Capitolo 32. Another Story - The Head and The Heart

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E così l'avevo fatto. Ero affogata nel dolore. L'avevo bevuto, ci ero entrata dentro, e mi era entrato dappertutto, passando dalla bocca, dagli occhi, da ogni poro della pelle, come se mi fossi trasformata in un vortice turbinoso, violento, con una forza che si rigenerava ad ogni spira attraversata, ad ogni scalino verso il basso.

Era passato quasi un anno dal giorno dell'incidente.

Sei mesi da quel Natale.

Sei mesi in cui avevo subito il primo intervento sulla pelle della tempia, giocato a carte con la nonna di Alex, prima che ci lasciasse per raggiungere il nonno nel cielo. Avevo accompagnato Giò al parco, l'avevo spinto sull'altalena sempre più forte per farlo urlare di contentezza. Lo avevo portato all'asilo quando Melanie aveva bisogno, e ignorato gli sguardi curiosi e fissi degli altri genitori sul mio velo, quello di Nicla. Dopo le prime tre volte ero diventata solo quella parente strana di Giò, e presto le altre mamme, anche quelle più pettegole, avevano rivolto ad altro i loro interessi morbosi.

Avevo ridipinto il mio appartamento, schizzando qualche goccia di vernice color Tiffany sui mobili. Avevo cambiato quelli di camera, li avevo scelti bianchi, abbandonando il vecchio color legno. La parete delle foto era stata stuccata, non c'erano più i resti dei chiodi per le cornici, era tornata liscia come se non ci fosse mai stato niente.

Sei mesi durante i quali avevo abbracciato Emma, quando aveva pianto perché Sabrina le aveva mollato uno schiaffo: a detta sua, con quella Francesca si erano solo date un bacio innocente, ma Sabrina ci aveva sofferto come un vero tradimento, quindi dopo lo schiaffo l'aveva lasciata.

Avevo fatto una prima, piccola immersione in piscina, sentendo le bollicine uscirmi dal naso timidamente, e mi ero sentita bene, là sotto: avevo aperto gli occhi riempiendomeli di cloro osservando la superficie sfocata dell'esterno vasca.

Ero uscita a fare la spesa, abbandonando la consegna a casa che avevo utilizzato fino a gennaio. All'inizio la gente non mi notava nemmeno, talmente era presa dai propri ritmi frenetici, le corse verso la fila più libera delle casse, le mani allungate senza un vero senso del bisogno sugli scaffali delle offerte. Poi, arrivata alla cassa, gli occhi di chi mi era vicino cominciavano a scrutarmi dietro il velo.

Non era un burka.

Non era un simbolo religioso, o appartenente a qualche credo.

Non era un simbolo politico.

Ero io, il simbolo.

Sei mesi di studio sugli spartiti. Il dolore era tutto lì dentro, nella Stanza, e quando vi entravo lo assorbivo per dargli nuovo vigore: l'impeto mi partiva dai piedi, il male percorreva tutta la schiena, si arrampicava sulla mia spalla ricucita, grattando con i suoi artigli tutta la lunghezza della cicatrice, scendeva dalle braccia ai polsi, e infine si fermava sulle mie dita. Seduta sul panchetto, aprivo e chiudevo le mani, lisciavo i tasti centrali. Guardavo davanti a me, con il velo legato sul viso, poi abbassavo le palpebre e lasciavo andare. Componevo.

Avevo un nuovo quaderno pentagrammato, e tutte le sue pagine erano state scritte, cancellate, riviste e modificate. Erano molte pagine.

Non c'era nessuna Emilia, stavolta. I resti di Emilia erano stati consegnati a mio padre insieme alla borsa con i miei effetti personali dentro una busta di plastica trasparente, quando era arrivato al pronto soccorso. C'era anche il mio iPhone rotto. Ma quando papà aveva provato a riconsegnarmi la borsa a tracolla io avevo scosso la testa, inizialmente.

"Perché?" mi aveva chiesto, osservando il quaderno, ridotto male ma ancora un poco leggibile.

"Va bene, la prendo." Gli avevo detto, senza ulteriori spiegazioni. Avevo portato a casa l'intero contenuto della borsa, mettendolo in una grossa bacinella per il bucato, e ci avevo versato quasi tutta la candeggina del flacone, tanto che per un attimo credevo di svenire per la reazione chimica che si stava disperdendo nell'aria. Avevo tossito in modo incontrollato, coprendomi la bocca, e sentendo i fumi del prodotto salirmi fin dentro il velo, bruciandomi gli occhi. Così mi ero velocemente trascinata alla finestra della piccola veranda e l'avevo spalancata restando inginocchiata sul pavimento, continuando a tossire con la mano sul petto. I miei gatti mi avevano osservato dalla sala sdraiati sul divano, sprezzanti.

Emilia Koll - Il velo sul visoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora