad Ettore e ai Troiani. Facendo affidamento dunque nei prodigi del dio e nelle proprie forze, tentavano con accanimento di sfondare il grosso muro degli Achei. Cercavano di strappare i merli delle torri e di gettar giù i parapetti, smovevano con leve i pilastri sporgenti che gli Achei avevano piantato in terra, sul davanti, a sostegno delle torri. A rovesciarli miravano, i Troiani, sperando così di aprire una breccia nel muro. I Danai tuttavia non recedevano ancora dalle loro posizioni, ma si assiepavano con gli scudi di cuoio a protezione dei parapetti, e colpivano di lassù i nemici, che avanzavano sotto il muro. I due Aiaci intanto andavano e venivano da ogni parte sul bastione, a impartire ordini e a ridestare l'energia degli Achei e agli uni dicevano buone parole, altri invece li strapazzavano aspramente, se li vedevano svogliati alla lotta. Gridavano «Amici, bravi o meno che siate tra gli Argivi - uguali, lo sapete, non si è in guerra - qui ora c'è da fare per tutti! E lo vedete anche da voi. Su, nessuno si volti verso le navi dopo il mio incitamento, ma lanciatevi avanti e spronatevi l'un l'altro! Può darsi che Zeus Olimpio ci conceda di respingere l'attacco e inseguire i nemici fino in città.» Così loro là, gridando a gran voce, riaccendevano la battaglia. E come cadono folte le falde di neve in una giornata d'inverno quando il provvido Zeus comincia a fioccare, mostrando agli uomini il suo dardeggiar pungente ha addormentato i venti e si riversa giù senza sosta, fino a coprire le vette degli alti monti e le rupi elevate, le pianure in cui cresce il trifoglio e i fertili campi lavorati dagli uomini e la neve si posa persino nei porti e sulle rive del grigio mare, ma l'onda battendo contro la spiaggia la disperde tutte le altre parti ne sono avvolte, quando precipita insistente quel piovere di Zeus fitte così volavano le pietre da una parte e dall'altra, sia addosso ai Troiani sia sugli Achei. E si colpivano a vicenda. Si levava il frastuono sopra l'intero bastione. Ma neppure allora i Troiani e lo splendido Ettore sarebbero riusciti a sfondare la porta con la sua grossa sbarra, se il saggio Zeus non spingeva contro gli Argivi suo figlio Sarpedone. E fu come un leone all'assalto dei buoi dalle corna ricurve. Prontamente si pose innanzi lo scudo rotondo, ben equilibrato in ogni sua parte bellissimo era, di bronzo lavorato a martello, glielo aveva fatto un fabbro, e dentro aveva ricucito parecchie pelli di bue con borchie d'oro, di seguito, tutto in giro. Questo era lo scudo che lui si teneva davanti, e agitando due aste prese ad avanzare. Pareva un leone cresciuto tra i monti, che da lungo tempo è a digiuno di carne la sua fierezza lo spinge ad entrare pure dentro un solido recinto, per assalire il bestiame. E se anche trova là i pastori con i loro cani e gli spuntoni a guardia del gregge, non intende lasciarsi scacciare dall'ovile senza aver tentato il colpo, ma con un balzo o riesce a ghermire qualche animale o cade là, allo sbaraglio, ferito da uno spiedo vibrato con pronta mano. Così allora il divino Sarpedone aveva l'audacia di avventarsi contro il muro e di spezzare i parapetti. E all'improvviso parlava a Glauco, figlio di Ippoloco «Glauco, come mai, dimmi, siamo onorati, noi due, in Licia, più degli altri, con un posto di riguardo nei banchetti e i pezzi di carne e le coppe colme di vino e tutti ci contemplano laggiù come dei? E poi ci godiamo lungo le rive del Santo un vasto fondo, bello di piantagioni e di fertile terra arativa? E allora è nostro dovere stare in prima fila coi Lici a piedi saldi, e buttarci nell'accesa battaglia! Così potrà ben dire ognuno dei Lici dalla forte corazza "Non certo senza gloria detengono il potere nella Licia i nostri re, mangiandosi grasse pecore e bevendo vino prelibato dolcissimo ma hanno, si vede, la forza dei prodi, perché combattono tra i primi." Ecco quindi, o caro, cosa ti dico se evitando la lotta qui, potessimo per sempre davvero essere immuni da vecchiaia e immortali, né io, credi, mi batterei in prima linea, né spingerei te dentro la mischia che dà gloria agli eroi. Ora invece, lo sai, ci stanno sopra le dee della morte in mille circostanze, e non è possibile ad uomo sfuggirle né scansarle. Avanti, dunque! O daremo gloria ad altri o la conquisteremo noi!» Così parlava. E Glauco non si traeva indietro, era d'accordo con lui. E i due là avanzavano in testa alla grande massa dei Lici. A vederli, si sentì venir freddo Menesteo, il figlio di Peteo movevano, era chiaro, contro la sua torre, mettendolo nei guai. E allora si guardava intorno ansioso, lungo il bastione, a cercar qualcuno dei capi che gli tenesse lontano dai compagni la rovina. Scorse i due Aiaci, mai stanchi di lottare, piantati là e c'era Teucro che veniva allora dalla sua baracca. Stavano non distanti, è vero ma gli era assolutamente impossibile farsi sentire per quanto gridasse, tanto grande si levava il fracasso - tra le urla che andavano al cielo - dei colpi sugli scudi e sugli elmi, degli urti contro le porte. Queste erano tutte sbarrate e i Troiani insistevano a sfondarle a viva forza e a far irruzione dentro. Spediva in fretta da Aiace l'araldo Toote «Va', Toote, di corsa a chiamare Aiace! No, tutt'e due! È molto meglio, credi. Ecco, da un momento all'altro accadrà qui un disastro tanto, vedi, premono i condottieri dei Lici. Già da un bel po' sono una furia nelle violente mischie. Ma se anche là c'è una dura lotta, almeno venga il solo Aiace Telamonio, e anche Teucro insieme a lui, che sa tirare con l'arco!» Così diceva e l'araldo ascoltava e ubbidì prontamente. Si mise a correre lungo il muro degli Achei vestiti di bronzo, e andava dagli Aiaci e subito gli diceva «Aiaci, condottieri degli Argivi, il figlio di Peteo vi prega di andar laggiù, ad affrontare la lotta anche per poco. Tutt'e due, sì è molto meglio, credete. Ecco, da un momento all'altro accadrà là un disastro tanto pesantemente, sapete, attaccano i capi dei Lici. Già da tempo sono così aggressivi nelle mischie feroci. Ma se anche qui c'è una dura lotta, almeno venga il solo Aiace Telamonio, e pure Teucro con lui, che è un bravo arciere.» Così diceva e acconsentì il grosso Aiace Telamonio. Senza indugio rivolgeva al figlio di Oileo queste parole «Aiace, voi due, tu e Licomede, restate qui a incitare i Danai a battersi da prodi! Io intanto vado laggiù a fronteggiare l'assalto e torno indietro subito, non appena li ho soccorsi validamente.» Così parlava Aiace Telamonio e partì e con lui si moveva Teucro, suo fratello per parte di padre. Insieme a loro Pandione portava il curvo arco di Teucro. Quando giunsero, camminando all'interno del muro, alla torre del magnanimo Menesteo, la pressione nemica era fortissima scalavano là i parapetti, parevano una fosca tempesta i gagliardi condottieri e capi dei Lici. Si scontrarono fronte a fronte, si levò il grido di guerra. Aiace Telamonio fu il primo a far fuori un avversario era un compagno d'armi di Sarpedone, il coraggioso Epicle. Lo colpiva con un macigno a punte che stava lì, enorme, dentro il muro, accanto al parapetto, proprio in cima non lo avrebbe maneggiato tanto facilmente con entrambe le braccia un uomo del giorno d'oggi, neppure se molto giovane e forte. Egli invece lo sollevava lanciandolo di lassù, e gli fracassò l'elmo a quattro creste, gli sfracellò le ossa della testa tutte insieme. Ed Epicle parve un saltimbanco nel cader giù dall'alta torre la vita abbandonava le sue articolazioni. Teucro a sua volta ferì con una freccia Glauco, il robusto figlio di Ippoloco, mentre si lanciava all'assalto dell'elevato bastione. Gli aveva visto il braccio scoperto e lo mise fuori combattimento. Allora l'eroe saltò giù dal muro alla chetichella non voleva che lo scorgesse, piagato così, qualcuno degli Achei e ne menasse vanto. Sarpedone ebbe un vivo dispiacere per l'allontanarsi di Glauco, non appena se n'accorse. Non rinunciava però alla lotta, e con l'asta raggiungeva il Testoride Alcmeone trafiggendolo, e ne trasse via l'arma dietro alla lancia, lui crollò giù bocconi, gli risonarono intorno le armi di bronzo adorne di fregi. Poi afferrò, Sarpedone, con mani vigorose il parapetto e lo tirava giù con forza cedette tutto da un capo all'altro, il muro restò, sopra, scoperto. Aperse così un varco a molti guerrieri. Ma Aiace e Teucro l'attaccavano contemporaneamente. L'uno lo colpì con un dardo sopra la lucida cinghia dello scudo .che lo copriva per intero. Zeus però tenne lontano da suo figlio le dee della morte, impedendo così che fosse abbattuto presso le poppe delle navi. Aiace dal canto suo, con un balzo, gli trafisse lo scudo la lancia trapassava intera e respinse via la furia del nemico. Si ritrasse indietro, Sarpedone, per un momento dal parapetto, ma non si ritirava affatto, nella viva speranza di acquistarsi gloria. Si voltò allora a incitare i Lici simili a dei «O Lici, perché desistete così dall'aspra lotta? É difficile, vedete, per me, anche se sono gagliardo, sfondare da solo il bastione e aprirvi una via verso le navi. Su, all'assalto tutti insieme dietro a me! L'unione fa la forza.» Così diceva ed essi, intimoriti da quel gridare, si serrarono intorno al loro signore e consigliere. Dalla parte opposta gli Argivi, all'interno del muro, rinforzavano le loro file. Ben dura gli si presentava l'impresa. Né i robusti Lici riuscivano a sfondare il bastione dei Danai e ad aprirsi un varco verso le navi, né i Danai battaglieri erano capaci di ricacciare indietro dal muro i Lici, ora che c'erano a ridosso. Come litigano due uomini per le pietre di confine con in mano le pertiche, in un campo comune, e disputano per il proprio diritto su una lingua di terra così Lici e Achei allora non li separavano che i parapetti. E sopra là si rompevano con furia, gli uni sul petto degli altri, i rotondi scudi di cuoio e le targhe maneggevoli, rivestite di pelli villose. E molti venivano feriti dalla spietata arma di bronzo, se appena si scoprivano, nel voltarsi, la schiena durante la lotta, e molti anche erano colpiti di fronte, attraverso lo scudo. Dappertutto ormai torri e parapetti erano bagnati dal sangue dei Troiani e degli Achei, da una parte e dall'altra. Ma neppure così riuscivano, i Troiani, a provocare la fuga degli Achei questi tenevano duro. Era come quando un'onesta filatrice regge la bilancia con un peso su un piatto e la lana nell'altro, e cerca di equilibrarli intanto che la solleva e così procura un misero salario per i suoi figlioli. Nella stessa maniera si pareggiava là la lotta e la battaglia, fino al momento almeno che Zeus volle dare al Priamide Ettore un'altissima gloria. Fu lui il primo a balzar dentro il muro degli Achei. Gridava allora forte, facendosi udire dai Troiani «Avanti, o Troiani! Aprite una breccia nel muro degli Argivi, e date fuoco alle navi!» Così diceva spronandoli. Tutti lo sentirono bene, e movevano compatti all'assalto del bastione. E là salivano sui merli puntando le lance. Ettore diede di piglio a un macigno e lo veniva spostando. Giaceva lì davanti alla porta, era largo alla base e aguzzo in cima. Due uomini, i più robusti del loro paese, non lo leverebbero da terra tanto facilmente per caricarlo su un carro, al giorno d'oggi. Lui lo maneggiava con scioltezza da solo! Glielo aveva reso leggero il figlio di Crono dai tortuosi pensieri. Come quando un pastore porta, spedito, il vello di un montone tenendolo con una mano, e poco gli pesa quel fardello così Ettore trasportava per aria il masso verso i battenti della porta che sbarravano l'entrata con la loro salda compagine. Essa era a doppia imposta e ben alta di dentro due spranghe la fermavano, incrociandosi in senso opposto un'unica chiave le teneva insieme. Si faceva ben sotto e con scattante energia, piantandosi bene sulle gambe, tirava al centro non voleva che il colpo fosse debole. Divelse entrambi i cardini il pietrone cadde dentro con tutto il suo peso. Rintronava forte la porta all'intorno, le sbarre non resistettero, i battenti volarono in pezzi qua e là, sotto quell'urto. E lui allora balzò dentro, lo splendido Ettore, simile, nell'aspetto, a notte improvvisa. Risplendeva nel bronzo terribile che aveva indosso, teneva in pugno due lance. Nessuno l'avrebbe potuto trattenere in uno scontro fronte a fronte, all'infuori di un dio, quando si slanciò dentro la porta. I suoi occhi ardevano di fuoco. Si voltò allora verso la massa, a gridare ai Troiani di saltar il muro e quelli ubbidirono al suo incitamento. Subito alcuni scavalcavano il bastione, altri irrompevano dentro la porta. E i Danai fuggivano alle concave navi. Ne nacque uno scompiglio senza fine. §