Aurora dal peplo color arancione si diffondeva sulla terra intera, quando Zeus convocò l'assemblea degli dei sopra la vetta più alta dell'Olimpo, tra molte cime in giro. Prendeva lui la parola, gli altri stavano a sentire. Diceva «Ascoltatemi, o dei e dee tutti quanti, intendo dirvi una cosa, ne ho proprio voglia. Nessuna divinità, femmina o maschio che sia, si attenti a infrangere il mio ordine! Lo dovete rispettare all'unanimità, senza eccezioni. Così sbrigo presto qui le faccende. Se vedo uno, vi avviso, andare da solo, di sua testa, a portar soccorso ai Troiani o ai Danai, lo colpirò con la folgore, e non farà un bel vedere di ritorno all'Olimpo oppure lo afferro e scaravento dentro il Tartaro tenebroso, ben lontano, dove la voragine sotterra è più profonda. Laggiù, la porta è di ferro, la soglia di bronzo tanto al di sotto dell'Ade, quanto il cielo dista dalla terra. Allora capirà, credete, come io sono il più gagliardo di tutti i numi. Su, avanti, fatene la prova, o dei così lo vedrete! Appendete al cielo una corda d'oro, e attaccatevi tutti quanti, dei e dee. No, non ce la farete, vi dico, a trascinare al suolo Zeus qui, la mente suprema, neppure con ogni sforzo. Ma quando anch'io volessi dar una stratta sul serio, ecco, vi tiro su insieme alla terra intera e al mare, e poi lego la fune a un picco dell'Olimpo - e tutto resterebbe là sospeso per aria. Tanto, sappiatelo, io sto al di sopra degli dei e degli uomini!» Così diceva. E tutti restarono muti, in silenzio, per la sorpresa di quel linguaggio aveva parlato con molta brutalità. Solo più tardi prendeva la parola la dea dagli occhi lucenti, Atena «O padre nostro Cronide, sommo tra i sovrani, lo sappiamo bene anche noi la tua potenza è indomabile. Ma pure abbiamo pietà dei Danai guerrieri, che andranno incontro a un brutto destino di morte. Sì, credi, ci terremo lontano dal campo di battaglia, come tu vuoi intendiamo però dare un suggerimento agli Argivi, che sia loro utile. Così non periranno tutti per via della tua ira.» E a lei rispondeva sorridendo l'adunatore dei nembi, Zeus «Stai di buon animo, Tritogenia, figlia mia! Non ti parlo, vedi, con cuore sereno, ma con te voglio essere buono.» Così diceva e aggiogava al carro i cavalli dagli zoccoli di bronzo volavano velocissimi, avevano lunghe criniere d'oro. Poi si vestì d'oro anche lui, afferrò una frusta pur essa d'oro, ben lavorata, e saliva sul suo cocchio. Sferzò i cavalli alla corsa ed essi di buona voglia presero il volo tra la terra e il cielo. Giunse all'Ida ricca di sorgenti, madre di fiere, proprio sul Gargaro, dove aveva un recinto sacro e un altare odoroso di incenso. Qui fermò i cavalli, il padre degli uomini e degli dei li staccava dal carro, intorno sparse molta nebbia. Poi si metteva a sedere sulla vetta, lieto e fiero della sua gloria, e contemplava la città dei Troiani e le navi degli Achei. Loro intanto prendevano il pasto, i chiomati Achei, in fretta, tra le baracche, e subito dopo indossavano la corazza. I Troiani, dall'altra parte, si armavano per la città erano in meno, ma anche così non vedevano l'ora di battersi in campo aperto, per forza di cose, in difesa dei figli e delle mogli. Si spalancavano tutte le porte, e ne irrompeva fuori la folla dei combattenti, a piedi e sui carri. Si levava un grande frastuono. E come giunsero con la loro marcia in un unico luogo fronte a fronte, subito si scontrarono con gli scudi di cuoio e con le lance in un impeto di furore - quei guerrieri dalla corazza di bronzo. E gli scudi ombelicati cozzarono l'uno con l'altro un enorme strepito era nell'aria. E allora insieme si levavano urli di lamento e grida di trionfo tra i combattenti c'era chi uccideva e chi veniva ucciso. Scorreva di sangue la terra. Fintanto che era mattina e cresceva il sacro giorno, da entrambe le parti volavano i tiri e uomini cadevano. Ma quando il sole ebbe percorso la metà del cielo, ecco che allora Zeus padre tendeva la bilancia d'oro e vi posava sopra due destini di morte dolorosa uno era dei Troiani domatori di cavalli, l'altro degli Achei rivestiti di bronzo. Poi la tirava in su, prendendola giusto nel mezzo s'inclinava il giorno fatale degli Achei. Sì, la sorte degli Achei si posò sulla fertile terra, quella dei Troiani salì verso il cielo. Il dio allora tuonava forte dall'Ida, e mandò un bagliore fiammeggiante tra le schiere degli Achei e loro, a quella vista, trasalirono di stupore, e tutti li afferrava la pallida paura. In quella occasione né Idomeneo né Agamennone ebbero la forza di resistere e neanche i due Aiaci, servitori di Ares, tenevano duro. Solo restava al suo posto Nestore il Gerenio, guardiano degli Achei non proprio di sua volontà. Ma uno dei suoi cavalli era tutto dolorante gliel'aveva colpito con una freccia il divino Alessandro, lo sposo di Elena dalle belle chiome. In cima alla fronte lo feriva, là dove crescono sul cranio i primi ciuffi della criniera equina, ed è un punto davvero mortale. Per lo spasimo la bestia s'impennò, il dardo entrava nel cervello e metteva in trambusto la pariglia, con il suo divincolarsi intorno all'arma di bronzo. Intanto che il vecchio là, con un balzo, tagliava a colpi di spada le tirelle del cavallo di volata, ecco sopraggiungere tra il tumulto della fuga il rapido carro di Ettore portava l'ardimentoso guerriero. Era Ettore, sì! E certo il vecchio avrebbe perduto allora la vita, se prontamente non se n'accorgeva Diomede. Con un formidabile urlo chiamava in aiuto Odisseo «Figlio di Laerte, Odisseo, dove scappi voltando le spalle come un vigliacco in mezzo alla massa? Bada che qualcuno non ti pianti, durante la fuga, l'asta nella schiena! Su, fa' fronte all'assalto, e allontaniamo dal vecchio quel selvaggio guerriero!» Così diceva ma non gli diede ascolto il paziente divino Odisseo, e passò oltre correndo fino alle concave navi degli Achei. Il Tidide allora da solo avanzò in prima fila, e si piantava davanti ai cavalli del vecchio Nelide. E a lui rivolgeva parole «O vecchio, sì, lo vedo, i combattenti giovani ti mettono nei guai. Ecco, il tuo vigore è fiaccato, ti è compagna la gravosa vecchiaia e inoltre hai uno scudiero senza grande forza e cavalli lenti. Ma via, monta sul mio cocchio! Così vedrai che destrieri ho sono quelli di Troo. Sanno per la pianura inseguire rapidamente, di qua e di là, e battere in ritirata. Li ho portati via ad Enea provocano terrore e fuga. Dei tuoi, là, si prenderanno cura i nostri scudieri. E intanto noi due lanceremo questi qui contro i Troiani. Pure Ettore deve provare se la mia lancia è anch'essa una furia tra le mie mani!» Così diceva e prontamente acconsentì Nestore il Gerenio, condottiero di carri. Dei cavalli di Nestore si occuparono allora i forti scudieri, Stenelo e il generoso Eurimedonte. E gli altri due salirono insieme sul cocchio di Diomede. Nestore prese in mano le redini lucenti e sferzò le bestie. Furono ben presto vicino ad Ettore. Lui gli si avventava con furore, difilato, contro. E il figlio di Tideo scagliò la lancia. Sbagliava il tiro colpì però l'auriga Eniopeo, il figliolo del magnanimo Tebeo, che reggeva le redini dei cavalli. Al petto lo feriva, presso la mammella. Crollava giù dal carro diedero un balzo indietro i destrieri, con pronti piedi. A lui si dissolse là il soffio vitale e la forza. Un atroce dolore serrò l'animo di Ettore, per la sorte del suo auriga pure lo lasciava lì steso a terra, il suo compagno d'armi, nonostante il dispiacere. E andava a cercarne un altro pieno di ardimento. Non rimasero a lungo, i suoi cavalli, senza guida ben presto trovò l'intrepido Archettolemo, il figlio di Ifito. Lo fece montare sul carro, gli dava le briglie in mano. Allora sarebbe avvenuto uno sterminio, un disastro irreparabile, e i Troiani sarebbero stati rinchiusi come agnelli dentro Ilio, se prontamente non se n'accorgeva il padre degli uomini e degli dei. Fra un tuonare spaventoso, scagliò un fulmine abbagliante e lo fece cadere giù a terra davanti al carro di Diomede. Una fiammata si levò, terribile, con odore di zolfo bruciato, e i due cavalli, nello spavento, si rannicchiarono sotto il giogo. A Nestore sfuggirono di mano le lucide briglie. Ebbe paura anche lui e disse a Diomede «Tidide, via, ascoltami volta i cavalli in ritirata! Non vedi che da Zeus non ci viene aiuto? Ora, credimi, il Cronide concede gloria a lui là, per oggi. Un'altra volta poi la darà anche a noi, se ha voglia. Nessuno, sai, può tirare dalla sua la volontà di Zeus, neanche se è molto forte. Il dio è senza confronto più potente.» E a lui rispondeva allora Diomede, valente nel grido di guerra «Sì, tutto questo è vero, o vecchio hai parlato bene. Ma un vivo cruccio qui mi penetra nel profondo del cuore. Ecco, un giorno dirà, Ettore, parlando in mezzo ai Troiani "Il Tidide io l'ho cacciato in fuga, ed è corso alle navi!" Così un giorno si vanterà. E allora vorrei mi si spalancasse la terra sotto i piedi!» Gli rispose Nestore il Gerenio condottiero di carri «Ahimè, figlio del valoroso Tideo, cosa mai hai detto! Vedi, se anche Ettore ti chiamerà vile e codardo, Troiani e Dardani non gli crederanno e neanche le spose dei Troiani, a cui hai gettato nella polvere i fiorenti mariti.» Così parlava, e girò i cavalli dalla solida unghia in ritirata, di nuovo tra la calca dei soldati in fuga. E alle sue spalle i Troiani ed Ettore, con un vociare straordinario, rovesciavano dardi e strazio. E allora mandò un lungo grido il robusto Ettore dall'elmo lampeggiante «Tidide, troppo ti onoravano i Danai con un posto di riguardo nei banchetti e i pezzi di carne e le coppe colme di vino. Ma d'or in avanti non avranno più stima di te ecco, ti sei fatto una donnicciola! Vai alla malora, va', miserabile pupattola! No, io non cederò. E tu non riuscirai a scalare le nostre mura né a menar via le donne sulle navi. Sarò io a darti prima la morte.» Così diceva. E il Tidide fu lì indeciso, se girare i cavalli e affrontarlo in duello. Per ben tre volte rimase incerto, e per tre volte dalle cime dell'Ida il provvido Zeus tuonava, dando ai Troiani il segnale di un rovesciarsi del fronte e di un pieno successo in campo. Ettore spronava i Troiani con un lungo urlo «Troiani e Lici, e voi Dardani bravi nei corpo a corpo, siate uomini, amici, e pensate all'aspra lotta! Ecco, vedo che il Cronide, nella sua bontà, assicura a me la vittoria e una gloria grande, ai Danai invece sventura. Poveri illusi! Guardate, hanno inventato qui un muro che fa pietà e non vale niente. Non arginerà di certo la nostra furia. E i cavalli con facilità passeranno d'un salto la fossa profonda. Ma quando arriverò alle navi, ricordatevi del fuoco! Voglio incendiare la flotta e massacrare là gli Argivi nello stordimento del fumo.» Così diceva e gridò ai suoi cavalli a gran voce «Santo e tu, Podargo, e voi Etone e Lampo, ora mi dovete ripagare delle tante cure che ha Andromaca per voi. È lei che vi mette davanti il saporito frumento e vi dà da bere del vino, quando ne avete voglia. Sì, prima a voi che a me e le sono marito! Su, via, all'inseguimento, di corsa! Così ci impadroniremo dello scudo di Nestore, la cui fama ora arriva al cielo è tutto d'oro, dicono, imbracciature e il resto. E poi strapperemo d'addosso a Diomede la corazza tutta lavorata, che gli ha fabbricato Efesto. Oh, se ci riusciremo, spero davvero di far imbarcare gli Achei stanotte sulle rapide navi.» Così diceva con aria di trionfo. E s'indignava l'augusta Era si dimenò sul suo seggio e fece tremare il vasto Olimpo. E allora parlava al grande dio Posidone «Ahimè, o potente Ennosigeo! Neanche tu, vedo, hai compassione della rovina dei Danai. E dire che loro ti portano a Elice e ad Ege tante offerte preziose. Trova dunque il modo di dar loro la vittoria! Ecco, se proprio volessimo, noi tutti protettori dei Danai, ricacciare indietro i Troiani e opporci a Zeus, lui resterebbe là solo, sull'Ida, con il suo cruccio.» E a lei, vivamente irritato, rispose l'Ennosigeo sovrano «Era, una linguaccia sei! Cosa t'è saltato in mente di dire? Per conto mio, non vorrei proprio che noi altri qui si lottasse con Zeus Cronide. Lui è, lo sai, molto più potente.» Così essi ragionavano tra di loro. Intanto là, fuori dal recinto delle navi, lo spazio tra la fossa e il muro era pieno di cavalli e di guerrieri, tutti accalcati. E a dargli addosso era Ettore figlio di Priamo, simile ad Ares impetuoso, ora che Zeus gli accordava la gloria. E avrebbe sì incendiato con il fuoco divampante le navi ben equilibrate, se l'augusta Era non suggeriva ad Agamennone l'idea di darsi da fare di persona, alla svelta, a incoraggiar gli Achei. Ecco, si mosse per andare lungo le baracche e la flotta, reggendo con la grossa mano l'ampio mantello purpureo e si piantò accanto alla nera nave di Odisseo, dal vasto ventre, che stava proprio al centro. Voleva farsi sentire da una parte e dall'altra, tanto agli alloggiamenti di Aiace Telamonio che a quelli d'Achille alle due estremità avevano, essi, tirato in secco le navi, sicuri com'erano del proprio valore e della forza delle loro braccia. Gridava allora forte, facendosi udire dai Danai «Vergogna, Argivi! Miserabili vigliacchi, solo di bella apparenza! Dove sono andate a finire le vostre vanterie? Eravamo, a chiacchiere, tutti eroi, là a Lemno, quando parlavate da spacconi mangiando carni a non finire di buoi, e bevendo coppe di vino colme fino all'orlo. Eravate pronti allora a far fronte in campo a cento, a duecento Troiani! Ora invece non teniamo testa a uno solo a Ettore, sì, che tra poco darà fuoco alle navi. Oh, Zeus padre, dimmi, hai mai accecato così, con una tale sciagura, qualcun altro dei re sovrani, togliendogli la sua grande gloria? No, mai, credi, te lo assicuro, son passato oltre con la nave davanti a un tuo magnifico altare, venendo per mio malanno qui ma su tutti bruciai grasso e cosce di buoi, nella mia smania di abbattere le salde mura di Troia. Su, Zeus, esaudisci almeno questo mio desiderio! Loro qui, fa' che riescano a scampare e a salvarsi! Non permettere che gli Achei siano abbattuti dai Troiani in questa maniera!» Così parlava. E Zeus padre lo commiserò a vederlo in pianto, e gli diede assicurazione che l'esercito sarebbe salvo, non veniva sterminato. Subito mandava un'aquila, il più perfetto dei volatili teneva tra gli artigli un cerbiatto, il piccolo di un'agile cerva, e lo lasciò cadere vicino al bellissimo altare di Zeus, dove gli Achei solevano sacrificare al dio signore di ogni rivelazione. Quando loro videro che il buon augurio veniva da Zeus, si buttarono con ardore addosso ai Troiani e non pensarono che a battersi. Nessuno allora dei Danai che pur erano in tanti, poté vantarsi di esser stato più pronto del Tidide nel tenere i rapidi cavalli, e nel lanciarli oltre la fossa e nell'ingaggiare la lotta. Fu lui il primo, senz'altro, che abbatté un guerriero troiano, Agelao figlio di Frammone. Girava, questi, i cavalli per fuggire e Diomede gli piantò, appena fu voltato, la lancia nella schiena, proprio in mezzo alle spalle, e gliela cacciò dentro nel petto. L'uomo crollava giù dal carro, e risuonarono le armi su di lui. Subito dopo venivano gli Atridi, Agamennone e Menelao, e via via gli Aiaci vestiti di energia battagliera, e Idomeneo, e il suo compagno d'armi Merione, uguale ad Enialio sterminatore di eroi, e dietro a loro Euripilo, lo splendido figlio di Evemone. Il nono ad accorrere era Teucro, che tendeva il flessibile arco. Si metteva al riparo dello scudo d'Aiace Telamonio. E là Aiace scostava un po' lo scudo e allora il guerriero, prendendo la mira, colpiva con la freccia qualcuno nella folla, e lo faceva cadere a terra morto. Poi tornava indietro, come un bambino da sua madre, a ripararsi da Aiace e lui lo copriva con lo scudo luccicante. Chi fu il primo allora dei Troiani, che l'irreprensibile Teucro ammazzò? Ecco, raggiungeva prima Orsiloco, e poi Ormeno e Ofeleste, e poi ancora Detore e Cromio e Licofonte simile a un dio, e via via Amopaone figlio di Poliemone, e Melanippo. Uno dopo l'altro, li stese tutti a terra. Fu tutto contento il signore di uomini Agamennone, a vederlo portare con il suo arco robusto la morte tra le file dei Troiani. E andava da lui, gli si fermò accanto e disse «Teucro, sei un caro ragazzo! Continua pure a tirare così! Sarai la salvezza dei Danai e la gioia di tuo padre Telamone, che ti allevava da bambino e si prese cura di te, se pure non legittimo, nella sua casa. Lui ora è là lontano e tu procuragli gloria! Ecco, una cosa ti voglio dire e si avvererà, sta' certo. Se Zeus egioco mi concede, insieme ad Atena, di distruggere la bella città di Ilio, subito dopo me verrai tu intendo metterti tra le mani un premio d'onore, o un tripode o due cavalli con il loro cocchio, o una donna che salga sul tuo stesso letto.» E a lui rispondeva l'irreprensible Teucro «Atride glorioso, perché spronarmi? Mi do da fare già da solo. E per quanto sta in me, non desisto. Ecco, da quando li abbiamo respinti verso Ilio, sto qui appostato con l'arco a far fuori guerrieri. Vedi, ho già tirato otto frecce dalla lunga punta, e si sono tutte piantate nella carne di giovani combattivi. Ma quel cane là rabbioso non riesco a coglierlo.» Disse, e vibrava dalla corda un'altra freccia contro Ettore aveva proprio voglia di raggiungerlo! Ma anche questa volta sbagliò bersaglio feriva invece al petto l'irreprensibile Gorgitione, il prode figlio di Priamo. Sua madre era la bella Castianira, venuta sposa da Esime somigliava per maestà di forme alle dee. E come un papavero in un orto piega il capo da una parte, per il peso dei semi e delle piogge di primavera, così lui reclinava da un lato la testa, gravata ormai dall'elmo. E Teucro lanciava via dalla corda un altro dardo contro Ettore il suo cuore smaniava di colpirlo. Ma pure allora sbagliò il tiro, glielo deviava Apollo. E invece coglieva al petto, presso la mammella, Archettolemo, l'ardito auriga di Ettore, nella foga dell'assalto. L'uomo precipitava giù dal cocchio diedero un balzo indietro i cavalli, con pronti piedi. A lui si dissolse là il soffio vitale e la forza. Un atroce dolore strinse l'animo di Ettore, per la sorte del suo auriga ma lo lasciava là, pur triste com'era per la perdita del compagno d'armi. E disse a Cebrione, suo fratello, che si trovava lì, di prendere lui le redini. Ed egli prontamente acconsentiva al suo invito. Ettore saltò giù dal carro luccicante a terra, gridando terribilmente. Poi afferrò con la mano un macigno e mosse contro Teucro, ben deciso a tirarglielo addosso. Proprio allora Teucro aveva tratto fuori dalla faretra un acuto dardo, e lo metteva sulla corda e quando già stava tirando, Ettore lo investì alla spalla, dove la clavicola separa il collo dal petto, ed è un punto davvero vitale. Proprio lì lo percoteva con lo scabro masso mentre mirava impaziente contro di lui, e gli ruppe la corda. Gli morì, a Teucro, il braccio al polso, e crollò là ginocchioni. L'arco gli sfuggì di mano. Aiace però non abbandonava il fratello stramazzato a terra, ma correva in sua difesa e gli pose a riparo lo scudo. Poi se lo caricavano sulle spalle due fedeli compagni, Mecisteo figlio di Echio e il divino Alastore, e lo trasportavano alle concave navi fra alti lamenti. Ancora una volta Zeus Olimpio mise energia addosso ai Troiani, e loro ricacciarono gli Achei verso la fossa profonda. In prima fila avanzava Ettore, fiero della sua forza. Come quando un cane cerca di addentare un cinghiale o un leone per di dietro, alle cosce e alle natiche, e gli dà la caccia con agili piedi e lo tiene ben d'occhio nelle sue giravolte così Ettore seguiva da presso i chiomati Achei, uccidendo via via chi restava indietro. Gli altri scappavano. Quando poi in piena rotta passarono oltre la fossa e la palizzata, - e tanti ne cadevano sotto i colpi dei Troiani -, là accanto alle navi arrestavano la loro fuga. E si chiamavano l'un l'altro, e con le braccia levate rivolgevano vive preghiere, ognuno per suo conto, a tutti gli dei. Ettore intanto faceva girare, in lungo e in largo, i suoi cavalli dalla bella criniera aveva la guardatura della Gorgone o di Ares sterminatore di mortali. A vederli laggiù, ne ebbe pietà la dea dalle bianche braccia, Era, e subito rivolgeva ad Atena parole «Ahimè, figlia dell'egioco Zeus! E allora non dobbiamo più pensare ai Danai? Sono là che periscono è questa la fine. Ecco vanno incontro a un triste destino di morte, per la furia di un solo guerriero. Sì, lui là, il Priamide Ettore, imperversa in modo intollerabile, e ha fatto ormai tanto danno.» E a lei rispose la dea dagli occhi lucenti, Atena «Oh, sì, magari perdesse costui la forza e la vita per mano degli Argivi, cadendo nella sua terra! Ma mio padre è un pazzo, non ragiona più, quel testardo! Sempre ingiusto, mi contrasta in ogni mia iniziativa. Ah, non si ricorda più che gli ho salvato tante volte il figlio, quando era nei guai per le fatiche imposte da Euristeo! Sì, lui piangeva rivolgendosi al cielo e allora Zeus spediva me dall'alto a portargli soccorso. Oh, se avessi previsto quanto ora avviene, quel giorno che Euristeo lo mandava giù nella casa di Ade a menar via dall'Erebo il cane dell'odioso dio, non sfuggiva certo alle precipitose correntie dello Stige! Ora invece mi detesta e fa il volere di Tetide che gli ha baciato le ginocchia, e gli ha preso il mento con la mano, scongiurandolo di dar onore ad Achille distruttore di città. Ma verrà, sono certa, il momento che mi chiamerà ancora "la mia cara dagli occhi lucenti". Via, tu adesso prepara per noi due i cavalli! Intanto io entro in casa di Zeus egioco ad armarmi per la battaglia. Voglio proprio vedere se il figlio di Priamo, Ettore, si rallegrerà al nostro comparire in campo, o se sarà qualcuno dei Troiani a saziare cani e uccellacci con il suo grasso e le sue carni, cadendo là presso le navi degli Achei.» Così diceva e prontamente acconsentì la dea dalle bianche braccia, Era. Lei andava, la dea veneranda figlia del grande Crono, a bardare i cavalli dai frontali d'oro. E intanto Atena, la figlia di Zeus egioco, lasciò cadere giù, sulla soglia della casa paterna, il morbido peplo a vivaci colori, che lei stessa si era fatto e lavorato con le sue mani. Poi vestiva la tunica di Zeus adunatore di nembi, ne indossava l'armatura per la battaglia dalle tante lacrime. Alla fine salì sul cocchio fiammeggiante e afferrò la sua lancia - la pesante grossa massiccia lancia con la quale abbatte le schiere degli eroi, se si adira con loro la figlia del forte Padre. Era con la frusta sferzava pronta la pariglia. Da sé si spalancava mugghiando la porta del cielo la custodivano le Ore - ad esse è affidato il vasto cielo e l'Olimpo, e il compito di rimuoverne la densa nuvola e di rimettercela ancora. Di là, per quella porta, guidavano i cavalli stimolandoli. Le scorse Zeus padre di sull'Ida e si arrabbiò terribilmente. E subito spediva con un messaggio Iride dalle ali d'oro «Vai, su, Iride! Falle tornar indietro, non lasciare che mi vengano davanti! Non sarebbe un bello spettacolo, se venissimo a guerra fra noi! Ecco, una cosa intendo dirti e si avvererà di certo. Sì, storpierò di sotto il giogo i loro rapidi cavalli, le caccerò giù dal cocchio, e il carro glielo ridurrò in frantumi. E neppure nel giro di dieci anni potranno guarire, quelle due, dalle piaghe recate dal mio fulmine. Così imparerà, la dea dagli occhi lucenti, a battersi con suo padre! Quanto a Era, non me la prendo tanto, e neanche mi arrabbio. Ha sempre il vizio lei, vedi, di darmi contro in ogni cosa che dico.» Così parlava. E a portare il messaggio si levò Iride dai piedi di procella dalle cime dell'Ida si moveva verso l'alto Olimpo. S'incontrava in loro sulla soglia dell'Olimpo ricco di convalli, e le tratteneva, rivelava l'ordine di Zeus. Diceva «Dove correte? Che pazzia è la vostra? Non permette, il Cronide, di recar aiuto agli Argivi. Ecco, questa è la minaccia di Zeus e la compirà! Vi storpierà di sotto il giogo i veloci destrieri, vi sbalzerà dal cocchio, e il carro poi lo manderà in frantumi. E neppure nel giro di dieci anni riuscirete a guarire le ferite inferte dal suo fulmine. E così tu, o dea dagli occhi lucenti, imparerai a combattere con tuo padre! Quanto a Era, non se la prende tanto e neanche si arrabbia già lei ha l'abitudine - ed egli lo sa - di dargli contro in ogni cosa che dice. Ma tu sei davvero tremenda, o cagna sfrontata, se proprio hai il coraggio di levare contro Zeus la tua lancia smisurata.» Così ella diceva, la dea Iride dai celeri piedi, e se ne andò via. E allora Era rivolse ad Atena la parola «Ah, figlia di Zeus egioco, basta!, non dobbiamo più, noi due, per amore di mortali scendere in campo contro Zeus. Che uno muoia e l'altro viva secondo il suo destino! Ci penserà lui, là, a decidere tra Troiani e Danai, come del resto è giusto.» Così parlava e girò indietro i cavalli dalla solida unghia. Le Ore staccavano le bestie dalla bella criniera, e le legarono alle mangiatoie celesti appoggiavano il cocchio alla parete luccicante. Ed esse, Era e Atena, andavano a sedersi sui seggi d'oro in mezzo agli altri dei, con la tristezza in cuore. Intanto il padre Zeus partiva dall'Ida verso l'Olimpo con il suo carro dalle belle ruote e i destrieri giunse così al consesso degli dei. I cavalli glieli staccò il glorioso Ennosigeo sistemava il cocchio sui suoi sostegni e vi stendeva sopra una coperta. Si metteva a sedere, Zeus dall'ampia voce di tuono, su un trono d'oro sotto i suoi piedi tremava il vasto Olimpo. Sole, lontane da Zeus, stavano Atena ed Era, e non gli rivolgevano parola né domanda. Ma egli comprese e parlò per primo «Perché siete tanto abbattute, voi due, Atena ed Era? Eppure non vi siete stancate davvero in battaglia a sterminare i Troiani, contro cui nutrite un odio feroce! Ad ogni modo, con la mia forza qui e le mani irresistibili che ho, non mi smuoverebbero tutti quanti gli dei dell'Olimpo. Ma voi, sì, v'ha preso la paura, prima di arrivar a vedere il campo e gli orrori della guerra. Ecco, una cosa voglio dirvi, e si sarebbe avverata di certo. No, se vi colpivo col fulmine, non facevate ritorno sul vostro cocchio qui all'Olimpo, dove è la sede degli immortali.» Così parlava e loro si misero a brontolare, Atena ed Era. Sedevano vicine l'una all'altra e meditavano la rovina dei Troiani. Ora Atena stava in silenzio e non disse parola, imbronciata com'era con Zeus padre una collera selvaggia via via la prendeva. Era invece non riuscì a trattenere l'indignazione, ma parlava «Un prepotente tu sei, o Cronide! Che razza di discorso qui hai fatto? Lo sappiamo bene anche noi la tua forza non è facile a crollare. Ma pure abbiamo pietà dei Danai guerrieri, che andranno incontro a un brutto destino di morte. Sì, credi, ci terremo lontano dalla battaglia, come tu vuoi intendiamo però dare un suggerimento agli Argivi, che gli sia utile. Così non periranno tutti per via della tua ira.» E a lei rispondeva Zeus, l'adunatore dei nembi «Ecco, domani all'alba, o Era, ti piaccia o no, vedrai anche meglio il potente Cronide menar strage nel fitto esercito degli Argivi guerrieri. E non cesserà, sappilo bene, il gagliardo Ettore dalla sua lotta vittoriosa, prima che il Pelide balzi su dal campo delle sue navi. In quel giorno loro là combatteranno presso le poppe in una tremenda stretta, per il cadavere di Patroclo. Così, vedi, vuole il destino! E quanto a te e alla tua collera, non me ne do pensiero neanche se tu andassi fino agli estremi confini della terra e del mare, dove stanno Giapeto e Crono senza più godere dei raggi del Sole né dell'aria viva, intorno a loro è il Tartaro profondo. Neppure, ripeto, se tu arrivassi vagando laggiù, non mi curo dei tuoi bronci. Non c'è niente, sai, che sia più cane di te!» Così parlava a lui nulla rispose Era dalle candide braccia. Cadeva intanto dentro l'Oceano la fulgida luce del sole, e riportava la notte nera sulla terra che dà le messi. Con dispetto dei Troiani venne il tramonto, ma per gli Achei fu una gioia il sopraggiungere della notte buia, tanto sospirata. Lo splendido Ettore faceva l'adunata dei Troiani li riuniva lontano dalle navi, sulla sponda del fiume vorticoso, in un luogo sgombro dove si apriva, tra i cadaveri, uno spiazzo. Scendevano giù dai carri a terra e stavano ad ascoltare il discorso che loro teneva Ettore, caro a Zeus. Egli aveva in mano una lancia di undici cubiti in cima all'asta luccicava la punta di bronzo, intorno vi correva un anello d'oro. A questa lui si appoggiava, e rivolgeva ai Troiani la parola «Ascoltatemi, Troiani e Dardani, e voi altri alleati! Oggi pensavo proprio di distruggere le navi e tutti gli Achei, e di far poi ritorno ad Ilio battuta dai venti. Ma prima è venuto il buio, e fu proprio questo, per ora, a salvare gli Argivi e la loro flotta sul frangente del mare. Via, cediamo per adesso alla notte scura e prepariamo il pasto della sera! Ecco, staccate dai carri i cavalli, buttate loro davanti da mangiare. Poi dovete alla svelta menar dalla città buoi e grasse pecore, e provvedervi a casa di vino e di pane, e raccogliere inoltre molta legna. Terremo accesi, durante tutta la notte, fino ai primi chiari dell'alba, tanti fuochi, con un bagliore da arrivar al cielo. Impediremo in tal modo che gli Achei tentino di fuggire, stanotte, sull'ampio dorso del mare. No, non intendo che s'imbarchino senza lotta, a tutto loro agio, ma più d'uno di loro ha da smaltire la sua piaga pur a casa, colpito come sarà di freccia o di lancia nel saltar sulla nave. Così anche qualchedun altro avrà ben paura di portar guerra e pianti ai Troiani! Una cosa ancora gli araldi vadano in città a dire ai giovinetti e ai vecchi dalle tempie canute di radunarsi sulle torri divine, lungo il giro delle mura e le deboli donne accendano un grande fuoco, ognuna nella propria casa. Bisogna fare buona guardia di continuo, se non si vuole che qualche drappello di nemici penetri insidioso in città, mentre i guerrieri son lontani. Fate così, o magnanimi Troiani, come vi dico! Ecco, le mie parole rispondono alla circostanza presente ed ho finito. Domani mattina poi darò altre disposizioni in mezzo ai Troiani. E mi auguro, con l'aiuto di Zeus e degli altri dei, di cacciar via di qua quei cani portati dal malanno sì, le dee della morte li hanno menati qui sulle nere navi. Su, allora, stiamo all'erta per questa notte! Domattina poi, con l'aurora, armati da capo a piedi, ingaggeremo una feroce battaglia presso le navi. Voglio vedere se il Tidide, Diomede il gagliardo, mi respingerà dalle navi verso le mura, o se sono io a farne strazio con la mia arma di bronzo e a portarmi via le sue spoglie insanguinate. Domani lui darà prova del suo valore, se proprio ce la fa a resistere all'urto della mia asta. Ma cadrà, son sicuro, a terra, in prima fila, sotto i miei colpi e intorno a lui cadranno molti compagni, domani, sì, al levar del sole. Oh, così fossi io immortale e immune da vecchiezza per sempre, e onorato al pari di Atena e Apollo, come non ho dubbi che stavolta questo giorno porterà la rovina agli Argivi!» Così Ettore parlava, e i Troiani levarono grida di consenso. Staccavano i cavalli di sotto il giogo, tutti grondanti di sudore e li legarono con cinghie di cuoio, ciascuno al proprio carro. Poi portavano in gran fretta dalla città buoi e grasse pecore, si provvedevano in casa di dolce vino e di pane, e inoltre raccoglievano molta legna. E ben presto l'odore delle carni arrostite se lo portavano via i venti dalla pianura fino al cielo. Così loro stavano là baldanzosi sul campo di battaglia, l'intera notte i loro fuochi ardevano in gran numero. Era come quando in cielo brillano le stelle intorno alla luna chiara, ben distinte, i giorni che l'aria è senza vento. Ed ecco appaiono tutte le alture e le creste dei monti e le vallate selvose in alto si è aperto l'azzurro puro senza fine, e si vedono gli astri tutti, e ne è felice il pastore. Tanti erano i fuochi che bruciavano fra le navi e il corso del Santo, davanti a Ilio e i Troiani li tenevano accesi. Mille erano i fuochi che ardevano nel piano e intorno a ciascuno stavano in gruppo cinquanta guerrieri, al chiarore della fiamma viva. I cavalli brucavano il bianco orzo e la spelta, in piedi accanto ai carri attendevano l'Aurora dal bel seggio d'oro. §