IX.

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TW: accenni a tentativo di suicidio, velati accenni ad autolesionismo e DCA.

Prendilo.
Prendi quel coltello.
Fallo.

Simone rimase immobile a fissare il vuoto.

Se ne stava lì, in quell’angolo di casa, piegato su sé stesso, con la speranza che un’improvvisa voragine sul pavimento lo inghiottisse per sempre.

Tremava.

Tremava di paura nonostante Alessandro fosse andato via già da qualche ora.

Era spaventato, più da sé stesso e dai pensieri distruttivi che la mente era in grado di elaborare piuttosto che da Alessandro e dalla violenza che era capace di mettere in atto.

Non avrebbe saputo descrivere il suo stato d’animo.

Sentiva un malessere interiore squarciargli il petto, un dolore capace di divorare qualsiasi altra sensazione fosse in grado di sentire.

Si sentiva solo ma non voleva nessuno accanto.
Voleva alzarsi da quell’angolino ma, un po’ per il dolore provocato dal pestaggio e un po’ perché il suo cervello non gli dava l’input necessario per farlo, rimaneva seduto lì.
Voleva essere in grado di formulare un pensiero ma era consapevole di non essere abbastanza lucido per farlo.
Voleva piangere ma si sentiva così vuoto che non riusciva nemmeno a far uscire le lacrime.

Continuava, semplicemente, a fissare il niente davanti a sé.

Il niente.
Come ciò che sei.
Guardati.
Non riesci nemmeno ad alzarti da terra.
Fai pena.

Simone riuscì a distogliere lo sguardo dal niente che, ormai, fissava da ore, e lo portò su quel coltello che Alessandro aveva lasciato cadere davanti a lui col fine di incitarlo a farsi del male.

Lo guardò a lungo.

Davanti agli occhi gli si proiettò la scena di sé stesso che raggiungeva l’arma e la utilizzava.

Ché se la facessi finita adesso nessuno se ne accorgerebbe.
Nessuno mi fermerebbe.
Ché tanto sono solo.
Solo contro Alessandro.
Solo contro me stesso.
Non ci sono mamma, papà, nonna.
Non c’è Jacopo.
Non ci sono Matteo e Chicca.
Non c’è Manuel.
Sono un peso.
Per loro e per me stesso.
Li renderei, finalmente, liberi di vivere la loro vita senza preoccupazioni.
Direi alla mia famiglia che è morto il gemello sbagliato.
Direi a Matteo e Chicca che senza di me, finalmente, possono uscire con altre persone senza le mie paranoie del cazzo che mi fanno pensare che tutti mi odino e mi portano a ricambiare questo sentimento.
Direi a Manuel che può smettere di vivere a metà, che smetto di distruggergli la vita come ho fatto da quando è entrato in classe quel maledetto giorno di metà settembre.
Renderei, finalmente, libero me stesso.

La mente lo riportò a quando aveva sedici anni, a quella calda sera di aprile in cui aveva fatto i conti col fatto che sulla Terra per lui non ci fosse più spazio.

Aveva scoperto da poche ore di avere un gemello che lui aveva dimenticato.

Aveva dimenticato Jacopo come si dimentica aperta la chiavetta del gas o la lista della spesa sul tavolo prima di uscire.

Come si può dimenticare una persona?
Come si può dimenticare un fratello?
Come si può dimenticare l'esatta metà di sé?

In quella calda sera di aprile di dieci anni prima, Simone non era riuscito a trovare risposte che non fossero delle scadenti considerazioni verso sé stesso.

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